In questi giorni si parla molto di istituire un nuovo ministero per la famiglia e la natalità e della possibilità di affidarlo a Salvini. Nel frattempo, arriva anche la nomina di Lorenzo Fontana (vicesegretario della Lega e uno dei maggiori interpreti del tema della denatalità in chiave reazionaria) a presidente della Camera dei Deputati. Di seguito, vorrei riportare alcuni miei pensieri a riguardo.
Penso ci sia un tema particolarmente urgente su cui la sinistra (moderata e nella sua versione radicale) ha rinunciato a sfidare la Meloni: la denatalità. La crisi attuale non è solo economica ed energetica, ma anche – e soprattutto, direbbe qualcuno – demografica. Le statistiche sull’età media e sulla denatalità sono note, ma le loro conseguenze e implicazioni forse ci sfuggono. Quella delle nascite non è tanto una diminuzione, quanto un vero e proprio crollo che sicuramente supera per portata le quarantene degli ultimi anni. Importante è il framework all’interno del quale si inquadra la questione. I liberali, ad esempio, ne fanno una questione di contabilità nazionale: al momento, per ogni lavoratore che versa contributi c’è un pensionato, cinquant’anni fa il rapporto era 3 a 1, questo significa che l’INPS si trova costantemente sotto una pressione enorme e se crolla l’INPS crollano non solo le pensioni, ma anche i sussidi di disoccupazione, il reddito di cittadinanza e, a catena, anche la sanità pubblica e tutto il resto. Per la destra reazionaria, invece, la posta in palio è la riproduzione e conservazione della razza italica, il che comporta prese di posizione contro i diritti LGBTQ+ e criminalizzazione della popolazione migrante (aggiungerei che sicuramente parte della sinistra rinuncia ad affrontare il tema per paura di essere associata a questo tipo di retorica). In contrasto con queste interpretazioni, ritengo che il problema della denatalità vada inquadrato come un sintomo della natura ipercompetitiva del mercato del lavoro che impedisce a sempre più persone di accedere ai mezzi e alla stabilità necessaria per metter su famiglia.
Ma, fatta questa premessa, come si risolve allora questa crisi demografica? Meloni riesce, senza particolari problemi o idiosincrasie, ad avanzare proposte apparentemente progressiste, proprio perché sul tema non c’è praticamente nessuna vera opposizione da sinistra. E, quindi, nel suo programma (“sostegno alla natalità e alla famiglia” è il primo punto) troviamo asili nido aziendali e condominiali, sostegno alla maternità, aumento dell’assegno unico eccetera.
Quale dovrebbe essere la nostra controproposta? Chiaramente bonus e agevolazioni del genere non bastano. I giovani non fanno figli non perché non ci sono poi gli asili dove metterli – o perché manchino gli incentivi – ma semplicemente perché non se lo possono permettere. Il problema demografico va posto in diretta relazione con i problemi del mondo del lavoro, in particolare con la lotta al precariato giovanile. Per non parlare della questione di genere: l’età media del paese sale anche perché la gravidanza per molte donne significa espulsione dal mondo del lavoro o impossibilità di accedervi (in una fase in cui un reddito per famiglia non basta più e quindi ecco che ritorna anche il tema del salario).
Le diagnosi sui mali del precariato, del lavoro nero e intermittente si sprecano, ma manca a mio parere questa importante connessione con la crisi demografica che avrebbe permesso di “mangiare” un po’ di campo alla destra su temi che toccano la vita di tutti i giorni della classe lavoratrice e delle fasce più povere. Perché la natalità, alla fine, si regge su reti sociali amplissime; la famiglia non è una monade, un nucleo isolato che vaga nell’etere, ma una parte di un complesso sistema integrato, in cui ogni componente dipende dall’altra. Ad esempio, molte donne in gravidanza scelgono di non lavorare o abbandonano il lavoro, perché non hanno a disposizione sufficienti supporti, quali scuole a tempo pieno o parenti disponibili a occuparsi dei figli. Si pensi, ad esempio, ai nonni e alla loro importanza all’interno di questa rete. Quelli della mia generazione hanno – più o meno tutti – avuto la fortuna di nascere con i nonni già in – o prossimi alla – pensione, il che significa che i nostri nonni hanno avuto moltissimo tempo per occuparsi di noi quando i genitori non potevano. Ebbene, se oggi un millenial decide di avere figli entro i 35, è molto probabile che i nonni della nuova nata (ossia i nostri genitori) staranno ancora tutti lavorando, visto lo spostamento dell’età pensionabile (67 anni). Spostare la soglia oltre i 35 anni chiaramente non può essere una soluzione, anzi, il ritardo con cui sempre più spesso si sceglie di avere il primo figlio è una delle principali cause della denatalità.
