Il libro di Enzo Traverso “Rivoluzione” guida il lettore in maniera ricca e originale attraverso due secoli di rivoluzioni, studiando lo sconvolgimento dell’equilibrio e del tempo della società moderna.


Traverso, E (2021) Rivoluzione. 1789–1989: un’altra storia. Traduzione di C Salzani. Milano: Feltrinelli.

La traduzione in italiano del saggio che lo storico Enzo Traverso ha dedicato al concetto di rivoluzione è stata accolta da una lunga serie di recensioni entusiaste. Tralasciando il prezzo che Feltrinelli ha imposto alla pubblicazione – ben 39 euro, praticamente il doppio rispetto a quanto chiesto nella versione inglese da Verso – le buone ragioni non mancano affatto. Si tratta infatti di un testo ricco e intelligente, capace di affrontare due secoli di rivoluzioni – dalla presa della Bastiglia a Parigi nel 1789 al crollo del Muro di Berlino nel 1989 – attraverso una batteria di concetti che aiutano a comprendere la doppia natura di qualsiasi processo rivoluzionario. 

Da un lato, le rivoluzioni sono lo straordinario condensato di tutte le contraddizioni sistemiche. Queste non emergono quindi dalla volontà dei singoli e, secondo la classica formulazione che Rosa Luxemburg (1906) riservò alla rivoluzione russa del 1905, non possono essere chiamate a volontà neanche dal più organizzato partito della classe lavoratrice. Le rivoluzioni sono in prima istanza il manifestarsi dell’incapacità delle classi dominanti di cooptare passivamente le classi subalterne. Fino a quando non avvenga ciò, nessuna rivoluzione è infatti possibile. Il loro carattere è perciò risolutamente strutturale. All’interno di un sistema gerarchico e competitivo come quello capitalista, questo significa che ogni rivoluzione ha una natura internazionale, emergendo dalla costante necessità delle singole unità statuali di rispondere agli imperativi economici e militari creati incessantemente dall’avanzamento tecnologico e produttivo ottenuto altrove. È proprio l’infinita spinta all’accumulazione e l’irrefrenabile competizione che spingono a un costante rivolgimento degli strumenti e dei rapporti di produzione. Insieme a questi, cambia anche la struttura di classe, creando di volta in volta nuove e uniche costellazioni, che in alcuni casi sono propizie agli scoppi rivoluzionari. 

Dall’altro lato però, le rivoluzioni “sono invenzioni umane” (p. 27, in corsivo nel testo). Il loro scoppio è spesso anticipato da anni di lenta accumulazione delle energie rivoluzionarie durante i quali si creano le premesse stesse per l’avvio del processo. Quando però questo avviene, ogni rivoluzione trascende le cause che l’hanno scatenata. È proprio nel corso di questa infatti che il reale processo di emancipazione della classe lavoratrice prende forma. Nel giro di poche settimane, in alcuni casi solamente giorni, alcuni dei settori più arretrati del movimento operaio possono giungere alle più radicali conclusioni. Visto che la struttura economica e sociale non può logicamente cambiare in un lasso di tempo così breve, ciò che muta è la coscienza. E questa muta in relazione all’elemento insostituibile di ogni processo rivoluzionario: l’azione diretta delle masse che fanno, a differenza di quanto succeda di solito, la propria storia nelle strade e nelle piazze. L’auto-emancipazione dei subalterni non esiste quindi prima dello scoppio rivoluzionario. Al contrario, avviene nel processo stesso, anche attraverso la distruzione dei simboli del potere che contesta, come la Colonna Vendôme durante la Comune di Parigi del 1871, e la creazione di un nuovo immaginario. La bandiera rossa come vessillo di rottura radicale emerse, come Traverso ci ricorda, nelle rivoluzioni del 1848, mentre l’Internazionale divenne il canto ufficiale del movimento operaio e dei partiti social-comunisti solo dopo la vittoria dei bolscevichi in Russia nel 1917. Le rivoluzioni non creano però solamente nuovi simboli, ma riorganizzano anche lo spazio urbano e spesso danno vita a nuovi organi di potere che sfidano frontalmente l’ordine costituito. Il radicale sconvolgimento di gerarchie e norme che sembravano immutabili e il tentativo di costruire una società basata su principi radicalmente diversi fece giustamente concludere a Vladimir Lenin come la rivoluzione sia il carnevale degli oppressi.

In questa recensione, non potendo logicamente trattare tutti gli aspetti toccati dal libro di Traverso, proveremo a concentrarci su quello che riteniamo l’elemento più importante del testo – ovvero, la struttura del tempo nelle rivoluzioni. In chiusura, proponiamo una differente interpretazione dell’idea del concetto di sviluppo diseguale e combinato come precursore di una politica intersezionale e della rappresentazione dello stalinismo come rivoluzione dall’alto. 

