È uscita ieri (9 novembre) su Netflix la quinta stagione di The Crown, serie televisiva che racconta la storia della famiglia reale britannica durante il regno di Elisabetta II. In questa recensione, analizzeremo alcuni spunti e suggestioni di natura politica che la serie ci offre. In particolare, vedremo come ancora oggi la monarchia, lungi dall’essere un semplice accessorio, conservi delle prerogative che potrebbero rivelarsi decisive in periodi di crisi come questo.


 

Più ci penso, più mi convinco del fatto che in verità il tempo dei re e dei principi è ormai passato. Le monarchie sono obsolete. Mi rendo conto di quanto sia vile da parte mia dire una cosa del genere. Mi fa sembrare un bolscevico.

Lettera di David Windsor, Principe di Galles, futuro re Edoardo VIII, all’amante Freda Dudley Ward, 28 aprile 1920

 

Nel quinto episodio della seconda stagione di The Crown, la Regina Madre (Victoria Hamilton) riassume la storia della monarchia in un paio di efficaci battute:

«Che ne è stato del nostro diritto divino? Del nostro assolutismo? La storia della monarchia in questo paese è una via a senso unico che porta all’umiliazione. Sacrifici e concessioni elargite per poter sopravvivere. Prima sono venuti i baroni, poi i mercanti, ora i giornalisti. Non c’è da meravigliarsi se siamo così aggrappati alle formalità e ai protocolli; sono gli ultimi frammenti di armatura che ci rimangono, mentre passiamo dal governare, al regnare al… diventare nulla».

Il primo riferimento storico è alla ribellione dei baroni che, nel 1215, costrinsero re Giovanni a firmare la Magna Carta, una delle prime carte costituzionali della storia che rimane ancora oggi uno dei fondamenti della common law inglese. Con quel documento, il re non solo alleviava il peso del tributo feudale per la nobiltà, ma rinunciava anche a buona parte del proprio potere, istituendo per la prima volta un parlamento e dichiarando di fatto di essere sottoposto alla legge (e non al di sopra). I mercanti, invece, sono la classe sociale che animò le guerre civili del 1642-1651, parentesi particolarmente drammatica e sanguinosa della storia britannica, che vide per la prima volta il parlamento prevalere sul re; alla decapitazione di Carlo I seguì l’instaurazione dell’effimera repubblica sotto la protezione di Oliver Cromwell.

Il riferimento ai giornalisti, infine, riguarda la vicenda al centro dell’episodio; nel 1957, Lord Altrincham, editore del piccolo periodico National Review, pubblica un articolo in cui denuncia aspramente lo stile comunicativo della regina Elisabetta (Claire Foy), mettendo in risalto il baratro che separa la sovrana dai suoi sudditi in termini di valori e ideali. In seguito allo scalpore suscitato dall’editoriale, la regina accetta di incontrarsi segretamente con Lord Altrincham che offre una serie di suggerimenti per modernizzare i costumi e le tradizioni della famiglia reale. La corte acconsente in parte alle proposte: il discorso di fine anno viene per la prima volta trasmesso in televisione e la sovrana accetta di incontrare regolarmente delegazioni di sudditi “notabili” a palazzo. È proprio alla vigilia di uno di questi incontri che la Regina Madre esprime il proprio scoramento con le parole che abbiamo riportato sopra. Significativamente, l’episodio è intitolato Marionette.

Nei primi anni del regno di Elisabetta, corrispondenti alle prime due stagioni della serie, la monarchia è costretta non solo ad “aprirsi” al mondo, ma ad adeguarsi completamente alle esigenze della società consumistica di massa. È questo, del resto, il tema portante di tutta la serie, la tensione che la rende così interessante e coinvolgente. The Crown, infatti, segue la parabola della monarchia inglese mentre viene spogliata della sua mistica e delle sue tradizioni. Un’istituzione che si vorrebbe trascendente, eterna ed immutabile è costretta a continui e repentini cambiamenti dalle dinamiche dell’ordine internazionale istituitosi nel dopoguerra.

