Pedagoghi, filosofi, educatori, sociologi e seguaci del “libero pensiero” hanno sempre sostenuto, dall’alto della loro “magnificenza” e delle loro “conoscenze”, che la scuola doveva servire a formare uomini liberi, professionalmente capaci di dare il proprio contributo, anche critico, allo sviluppo della società e nei vari rami in cui essi esercitano la propria attività.
Cittadini che dovevano, nel rispetto delle leggi, partecipare alla costruzione di una società più giusta, dove il merito e le competenze fossero il metro di valutazione di ognuno, occupando il posto che la società gli avrebbe poi assegnato.
La scuola aveva, a loro dire, il compito di formare il cosiddetto ”uomo nuovo”, l’uomo del futuro con un alto senso civico, rispettoso delle norme e delle regole che rappresentavano e rappresentano il vivere civile.
Gli insegnanti, i professori, i maestri avevano ed hanno a tutt’oggi, almeno così essi presumono, assunto questo “gravoso” compito, così importante e fondamentale, per lo sviluppo delle nuove generazioni ed il loro lavoro, così essi ritengono, deve essere riconosciuto come un alto contributo alla società ed alla nazione, sia sotto l’aspetto etico-morale che professionale.
Ma da un attento esame, come sempre succede, si evidenzia una realtà ben diversa dalle altisonanti frasi ed alla falsa retorica intellettuale.
Già dal tentativo di una costruzione di un sistema scolastico nazionale con la riforma Gentile nel 1923 che si mantenne fino al 1962, assistiamo ad una formazione di un sistema scolastico “duale”, cioè di un percorso scolastico per i poveri, senza sbocchi universitari, dove i figli della classe operaia vengono indirizzati alle scuole di avviamento professionale per poi diventare, una volta usciti dalla scuola, forza lavoro da sfruttare nei campi e nelle fabbriche, ed un percorso didattico per le classi medie e per i figli della borghesia con la possibilità di sbocchi all’Università per prepararli a diventare dirigenti e manager nell’ambito della divisione del lavoro.
Questo sistema dualistico non è morto con la soppressione della riforma Gentile ma anzi gli è sopravvissuto. Per decenni la scuola è stata divisa in Istituti Tecnici per i figli della classe dei proletari e Licei per i figli del ceto medio e della borghesia. Questo chiarisce che la borghesia non ha mai avuto interesse al miglioramento delle classi meno abbienti, ma ha dato a queste ultime un minimo di istruzione solo perché era necessario per il loro inserimento nell’ambito delle attività produttive che si modificavano per lo sviluppo della tecnica. La selezione classista, le bocciature, le espulsioni degli “spostati” dalla scuola, insieme all’innalzamento delle tasse per l’iscrizione all’Università doveva servire e serve tutt’ora ad impedire che la classe dei proletari possa utilizzare la scuola come strumento di emancipazione parziale, cioè di poter migliorare in parte la propria condizione attraverso il titolo di studio. Soltanto con il movimento del ’68 e successivamente con le lotte del movimento del ’77, si riuscì, in parte, a rompere questi meccanismi perversi ed a permettere la liberalizzazione degli accessi all’Università.
Gli studenti che diedero origine alle lotte e alle rivolte del biennio 1968-69, furono tra i primi ad elaborare una prima forma di critica, al sistema scolastico borghese sia nella forma in cui si esercitava il condizionamento, orario scolastico, interrogazione a sorpresa, quadrimestri, esami ecc., che nella sostanza dei programmi. Critica a volte con limiti e contraddizioni, ma che iniziava a mettere in discussione l’uso capitalistico della scuola.
Riportiamo alcuni volanti di rivendicazione degli studenti medi di quegli anni:
Dal bollettino degli studenti torinesi del 27 ottobre 1969.
“Gli studenti in queste settimane lottano contro la scuola rifiutando:
a) i quadrimestri un nuovo strumento per impedire e reprimere le iniziative degli studenti, con un controllo sempre più soffocante;
b) l’interrogazione a sorpresa che legata ai quadrimestri vuole chiuderci in uno studio totalmente estraneo ai nostri bisogni ed interessi;
c) l’orario che serve a dividere gli studenti delle varie scuole. Negli Istituti Tecnici andiamo a scuola tutti i giorni per otto ore per abituarci allo sfruttamento delle fabbriche;
d) abolizione dell’esame di stato. Già l’anno passato avevamo lottato contro l’esame. In risposta hanno fatto una ridicola riforma che noi rifiutiamo. Governo e ministri non sono disposti ad eliminare l’esame: questa per <> è la scuola. La nostra lotta su questi temi dovrà essere lunga e continua;
e) abolizione del voto, come lotta contro lo strumento fondamentale di divisione degli studenti tra loro in base a criteri meritocratici, cioè lotta contro la possibilità della scuola di verificare il nostro asservimento idiota a contenuti che ci sono estranei e contrapposti;
f) l’assemblea aperta agli esterni, ma gli esterni li scegliamo noi.