Tempo capitalista e tempo rivoluzionario

Il tempo del capitale è vuoto e omogeneo. Tutto è racchiuso all’interno di un monotono e all’apparenza infinito ciclo che determina la costante valorizzazione di quanto viene investito in mezzi di produzione e materie prime, da un lato, e nei salari pagati a chi cede la propria forza-lavoro, dall’altro. Questo movimento ha una natura acceleratoria in quanto percorre la propria orbita in un lasso temporale che tende a decrescere. In tal senso, il ciclo diviene spirale. Niente però è strutturalmente alterato. Questo non significa ovviamente che lo scenario attorno a noi non muti. Anzi, proprio uno degli elementi che caratterizza il capitalismo, come già brevemente accennato, è la sua ‘naturale’ tendenza a ‘rivoluzionare’ costantemente gli strumenti e il modo di produrre. Per cogliere questa natura contraddittoria, lo storico William Sewell (2008: 526) ha suggerito la locuzione di “immobilità in movimento”. Dove però viene messo l’accento dagli intellettuali borghesi non è tanto sulla mutevolezza di un sistema che mantiene sempre il suo ‘sacro’ principio di fondo – l’accumulazione con la finalità dell’accumulazione – ma sul presunto carattere a-storico del capitalismo. Se questo non fosse, come invece è, un prodotto contingente dello sviluppo umano, si potrebbe infatti dubitare della necessità e anche della possibilità di superarlo. Uno dei tentativi più radicali in tal senso è stato formulato dagli economisti classici, come Adam Smith e David Ricardo, i quali hanno estratto alcuni elementi che caratterizzano gli esseri umani in quanto produttori e consumatori nel capitalismo e li hanno supposti congeniti, rendendoli quindi peculiarità del genere umano in quanto tale. La ragione è quella di fornire l’immagine di un eterno presente, dove niente può cambiare. A questa concezione, la visione della storia di Karl Marx risponde su un duplice versante. 

Il primo aspetto riguarda una prospettiva teleologica, ovvero il movimento storico attraverso il quale la successione dei vari modi di produzione – per quanto non tutti debbano essere necessariamente sperimentati da ogni società – porta fino alla transizione al comunismo. In una lettera all’amico Joseph Weydemeyer del 5 marzo 1852, dove rifiuta il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi e la lotta tra di esse, Marx (1852) sottolinea come il suo apporto sia stato quello di comprendere come “la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato”. Per quanto questa rimanga ovviamente una fase di transizione – una società senza classi, ma non ancora comunista – la prospettiva teleologica è chiarissima. Accanto a questa, trova spazio però anche un tempo concreto – quello dirompente della rivoluzione. Come scrive Traverso, “la rivoluzione trascende lunghi cicli storici e manda in pezzi il movimento spasmodico del capitale; possiede quindi la sua autonomia, un tempo autoregolato dell’azione liberatrice” (p. 54). Senza questo tempo rivoluzionario, il capitalismo non può essere superato perché, a differenza dei vari passaggi a nuovi modi di produzione avvenuti nel passato, il nuovo sistema socialista non può crescere molecolarmente all’interno della struttura socio-economica vigente: la deve prima abbattere. La ragione riguarda la diversa logica che innerva i due sistemi: come ci ricorda Traverso citando Herbert Marcuse, in una società socialista “il tempo libero e non il tempo lavorativo è la misura sociale della ricchezza” (p. 326). Qualsiasi isola socialista nel mare capitalista è quindi destinata ad essere sommersa dalle contraddizioni che la pressione esterna le scarica addosso, finendo per soccombere. Questo può avvenire sia perché vi è un collasso economico o militare, sia perché, come mostrato dal modello stalinista del ‘socialismo in un solo paese’, la logica della competizione con l’esterno può giungere a trasformare la struttura interna del paese liberato dal giogo capitalista fino al punto di non renderlo più socialista. Per tale ragione, il ‘mondo nuovo’ non può fiorire all’interno dell’involucro capitalista. Tutto questo significa che nella transizione ad una società senza classi è determinante il processo di auto-emancipazione delle classi sfruttate che si sviluppa all’interno del processo rivoluzionario stesso – quello che Traverso definisce come “le scosse telluriche della storia” (p. 35).

Questa duplice concezione del tempo negli scritti di Marx permette di superare tre scogli. Il primo è una visione puramente lineare e cronologica della storia. Nell’approccio classico proposto dalla socialdemocrazia sarebbe infatti possibile sconfiggere il capitalismo in maniera graduale. Il socialismo emergerebbe cioè per ‘aggiunte’, risultando come logica conseguenza di una lunga crescita organizzativa ed elettorale delle forze di sinistra. Il secondo è l’assenza di un telos. Senza la presunzione che i rivoluzionari si muovano in accordo con la ruota della storia, la loro azione risulta più debole e manca di quell’orizzonte trasformativo che risulta decisivo per resistere in situazione impervie – sconfitte, esili e prigionie – e per attrarre a sé le masse in fasi rivoluzionarie. Il terzo è una causalità deterministica. Ovvero, la presunzione che il cambiamento sociale sia automatico e che il mero progredire dello sviluppo delle forze produttive nel capitalismo porti necessariamente al suo superamento. A tutto questo, facendo ampio riferimento agli scritti di Walter Benjamin, Traverso risponde con una “temporalità qualitativa, aperta, mutevole e cangiante” (p. 330) che “scardina il continuum della storia” (p. 53). Nella sua prospettiva il tempo rivoluzionario è sospeso e trasformato. A queste aggiungeremmo altre due proprietà: accelerato e diseguale. Procediamo però con ordine.