Al momento dell’ascesa al trono di Elisabetta, Maria di Teck, sua nonna, personificazione dei valori dell’antico regime, le ricorda che il suo nuovo mandato «proviene dalla più alta delle fonti, da Dio stesso». La sovrana è «incoronata in un’abbazia, non in un edificio pubblico; è unta, non eletta; è un arcivescovo a mettere la corona nella (sua) testa, non un ministro». Inoltre, la sovrana «risponde solo di fronte a Dio, non al pubblico». Nel corso del suo regno, Elisabetta avrà modo di notare quanto false e fuori luogo si riveleranno essere queste affermazioni, trovandosi in continuazione chiamata ad accontentare la classe politica britannica e ad aggiornare l’istituzione di cui lei stessa è a capo, quasi questa fosse una merce da rendere appetibile per il pubblico.

Va detto, però, che questo processo ha radici ben più lontane rispetto al regno di Elisabetta. In un certo senso, la stessa casata reale Windsor è nata da simili necessità di sopravvivenza. Una recente docu-serie dedicata ai Windsor, non a caso, si apre con un episodio intitolato Adapt or Die. La casata reale Windsor nasce, infatti, nel 1917, nel vivo del primo conflitto mondiale; Londra era da poco stata colpita da raid aerei tedeschi, che avevano fatto largo uso di bombardieri Gotha. Il caso volle che all’epoca questo fosse anche il nome della famiglia reale (a partire dalla morte di Vittoria, il cui marito era duca di Saxe-Coburgo-Gotha). Le radici germaniche dei reali erano ormai note da tempo e per evitare che il popolo inglese proiettasse su di loro le proprie frustrazioni, Giorgio V decise di cambiare il nome di famiglia, ribattezzandola come la residenza in cui egli si trovava in quel momento: il castello di Windsor.

La nascita della famiglia Windsor fu poi segnata da un altro significativo spartiacque storico: la Rivoluzione russa. Nello stesso anno, Giorgio V si trovò di fronte anche alla difficile scelta riguardante la possibilità di dare asilo politico allo zar Nicola II di Russia, suo cugino di primo grado. L’Inghilterra, com’è noto, si distinguerà come uno dei più feroci e agguerriti oppositori della rivoluzione sovietica, ma in quel particolare contesto – la guerra non era ancora chiusa – farsi un nuovo nemico non era ritenuto conveniente, per non parlare del fatto che lo zar godeva ormai in tutta Europa di una reputazione da autocrate assolutista. Anche in questa circostanza, il timore del risentimento popolare guidò le scelte del re e del governo e a Nicola II venne negato l’asilo politico, con le conseguenze che tutti conosciamo.

Giorgio V e il cugino lo Zar Nicola II

In queste settimane che hanno seguito la scomparsa di Elisabetta II, siamo stati inondati da storie dal sapore agiografico sulla vita della regina e sulla storia della sua famiglia, ma quasi mai viene fatto riferimento a questi due eventi storici fondamentali. La radicale trasformazione (che fu anche re-branding) del 1917 permette di mettere a fuoco un altro aspetto interessante della serie The Crown, quasi sempre ignorato. L’esistenza di mera sopravvivenza a cui è ridotta la monarchia, infatti, va di pari passo con la paura viscerale della rivoluzione. Si tratta indubbiamente di un tema più implicito rispetto a quello fin qui trattato, ma che comunque emerge chiaramente, soprattutto nella figura del principe Filippo (Matt Smith), consorte di Elisabetta. Anche Filippo, infatti, proveniva da una famiglia reale – quella di Grecia e Danimarca – che cadde vittima di una rivoluzione. Diversamente dallo zar, però, egli riuscì a trovare rifugio politico in Inghilterra e, proprio come i Windsor, fu costretto a cambiare nome; suo padre era stato esiliato nel 1916, con lo scoppio della guerra civile, mentre suo nonno era stato assassinato tre anni prima da un anarchico greco. In più occasioni nel corso della serie, Filippo fa riferimento a questi fatti, entrando anche in aperto contrasto con la moglie e i suoi cortigiani, pur di mostrare loro la necessità di restare al passo coi tempi e di non arroccarsi in tradizione arcaiche.

