Di seguito alcune mie riflessioni sviluppate su un terreno comune tra psicologia, filosofia e politica: tre discipline che a mio parere è giusto che lavorino assieme e che si informino a vicenda, anche e sopratutto nel solco dell’azione politica quotidiana e/o di lungo corso. Gli studi a cui faccio riferimento in questo articolo sono quelli condotti da Joshua Greene e riportati nel suo libro Moral Tribe.

Partiamo dal Trolley Problem, di cui Greene è uno dei massimi “esperti”, conoscitori e studiosi. Il Trolley problem è una controversia etica per la prima volta formulata dalla filosofa inglese Philippa Foot nel 1967. Tra le tante versioni in cui il problema è stato formulato (molte delle quali sono diventate popolari su internet), Greene ne prende in esame due:
1) Un treno fuori controllo corre su un binario lungo il quale ci sono cinque uomini che per qualche ragione non possono fuggire. Possiamo decidere di salvare i cinque uomini azionando una leva e deviando il treno su un altro binario lungo il quale però c’è un uomo. Azionando la leva, dunque, mettiamo i cinque uomini in salva, ma possiamo ritenerci responsabili della morte di un sesto. Non agendo, lasciando che il treno rimanga sul suo binario, lasciamo morire i cinque uomini.
2) Un treno fuori controllo corre lungo su un binario lungo il quale ci sono cinque uomini che per qualche ragione non possono fuggire. Questa volta non c’è nessuna leva. Ci troviamo invece su un ponte che attraversa i binari. Accanto a noi c’è un uomo che per qualche ragione pesa abbastanza da fermare il treno. Se spingiamo l’uomo giù dal ponte fermiamo il treno e salviamo i cinque uomini (ma ammazziamo l’uomo). Se non facciamo nulla lasciamo i cinque uomini morire investiti dal treno.

Greene e collaboratori hanno sottoposto queste controversie a un certo numero di partecipanti e scoperto che nel caso (1) il numero di persone che salverebbe gli uomini è maggiore che nel caso (2), probabilmente per via di un maggiore investimento di forza personale diretta (ma non è questo l’articolo per approfondire questo aspetto, per quanto molto interessante). Ciò che infatti è ancora più interessante è uno dei nodi centrali dell’intero libro di Greene: l’idea di una doppia facoltà morale nell’essere umano. Coloro che salverebbero i cinque uomini esprimono un giudizio di tipo utilitaristico (scegliere l’azione che massimizza il “bene comune”), coloro che non li salverebbero esprimono un giudizio di tipo deontologico, non riescono cioè a prendere una decisione che tenga conto dell’insieme, eccessivamente concentrati sulle singole individualità (potremmo dire). Come Greene argomenta, i giudizi utilitaristici sono frutto della parte più razionale della mente, quella appunto in grado di “vedere l’insieme” e di agire in vista del “bene comune”. I giudizi deontologici, al contrario, sono frutto della parte più emozionale. Tant’è che alcuni esperimenti hanno mostrato come un certo numero di soggetti fosse più incline a dare risposte “utilitaristiche” se interrogati dopo aver risolto problemi matematici. Un altro risultato ha mostrato che gli infermieri interrogati su controversie etiche in ambito sanitario (come distribuire i farmaci in caso di carenza, etc…), hanno dato risposte più “utilitaristiche” rispetto ai medici e alle “persone comuni”: sembrerebbe che i medici siano più preoccupati dei diritti individuali e gli infermieri tendano invece a massimizzare il bene comune nella loro attività. Non so bene quali conclusioni trarre da questo risultato, ma ho pensato di riportarlo perché potrebbe essere politicamente rilevante e in ogni caso è in qualche modo interessante. Una lezione forse elementare che si può trarre invece dai risultati sui giudizi deontologici è che l’aspetto emozionale, per quanto forse sconveniente possa essere, per la maggior parte dei soggetti conta. E le campagne politiche e il linguaggio della propaganda devono tenerne conto senza tuttavia per questo cedere alla “falsa coscienza” che spesso le reazioni “istintuali” producono.

Per Greene possedere questa doppia facoltà morale è tutto sommato vantaggioso. Nel suo libro adotta la metafora della macchina fotografica: la risposta deontologica (e meno razionale) è come la modalità automatica di una macchina fotografica, comoda ma imprecisa. La risposta utilitaristica è come la modalità manuale: è più precisa e flessibile, all’altezza della complessità della realtà, ma richiede uno sforzo e una attenzione maggiore.
Per quanto il possesso di entrambe le facoltà possa essere vantaggioso, in alcuni casi, esemplificati dal Trolley problem, non c’è spazio per mediazioni o compromessi, non c’è punto di incontro, ma solo una decisione da prendere che può essere A o B.
E di fronte al bivio tra A e B, nel Trolley Problem come sul terreno dello scontro tra classi, i giudizi deontologici e perlopiù “emozionali” sono probabilmente quelli che un giorno impediranno di combattere la rivoluzione per paura di violare “i diritti individuali”, quelli utilitaristici sono quelli disposti a sacrificare alcuni per il bene della maggioranza. Come scrive anche Greene, è la voce di Kant contro quella di Mill che parla dalla tomba, ma anche quella di Kant contro quella di Marx oserei aggiungere. Greene al problema dei conflitti tra universi morali propone il motto “Whatever works best” (quello che funziona meglio). “Quello che funziona meglio” è un’idea utilitaristica che dovrebbe suonarci familiare: uno dei motivi per cui affermiamo che il capitalismo un giorno tramonterà è semplicemente perché è incapace di dare risposte e, in ultima analisi, semplicemente non funziona. Certo, come ammette Greene (e gli concedo volentieri questa obiezione) non è sempre facile capire quale azione produce davvero le “migliori conseguenze”. Noi sappiamo quale società produrrebbe le migliori conseguenze per la maggior parte delle persone, ma stabilire quali azioni producono le migliori conseguenze per arrivare ad essa è forse più complicato.

Matteo Iammarrone

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.