Meloni questo lo capisce e, infatti, nel programma parla non solo di bambini e genitori, ma anche di collaboratori domestici, di aiuti ai disabili, di riduzione dell’Iva sui prodotti dell’infanzia e di incremento delle assunzioni nella scuola primaria. Il problema è che tutto questo dovrebbe andare di pari passo con misure come la flat tax che prosciugherebbero le casse pubbliche. In sostanza, Meloni conta di ripristinare la rete sociale che fa da cornice alla famiglia senza passare per lo stato sociale e la pesa pubblica (anzi, andando a tagliare il più possibile), ma appoggiandosi esclusivamente su effimeri finanziamenti e prestiti europei (che indubbiamente di questi tempi abbondano, ma poi? Anche perché prima o poi i prestiti vanno restituiti, con interessi).
Eppure, nonostante l’insostenibilità della sua proposta, Meloni è riuscita a monopolizzare la questione e ha avuto gioco a facile nel proporsi come unica difesa della famiglia e della natalità in Italia. È bastato postare qualche foto della figlia al suo primo giorno di scuola.
Tutto questo non significa che bisogna scongiurare la crisi demografica al solo scopo di salvare le pensioni o di rendere sostenibile la contabilità nazionale. Il senso semmai è che per essere liberi di fare figli bisogna prima essere nelle condizioni di poterli fare, o, in maniera ancora più schietta, di poterselo permettere economicamente. Il problema fiscale si pone solo nei termini dei rapporti di forza vigenti nel capitalismo: con la produttività attuale del lavoro se non ci sono risorse non è perché mancano i giovani che lavorano, ma perché i padroni si portano a casa una fetta sempre più ampia di reddito in profitti. La crisi demografica cesserebbe immediatamente di essere un problema se le pensioni fossero sostenute non dal reddito dei lavoratori e dalle casse dello stato, ma dai redditi d’impresa e dalla tassazione sui capitali (fra l’altro, lo stesso discorso vale anche per il reddito di cittadinanza). Perché se è vero che le pensioni occupano il 16% del PIL è anche vero che l’invecchiamento della società è generato dalla dinamica ciclica del capitalismo che periodicamente aumenta la massa dei disoccupati, privando sempre più persone della possibilità di metter su famiglia.
Il problema della denatalità, però, rimane, nello stato di cose attuale, più reale che mai, anche perché una società vecchia è una società stagnante sotto tutti i punti di vista. Insomma, una grande occasione mancata per la sinistra (moderata e radicale) che ha partecipato alle elezioni e un tema su cui cominciare a riflettere seriamente per chiunque abbia intenzione di formare un fronte di opposizione al nuovo governo all’interno delle lotte e dei movimenti sociali.
In sintesi: penso che sarebbe miope vedere nella crisi demografica un problema marginale o addirittura farne un taboo per via dei possibili collegamenti a temi come il patriarcato e l’eteronormatività. È necessario scorgervi, invece, la disgregazione trasversale e verticale dello stato sociale in questa particolare fase dello sviluppo capitalistico, per poi andare a collocare tale questione nel quadro di rivendicazioni che già sono state formulate in abbondanza riguardo a suddetta disgregazione. Centrali diventerebbero in questo quadro le parole d’ordine di riduzione dell’orario di lavoro nell’ottica di una crescita dell’occupazione e di redistribuzione sociale del lavoro di cura, redistribuzione che permetterebbe alle donne di lavorare senza dover gravare su anziani (non ancora pensionabili) e su lavoratrici precarie dell’infanzia e senza dover per forza dipendere da misure come l’assegno unico o bonus vari.
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