Sin dai tempi di Hobbes, del resto, la monarchia (come metonimia dello Stato) è stata concepita da molti politologi come il meccanismo che previene e disinnesca il rischio di guerra civile latente in ogni società moderna. Si tratta di una caratteristica che si è mantenuta anche attraverso le grandi trasformazioni del XX secolo e su cui The Crown offre ancora degli stimolanti elementi di lettura. Alla luce del processo di secolarizzazione e modernizzazione cui si è accennato, infatti, è andato ad affermarsi negli ultimi tempi il luogo comune per cui la monarchia britannica sarebbe stata del tutto spogliata delle sue prerogative e che ormai si sarebbe ridotta a un ruolo puramente cerimoniale. In realtà, quelli che sono stati i principali poteri del sovrano inglese nell’epoca moderna si conservano ancora oggi: la facoltà di sciogliere il parlamento, di porre il veto a qualsiasi legge, di guidare la chiesa anglicana e, soprattutto, le forze armate.

Il quinto episodio della terza stagione è particolarmente interessante sotto questo punto di vista. L’episodio è ambientato nel 1974, quando Lord Mountbatten (Charles Dance), membro di spicco della famiglia reale e capo dello stato maggiore della difesa, cercò di organizzare un colpo di stato per rovesciare il governo labourista guidato da Harold Wilson. Si tratta di una fase particolarmente tesa della storia britannica: la crisi energetica, l’inflazione, il deprezzamento della sterlina e gli scioperi dei minatori facevano presagire un’imminente adozione di misure eccezionali per il mantenimento dell’ordine pubblico. Dal punto di vista storico, molti dettagli rimangono ancora avvolti nel mistero, ma nell’episodio gli ideatori dell’opzione golpista sono i dirigenti della Banca d’Inghilterra. In una vera e propria lezione di storia e metodo del colpo di stato, Mountbatten espone ai suoi “sponsor” i quattro elementi chiave per la realizzazione del loro progetto: controllo dei mezzi di comunicazione, controllo dell’economia, il sequestro di bersagli amministrativi e l’appoggio dell’esercito. Mountbatten osserva, tuttavia, che quest’ultimo elemento, in un paese avanzato come l’Inghilterra, può essere ottenuto solo grazie ad un quinto: la legittimità.

Charles Dance nei panni di Lord Mountbatten

Per Mountbatten, l’unica fonte possibile di legittimità per un colpo di stato può venire dal sovrano, appunto il comandante in capo di tutte le forze armate. Il primo ministro Wilson, però, riesce ad anticipare i golpisti e ad arrivare per primo ad Elisabetta (Olivia Colman, nelle stagioni 3 e 4) che, quindi, rifiuta di dare il suo appoggio al disegno di Mountbatten e della Banca d’Inghilterra. Come direbbe il politologo tedesco Carl Schmitt, in questa circostanza Elisabetta decide sullo stato d’eccezione, anche se, di fatto, si tratta di non dichiararlo. Volendo sempre seguire Schmitt, è proprio questa prerogativa esclusiva di Elisabetta a renderla la vera autorità sovrana in Inghilterra.

La recente ricorrenza del centenario della marcia su Roma ci offre del resto un esempio del tutto analogo. Nella mattinata del 28 ottobre 1922, quando i fascisti erano ancora a due giorni dalla capitale, re Vittorio Emmanuele III si rifiutò di controfirmare lo stato d’assedio dichiarato dal governo Facta. Di fatto, lo stato d’assedio avrebbe permesso all’esercito di intervenire e di reprimere l’iniziativa fascista. Lo stesso Mussolini si aspettava questo esito, tant’è che non prese parte alla marcia, ma rimase a Milano, pronto a scappare in Svizzera in caso di intervento militare. Due giorni dopo, invece, si vide investito dell’incarico di formare un nuovo governo dal re in persona.

Come quella di Vittorio Emmanuele III, quella di Elisabetta non è una non-decisione, come può sembrare in apparenza. È una decisione di non intervenire, ma pur sempre una decisione che produce attivamente delle conseguenze ben precise. Nel primo caso, viene conservato l’incarico del governo laborista, nel secondo, il regno d’Italia viene consegnato nelle mani dei fascisti. In questa forma di decisione mascherata da imparzialità e inazione si cela il potere residuo che ha caratterizzato le monarchie del XX secolo; se si vuole leggere politicamente The Crown non si può prescindere da questo aspetto.

