A mo’ di recensione di Melanconia di Classe. Manifesto per la working class di Cynthia Cruz, Blu Antartide, 2021.


[Metà pomeriggio in un ufficio di un dipartimento universitario di scienze sociali. Un’assegnista di ricerca sta aspettando in piedi che l’acqua per il tè sia pronta, di fronte al bollitore che sta in un angolo della stanza su un tavolino Ikea bianco. Tiene in mano un libro e ripete a mezza voce]

Carlotta: “Come posso scrivere di un fenomeno così pervasivo, che investe ogni aspetto della mia vita e che tuttavia per molti non esiste? Come posso scrivere di un fenomeno… e che tuttavia per molti non esiste… come posso…”

[Un altro assegnista rientra nella stanza e si dirige verso la sua scrivania, accanto al bollitore dell’acqua, su un tavolino Ikea bianco, ma ingiallito…]

Gianni: Cosa stai dicendo?

C.: Stavo riflettendo su questa frase di Cynthia Cruz. Sto leggendo il suo libro “Melanconia di Classe”, l’hai letto?

G.: Si! Cosa ne pensi? Ti ha colpito?

C: Mi ha colpito questa cosa: tutta la sua vita – e la mia – è pervasa, condizionata e strutturata da qualcosa che è ben difficile da spiegare, perchè forse è primordiale ma non universale; non riguarda tutti, ma una parte.

G: La classe sociale?

C: Sì, esatto. La classe sociale. La classe sociale non quando le appartieni, ma quando lei appartiene a te, quando fa parte di te, in tutto e per tutto. C’è un senso di straniamento quando il mondo in cui vivi e che ti dà da vivere non è quello che è storicamente appartenuto alla tua classe sociale.

[Si avvicina, da una scrivania posta nell’angolo opposto della stanza, un’altra assegnista]

Federica: Ho appena finito di leggerlo anche io questo libro: ero incuriosita dall’espressione “Melanconia di classe”, che rimanda a qualcosa che mi è parso intelligente: parlare della classe sociale non solo come un rapporto economico fra gruppi sociali, ma come qualcosa che struttura le tue emozioni.

G: Quindi qualcosa che è anche individuale?

F: Personale direi. Privato, intimo…

C: Beh, quello che ci ha detto a più riprese anche Bourdieu con la sociologia dell’habitus

F: Sì, ma nel testo della Cruz non è una trattazione teorica, è semplicemente un’esperienza raccontata, che lei vive e che non capisce fino in fondo. La comprensione, e quindi la razionalizzazione, arriva dopo. Sembra quasi secondario rispetto al sentimento – come dicevi tu prima – di straniamento.

C: Vero, ciò che c’è di interessante per me nelle sue pagine è proprio il senso di parzialità. Si parte da un mondo, minuscolo, che è quello accademico, per raccontare un habitus del tutto specifico, quello dell’essere una precaria dell’università.

F: Specifico sì, ma comunque generalizzabile. E questa è la differenza fra questo saggio e un romanzo.

G: Quello che dite ha colpito anche me. La protagonista racconta di sé, dello straniamento che vive da precaria intellettuale nel mondo dell’accademia, un mondo che proletario non è, e che l’accoglie sì, ma a patto che si senta sempre a disagio.

C: Sì, in definitiva il libro è il tentativo di razionalizzare questo disagio e riconoscerlo come posizionamento di classe. Ovvero, non so se era così nell’intenzione dell’autrice, ma so che è per questo che è stato interessante per noi leggerlo.

F: Resta il dubbio: si proverebbe lo stesso disagio di appartenenza di classe se, anziché da precaria, quel mondo l’autrice l’avesse vissuto da docente di ruolo?

G: Questa è la domanda più importante, ma nel libro è posta solo in modo implicito. L’autrice non dà risposta perché in definitiva non prova a tirare le somme: racconta la sua esperienza e rintraccia similitudini con quelle di altre.

C: Per me da un certo punto in poi diventa noioso.

F: Addirittura?

C: Sì, l’ho trovato ridondante. La consapevolezza acquisita che la classe struttura le sue emozioni è un concetto forte, ma è ripetuto senza sviluppi dall’inizio alla fine del libro. Non si dispiega nelle pagine, ma si enuncia e si ripete per tutta la lettura.

G: Forse è ridondante per noi che con questo senso di straniamento ci abbiamo già fatto i conti, o almeno lo conosciamo?