Documento degli studenti medi torinesi del gennaio 1970.
Che cosa vogliono i revisionisti
La liberalizzazione, o meglio, la generale democratizzazione della scuola, trova i suoi paladini nei sindacati e in quelle forze revisioniste per le quali si tratta solo di poter contrattare bene la qualifica (categoria corrispondente al titolo di studio e non a discrezione del padrone). Si tratta quindi secondo costoro di riformare la scuola in modo che non ci sia più nessun dubbio sulla categoria cui uno a diritto con un determinato titolo di studio. In sostanza , con una bella scuola riformata, si contrattano meglio le differenze sociali e salariali. Queste posizioni (oltre ad avere un aspetto utopistico e mistificato, perché come si vedrà oltre, la massificazione e la liberalizzazione della scuola portano inevitabilmente ad una ulteriore svalutazione del valore professionale del titolo di studio) fanno veramente il gioco del potere che tende a nascondere sotto un preteso processo di liberalizzazione il tentativo di colpire l’unità degli studenti e la loro unificazione con gli altri strati sociali. Quale sia l’interesse del potere lo dimostra il fatto che la repressione non colpisce più l’insubordinazione e l’assenteismo quotidiano, ma solo e sempre più duramente il tentativo di uscire in massa dall’isolamento in cui la scuola vuole costringere gli studenti.

Documento degli studenti medi torinesi del gennaio 1970.
Dalla proposta di intervento sulla scuola dell’obbligo.
In queste ultime settimane si è aperto un dibattito tra i gruppi che intervengono nella scuola dell’obbligo e tra gli studenti medi sul problema del significato della lotta contro la scuola dell’obbligo. Questo per superare la frammentazione e la parzialità (o spesso l’arretratezza) delle iniziative fin qui prese, e per arrivare ad una unificazione che si basi sul patrimonio politico delle lotte autonome della classe operaia e degli studenti medi nel ’69 (………) Dai compagni che intervengono nel quartiere del Carmine e dagli studenti delle medie inferiori di corso Taranto è venuta la proposta di una grossa campagna di lotta contro le bocciature nella scuola dell’obbligo, in previsione degli scrutini finali (……….) Pensiamo che la lotta contro la bocciatura nella scuola dell’obbligo rappresenti una lotta sociale autentica e non un momento riformistico. La situazione attuale nella scuola dell’obbligo denuncia il carattere mistificatorio delle riforme e dimostra chiaramente come in uno stato capitalistico le riforme non cambiano proprio nulla, ma sono unicamente strumenti di repressione e controllo sociale.
Il capitale che in un primo momento formava i suoi rampolli principalmente, ma non esclusivamente, nelle scuole private, ha da tempo iniziato un processo di privatizzazione della scuola statale in modo che questa risponda alle sue logiche di profitto e di gestione della forza lavoro che deve essere inserita nel processo produttivo. Le leggi approvate dai vari governi sia di centro-sinistra che di centro-destra in materia scolastica hanno spinto sempre più verso una mercificazione della cultura.
Negli ultimi decenni le politiche della borghesia, gli aiuti di questi alla scuola privata e l’abbandono ed il disastro economico in cui lasciano quella pubblica mirano sostanzialmente a favorire lo spostamento delle masse scolastiche verso le scuole private ed a favorire l’evoluzione normativa per la creazione di aziende scolastiche private con scopi di lucro.
L’obiettivo apertamente dichiarato è quello di avere scuole a pagamento per tutti in una logica di mercato della cultura.
I programmi scolastici dettati dal Ministero e l’azione dell’insegnante procedono secondo una direttiva di adattamento degli studenti alle esigenze del capitale.
Il frutto dell’azione di maestri, professori ed insegnati, che essi ne siano coscienti o meno, è quello di preparare un lavoratore docile, flessibile e tecnicamente adattabile per il processo lavorativo.
In questo processo di manipolazione gli studenti, qui intesi come futura forza lavoro, sono fondamentalmente “soggetto passivo” proprio perché futura merce da forgiare e da presentare nel mercato del lavoro e quindi il più possibile appetibile per gli obiettivi e gli interessi del capitale.
I figli della classe dei proletari sono per il Capitale solo ed unicamente una merce in formazione che si presenterà successivamente sul mercato del lavoro per inserirsi nell’apparato produttivo capitalistico.
Per il Capitale l’obiettivo è quello di subordinare la scuola, sia essa pubblica che privata, alle logiche del profitto.