Questa posizione paradossale del sovrano è colta con acume da Margaret Thatcher (Gillian Anderson), in una scena dell’episodio conclusivo della quarta stagione. Siamo nel 1990, quando all’interno del partito conservatore si sta consumando una crisi di leaderhisp che rischia di far cadere il governo. Perso l’appoggio anche dei suoi più stretti collaboratori, Thatcher si presenta da Elisabetta per chiedere lo scioglimento delle camere. Di fronte al rifiuto della sovrana, Thatcher osserva che «lei (Elisabetta) ha potere nel fare nulla». Potere nel fare nulla, dunque, non impotenza o neutralità, come vorrebbe invece la narrazione legittimista degli esponenti dell’antico regime (Maria di Teck e la Regina Madre). Punto forte di The Crown è proprio la capacità di mostrare come i cambiamenti politici e sociali degli ultimi secoli, portando il capitalismo globale in uno stato di crisi ed emergenza continua, hanno inevitabilmente trasformato il “far nulla” del sovrano in faziosità, per quanto indiretta e ambigua.

Gillian Anderson interpreta Margaret Thatcher

È diventato ormai un luogo comune associare la monarchia britannica all’idea di soft power, ossia di un potere che si esercita non con le armi e la violenza, ma con la persuasione, l’appeal e la celebrità. Nei giorni successivi alla morte di Elisabetta II, è stato però osservato che, in realtà, il soft power della monarchia inglese è tutt’altro che soft. O per lo meno, è soft nei metodi, ma di certo non nelle conseguenze. Ad esempio, The Crown ci mostra come la corte faccia un uso pienamente strumentale e politico delle visite all’estero dei reali. La visita di Elisabetta del 1961 in Ghana (S2E8, Dear Mrs. Kennedy), lungi dall’essere puro teatro, ha l’effetto di dissuadere il presidente Nkrumah dalla collaborazione con l’Unione Sovietica e di riportare il paese indipendente da appena un anno sotto l’egida anglo-americana. Allo stesso modo, il tour di Diana (Emma Corin) e Carlo (Josh O’Connor) in Australia (S4E6, Terra Nullius) ha l’effetto di stroncare la causa del repubblicanismo che aveva cominciato a riguadagnare trazione proprio in quel periodo (siamo agli inizi degli anni ‘80).

Cento anni fa, Carl Schmitt parlava di teologia politica, per indicare come i medievali e i moderni avessero preso in prestito dalla teologia (“legittimità”, “diritto divino”, “potestà” ecc.) molti dei concetti utilizzati nella politica. The Crown ci mostra come la teologia politica della corona britannica si sia mondanizzata nel corso del XX secolo, ma, allo stesso tempo, riesce a cogliere quel residuo di potere sovrano che eccede il potere esecutivo, o, in altre parole, l’ordinaria amministrazione del paese. Certo non si tratta di un potere del tutto autonomo o arbitrario; nella serie (e sicuramente anche nella realtà), Elisabetta è condizionata nelle sue scelte da funzionari di corte, dai suoi primi ministri e dall’opinione pubblica. E però The Crown ci dà comunque un’idea di quell’orizzonte di sovranità che eccede la politica e di cui si avverte sempre di più la presenza in periodi di guerra e crisi. Si tratta di uno spazio da non sottovalutare e su cui indubbiamente possono proliferare nuove forme di conflittualità anche provenienti dal basso. La sinistra laborista ha ormai rinunciato a qualsiasi velleità antimonarchica, anche in una fase di transizione qual è stata la morte di Elisabetta, evento che molti ormai da tempo avevano paventato come possibile superamento della monarchia inglese.

E, quindi, all’alba di un nuovo regno, non ci resta che conservare e nutrire la consapevolezza del fatto che la sovranità non può essere condivisa e che la monarchia non si abolirà da sola. Laddove permarrà il diritto divino dei re non potrà mai esprimersi pienamente la libertà dei popoli. O l’uno, o l’altro.

Vive in Veneto. Lavora come precario nel mondo della scuola.