C: Forse sì…

F: C’è un altra cosa però: la risposta. La risposta al senso di straniamento non è il non cercare di provarlo, e non è neppure quella di rivendicarlo come giusto. La risposta che emerge è quella di non negare di provarlo, e connettersi in questa emozione con chi è stranito come te. Una risposta che è difficile perché chi lavora in accademia, da precario, vive diviso dagli altri e dalle altre. I contratti iniziano in momenti diversi, con qualcuna ti incroci solo poche volte, per qualche mese e poi via…

[Gianni prende il libro, lo sfoglia e si ferma a pagina 15, dove c’è un passaggio sottolineato a matita, poi legge ad alta voce]

G: “Il soggetto proletario che vive in una società neoliberista è soverchiato dai valori e dall’estetica della classe dominante. Non possiamo evitare di esserne condizionati: sono ovunque. Quando una persona della working class guarda al mondo, non vede la sua immagine riflessa, bensì quella della classe media”.

F: Si tratta di un vero e proprio diluvio. E la sensazione è che siamo rimasti chiusi fuori e non abbiamo neanche un ombrello con noi.

C: Penso che la forza del capitale sia proprio la sua tendenza a rendere apparentemente naturale quanto in realtà è il prodotto di specifici rapporti di produzione. Da questo punto di vista, l’autrice ha certamente ragione. Al tempo stesso però, ho la sensazione che tenda a vedere come eccessivamente omogeneo un fenomeno che ha comunque una forte differenziazione di classe.

G: Che intendi?

C: Beh, il capitale plasma certamente i nostri gusti. E come dice Federica, in assenza di un’organizzazione che ci rappresenti e nella quale identificarsi, siamo anche senza ombrello. Però questa pioggia non è omogenea: per un professore universitario o una direttrice di banca è magari dolce e piacevole; per un rider nelle serate d’inverno è maledettamente fredda e torrenziale.

G: Ma lo sai cosa mi hai fatto venire in mente?

C: Cosa?

G: Midnight in Paris, il film di Woody Allen. Vi ricordate che il protagonista, uno scrittore newyorkese della classe media con tendenze di sinistra, ama passeggiare a Parigi sotto la pioggia?

C: Sì, ho visto il film ma non mi ricordavo di questo dettaglio. Anche perché che noia Parigi, figuriamoci sotto la pioggia! [ride]. Vuoi mettere con Empoli?

F: Scusate se interrompo il vostro conciliabolo sul meteo, ma a me sembra che in questa storia della classe vi sia anche un altro elemento sorprendente.

C: Quale?

F: Questa trasformazione della classe lavoratrice in un fantasma.

G: Che intendi?

F: Intendo che da un lato il neoliberismo pretende di trasformarci tutti in imprenditori di noi stessi. Dall’altro però, i telegiornali non mancano mai di ricordare come i fenomeni reazionari dei nostri tempi, da Trump alla Brexit, siano sempre il prodotto della working class.

G: Hai ragione!

C: Sai una cosa, Fede? Mi hai fatto venire in mente che l’utilizzo da parte della traduttrice dell’espressione working class al posto di classe lavoratrice mi è stata abbastanza antipatica.

F: Penso che in apertura del testo dica anche una cosa scorretta: non è vero che la locuzione inglese sia più ampia di quella italiana.

G: Lo sarebbe magari rispetto all’espressione “classe operaia”.

C: Sì, infatti. E poi c’è il curioso paradosso di un libro che parla di un fantasma e non trova neanche un termine italiano per evocarlo.

F: Finisce quasi per accentuare questa zona grigia dove si muove un soggetto-non soggetto. 

G: Come scrive la stessa autrice “Quando parlo del fantasma della working class, mi riferisco al fatto che viene inglobata all’interno del neoliberismo: viene bandita dal discorso, però non scompare”.

F: Se non sbaglio cita Lacan su questo: perché i morti tornano in vita? perché non sono stati sepolti bene”… e non si può seppellire bene qualcosa di cui non possiamo fare a meno. 

C: Insomma, il processo è quello di eliminare o ridurre al minimo gli spazi per riconoscersi come classe, ma d’altra parte la struttura di classe continua ad influire su parecchi aspetti della vita.

G: A tal proposito, un altro aspetto interessante su cui si sofferma in alcuni passaggi l’autrice è come la classe non influisca solo sugli aspetti materiali della vita, ma anche su quelli non materiali.

F: Per dirla in altri termini, l’accesso al capitale sociale e culturale non è uguale per tutti.