In virtù di questa logica il Capitale ha privilegiato in un primo momento il rapporto con le scuole private, ma successivamente ha provveduto a piegare la scuola pubblica ai suoi interessi.
Una formazione intellettuale che si presentasse non necessaria o una formazione prettamente di carattere dirigenziale, quale quella Universitaria, deve secondo la borghesia essere preclusa alla classe operaia ed ai ceti meno abbienti – destinata a quei processi di “valorizzazione” che prevedono preparazione generica o capacità tecnico-specialistiche non dirigenziali, e quindi capacità medie – attraverso il numero chiuso di iscritti alle varie facoltà od attraverso l’aumento delle tasse scolastiche.
Così pure, una formazione culturale generalizzata insufficiente sarebbe dannosa per il Capitale, che da una parte se rende obbligatoria la scuola fino ad una certa età lo fa soltanto per motivi di profitto, e non per bontà o filantropia nei confronti della classe operaia e delle classi ad essa assoggettate, dall’altra se ne impedisce una maggiore acculturazione è perché gli serve una “merce-forza lavoro” con conoscenze livellate al grado di sviluppo delle forze produttive ed all’inserimento nel processo produttivo a cui destinare questi ultimi.
Le mire della borghesia sono quello di realizzare una preparazione universitaria destinata esclusivamente ai ceti più abbienti e con una formazione manageriale legata ad una logica di realizzazione di profitto.
Gli ostacoli ed i freni agli accessi universitari sono chiesti a gran voce anche dalle varie “Corporazioni”, “Ordini” e “Baroni”, non fosse altro che per conservare i loro privilegi di casta ed evitare una concorrenza eccessiva tra i loro membri che ne sminuirebbe il valore, proprio in virtù di quelle regole del mercato, per cui una maggiore offerta di merce ne determina un abbassamento del suo prezzo o del suo valore.
Risulta evidente quindi che la classe operaia e i ceti più poveri hanno la necessità di assumere nelle proprie mani la funzione di educazione dei propri figli dalla scuola materna fino all’Università, non potendo lasciare, questa funzione, nelle mani della piccola borghesia e del ceto medio (professori, maestri, insegnanti, educatori ecc.), permettendo in tal modo ai propri figli di accedere ai gradi più alti dell’istruzione, resa gratuita per tutti e, unendo in sè attività manuale e attività intellettuale, educando ed educandosi, cioè provvedendo essa stessa alla propria educazione e formazione, evitando quella manipolazione ideologica e quei criteri di giudizio basati su un verifica dell’asservimento idiota ai valori borghesi, ponendo successivamente le basi per un superamento della vecchia divisione tra lavoro manuale ed intellettuale. La classe operaia deve assumere nelle proprie mani la funzione di educazione dei propri figli e di se stessa.
La dimostrazione evidente che la scuola serva gli interessi del Capitale la dà la stessa borghesia che non si nasconde più ormai dietro frasi altisonanti e retoriche.
La Legge 107 del 2015 con l’alternanza scuola-lavoro, afferma proprio questo. I proletari devono non solo essere formati come forza lavoro per un futuro loro inserimento nei meccanismi delle sfruttamento, ma essere già al servizio del Capitale anche durante il periodo della formazione scolastica attraverso prestazioni di lavoro gratuito per le aziende private. Quelli che erano potenziali lavoratori e forza lavoro in formazione, diventano immediatamente lavoratori sfruttati e sussunti alle leggi del Capitale ma con l’aggravio di non percepire nessun salario. Questa forza lavoro obbligata a prestazioni di lavoro gratuito, molto peggio delle antiche “corvée” medioevali, impedisce anche l’assunzione di nuova forza lavoro regolarmente pagata e con contratti regolarizzati.
L’introduzione di un Preside manager e con poteri discrezionali ed i legami della scuola con il capitale privato introdotti con la Legge 107/2015 spazzano via ogni vuota fraseologia di una scuola che formi cittadini “coscienti” e “liberi” e chiarisce che la scuola anche quella pubblica è al completo servizio del Capitale.
Nell’ottobre 2014, poco prima dell’approvazione della legge, la Confindustria in un documento intitolato “Prima giornata nazionale dell’education – Le 100 proposte di Confindustria” dettava al Governo le sue regole sulla scuola. In questo documento si afferma proprio tutto ciò che poi verrà successivamente realizzato con la Legge comunemente chiamata “Buona scuola”.
Alcuni recenti fatti di cronaca rendono ancor più evidente il potere e gli abusi che esercitano i capitalisti nei confronti dei figli della classe dei proletari ed il legame tra la scuola e gli interessi dei padroni.
“Un 54nne della provincia di Monza, gestore di due centri estetici, è stato arrestato dalla polizia su ordine del gip con l’accusa di violenza sessuale su minore. L’uomo avrebbe abusato sessualmente di quattro stagiste minorenni, studentesse di una scuola professionale per estetiste. Secondo quanto ricostruito dalle indagini, coordinate dalla procura di Monza, era riuscito a ridurre le ragazze a una “totale dipendenza psicologica”, dal momento che dal giudizio del titolare dipendeva la promozione.” (www.Repubblica.it – 14 luglio 2017)
“Stage con trappola: 2.700 studenti sfruttati da alberghi e ristoranti
Sei denunciati nell’indagine della Guardia di Finanza di Bassano: i ragazzi lavoravano a basso costo e in nero dietro lo schermo dell’alternanza scuola-lavoro.
In teoria rientrava tutto nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro. In pratica erano impiegati in maniera abusiva da decine di ristoratori e albergatori, soprattutto nei periodi con il più alto numero di cerimonie (matrimoni, comunioni, cresime). E grazie – secondo l’accusa dei finanzieri – a due società con residenza fittizia all’estero, San Marino e Svizzera. È la sorte di 2.700 studenti, di cui alcuni anche minorenni: tutti lavoratori «in nero» che dovevano essere in cucine e hotel a svolgere attività di praticantato e invece, in molte occasioni, si trovavano a fare anche altro.” (www.Corriere.it)

“Alternanza Scuola-lavoro, la denuncia degli studenti: Sfruttati per pulire i bagni dei ristoranti e fare volantinaggio.
Sulla carta dovrebbe essere un’esperienza formativa innovativa per unire sapere e saper fare ma secondo l’Unione degli Studenti della Puglia si è trasformata in sfruttamento. Ci affidano lavori che dovrebbero essere assegnati ai dipendenti: le aziende ci usano come manovalanza gratuita, dicono i giovani. Il sottosegretario all’Istruzione Toccafondi: Abbiamo il dovere di intervenire, ma non invierò ispettori. C’è chi è stato costretto a volantinare per dodici ore al giorno, chi si è trovato a pulire bagni e tavoli al ristorante e altri ancora che hanno trascorso giornate a catalogare locandine degli anni Ottanta in un cinema. È l’altra faccia dell’alternanza scuola-lavoro, l’attività resa obbligatoria dalla legge sulla Buona Scuola per gli studenti di terza, quarta e quinta dei licei e degli istituti tecnici e professionali. Sulla carta dovrebbe essere un’esperienza formativa innovativa per unire sapere e saper fare.”  (www.Ilfattoquotidiano.it – 6 marzo 2017).

Le “belle parole” elargite a piene mani di una scuola che premia i più meritevoli e dà la possibilità ai ceti meno abbienti di poter migliorare le proprie condizioni, ormai stridono apertamente e sempre più con una realtà completamente diversa e che dà il senso dell’uso che la borghesia fà della scuola.
Nell’ambito del sistema capitalistico la scuola non può che essere funzionale alle logiche dell’impresa e del profitto.
La funzione della scuola e di conseguenza quella dei suoi professori è strettamente legata agli interessi della borghesia che non istruisce il proletariato per filantropia ma per realizzare da questo il massimo del profitto. Inoltre tra i tanti compiti della scuola borghese c’è anche quello di educare al rispetto della legalità, quella legalità che stabilisce che uno schiavo non può violare quella legge che lo ha reso e lo rende schiavo, affinché dalla scuola esca non solo forza lavoro buona per produrre plusvalore, ma anche una classe operaia docile ed ubbidiente. L’uso della religione nelle scuole completa il compito di sottomettere le masse al potere della borghesia, ed in cambio di questo servizio il clero riceve i suoi vantaggi economici e politici.
Le future lotte degli studenti e dei lavoratori della scuola dovranno tendere all’unità tra questi e la classe operaia, per trasformare l’attuale scuola, da organo che svolge gli interessi dei padroni ed a questi sottomessa, in una scuola pubblica, laica, gratuita ed al servizio del proletariato e dei ceti più poveri.
Il potere della borghesia, sia in ambito scolastico che in tutte le sfere dell’agire umano è diventato ormai insopportabile ed anacronistico ed è tempo che una rivoluzione proletaria lo spazzi via e restituisca dignità agli sfruttati, alla classe dei proletari ed ai suoi figli, affinché questi ultimi non debbano essere oggetto di manipolazione ideologica da parte di un ceto sociale che giustamente i ragazzi del ’68 definirono “utili idioti che il padrone ha armato di registro e pagella” ma che si spacciano per formatori di coscienze e costruttori di “uomini liberi”.

Di Salvatore Cappuccio