G: Esatto. Differenza che, per esempio, in ambito accademico è più facile che emerga…

C: … Magari in maniera meno plateale, dato che la grande maggioranza di coloro che arrivano a lavorare in accademia sono figli e figlie di famiglie nel quale il capitale c’era, in tutte le sue forme, soprattutto culturali. 

F: Questo non detto genera dei mostri mediatici in effetti. Pensa al clamore che ogni tanto si sente attorno a laureati/e in tempi record e magari anche con voti alti. Storie di persone di cui si esalta il merito, la capacità organizzativa, senza andare a vedere poi le condizioni di partenza di queste persone.

G: Magari non figli/e di un’operaia o di un contadino.

F: Eh, no. Per cui il merito prende il posto del privilegio e tutta la narrazione a seguire chiaramente è falsata.

C: E da qui la frustrazione, la vergogna di cui sopra… ancora.

G: Eh sì, ancora.

F: In effetti, per quanto apprezzi molto lo sforzo e il taglio della lettura che fa l’autrice, il senso di vergogna, la frustrazione, lo straniamento sono concetti che emergono spesso nel suo racconto… ma come se ci fosse solo quello, come se quello fosse l’unico “sentire” possibile.

C: Che fa da specchio ad una condizione che sembra ineluttabile.

F: Esatto. Non solo non mi ci rivedo del tutto, ma penso che in fondo nemmeno l’autrice stessa intenda proprio questo.

G: Beh, in realtà verso la fine del libro sembra esserci un po’ un cambio di registro.

F: Sì, lascia un po’ aperta la domanda “cosa succederebbe se la working class riuscisse a riconoscersi come tale?”

C: Sì, ma non solo. Secondo me prende in considerazione un aspetto molto importante quanto magari banale, cioè il tempo. Avete presente?

G: Sì, su come il “tempo libero” alla fine sia un luogo riservato alla borghesia mentre per la working class il tempo libero non esista: c’è il tempo del lavoro e della produzione (in tutte le sue sfaccettature) e c’è il tempo del non lavoro che, non solo non è molto, ma non è da intendersi come libero dal dominio del capitale…

C: … Né tanto meno è da considerarsi tempo che si passa automaticamente in una dimensione collettiva.

F: Cioè?

C: Puoi anche non andare al centro commerciale, consumare o tentare di evadere in altri modi la realtà che vivi, ma se queste riflessioni te le fai tra te e te, in un monolocale che paghi uno sproposito ogni mese, non ci fai niente con i “tempi morti” di cui parla la Cruz.

F: Insomma, sparare agli orologi, ma farlo in buona compagnia.

G: Magari stando a chiacchierare di un libro mentre in realtà si dovrebbe lavorare. Oddio, lavorare… questo è un parolone! Mica ci sporchiamo le mani di vernice o mastice noi!

C: Vedi quanto è difficile per noi, in questa terra di mezzo, riconoscersi? Non apparteniamo a nessuno, ma più di un mondo appartiene a noi. Che caos!

C: Basta con le introspezioni per oggi! Mi devo rimettere a scrivere, ché devo mandare via questo articolo domani e ancora me ne manca mezzo.

F: Ah, non sei messa così male, allora..

C: Non mi dire niente, Fede, che mi prende l’ansia!

G: Prima di farti prendere dall’ansia, dimmi però una cosa: ma questo libro lo consigliereste o no?

F: Io sì, lo consiglierei. Mi è piaciuta proprio questa capacità di trattare di un tema generale – quello della classe alla quale si appartiene – a partire dalla propria traiettoria.

C: Anch’io lo consiglierei, soprattutto a chi sta fuori dall’accademia, o a chi ci sta dentro ma c’è sempre stato dalla parte del vincente. O ci si sente stretto ma non sa perché… in ogni caso scommetto che in pochi lo finirebbero!

G: Rieccola con questa storia che il libro è ripetitivo. Pensa a finire il tuo articolo che è meglio!

C: Sì, infatti. Se vi mettete zitti magari ci provo anche…

E nell’ufficio di un dipartimento di scienze sociali tornò a regnare un silenzio carico di pensieri…

 

Carlotta Caciagli, Gianni Del Panta e Francesca Fazzetta

Questo articolo fa parte del numero 5, aprile 2023, della rivista Egemonia.

Dottoressa di ricerca in sociologia e scienza politica, diplomata presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di trasformazioni urbane e delle relative politiche capitaliste.

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

La Voce delle Lotte ospita i contributi politici, le cronache, le corrispondenze di centinaia compagni e compagne dall'Italia e dall'estero, così come una selezione di materiali della Rete Internazionale di giornali online La Izquierda Diario, di cui facciamo parte.