In uno degli episodi più iconici della rivoluzione del luglio del 1830 a Parigi, gli insorti spararono contro le torri degli orologi in più punti della città simultaneamente. Sospendendo il tempo, i rivoluzionari rifiutavano la razionalità imposta dal capitalismo, la cui storia può anche essere letta “come un lungo e violento processo di controllo e appropriazione del tempo, mediante la sottomissione dei lavoratori ai vincoli di un sistema di produzione che possiede una determinata temporalità” (p. 322). La sospensione del tempo capitalista è anche il focus del romanzo di Joseph Conrad L’agente segreto che descrive “un complotto anarchico per far saltare in aria l’osservatorio di Greenwich” (p. 48). Questo era diventato, a partire dalla metà dell’Ottocento, il punto di riferimento per la sincronizzazione degli orologi pubblici del Regno Unito – misura a sua volta resasi necessaria per far circolare i treni, strumento prediletto del capitalismo dell’epoca che annullava, come continua a fare oggi, lo spazio attraverso il tempo.

La torre e il treno (1934) di Giorgio De Chirico.

Quando giungono al potere, le rivoluzioni non si limitano però a sospendere il tempo: lo trasformano anche. Nel tentativo di creare un nuovo ordine sociale, i calendari esistenti vengono spesso accantonati e il conteggio degli anni ricomincia a partire dalla presa del potere dei rivoluzionari. Da questo punto di vista, la rivoluzione francese del 1789 rimane senza eguali. Dopo la proclamazione della repubblica nel settembre del 1792, ogni segno di cristianità scomparve. Le settimane divennero di 10 giorni ed i mesi furono rinominati in accordo con la principale caratteristica climatica del periodo. Per commemorare il coraggio dei sans-culottes, venne anche creato un festival repubblicano di 5 giorni. In alcune occasioni, i rivoluzionari possono anche trasformare il tempo ancor prima di giungere al potere. Nonostante la sua breve durata, la Comune di Parigi del 1871 riesumò immediatamente il calendario rivoluzionario del 1792, mentre più recentemente i rivoluzionari in Sudan concludevano un loro post su Facebook con un “see you at 4 pm revolutionary time” (Alexander 2022). L’invito ad incontrarsi alle 4 del pomeriggio recava anche una significativa aggiunta: orario rivoluzionario. Non erano infatti le 4 di un qualsiasi pomeriggio. Si trattava, al contrario, di un tempo qualitativamente trasformato dal processo rivoluzionario stesso. Questo ci conduce alle altre due proprietà del tempo nel corso di una fase rivoluzionaria. Per quanto non possa logicamente mutare, questo risulta di fatto accelerato e diseguale.     

Lenin ha famosamente concluso come le rivoluzioni sono quelle “settimane in cui accadono decenni”. Se in qualche modo il rivoluzionario russo si è sbagliato è forse per una natura conservativa della sua valutazione. Allo scoppio della rivoluzione tedesca, la monarchia prussiana aveva governato per circa 50 anni sull’intera Germania e per secoli in Prussia: dopo appena una settimana entrava nei libri di storia senza quasi sparare un solo colpo per difendersi. La parabola dei Romanov in Russia e degli Asburgo d’Austria è così simile da non meritare ulteriori commenti. L’accelerazione non riguarda però solamente il singolo processo rivoluzionario, ma può anche investire la diffusione del fervore rivoluzionario. Il successo di una rivoluzione può infatti diventare un modello in altri paesi, dove il ritardo nello sviluppo del processo viene sopperito con un’improvvisa accelerazione del moto rivoluzionario stesso. La durata del processo si contrae e il tempo sembra letteralmente accelerare.

Questa accelerazione non è però omogenea. Al contrario, il tempo rivoluzionario tende ad essere diseguale, nel senso che soggetti diversi lo vivono in maniera significativamente diversa. Per le classi proprietarie e dominanti, l’obiettivo è quello di soffocare le aspirazioni emancipatrici create dalla rivoluzione ed erigere nuovamente il muro di paura che lo scoppio rivoluzionario ha improvvisamente fatto cadere. La loro prospettiva si basa principalmente sul ‘guadagnare’ tempo. Per i rivoluzionari è vero l’esatto contrario. Dato che nessuna società può vivere costantemente in un febbrile stato rivoluzionario, questa è una ristretta finestra di opportunità durante la quale i rivoluzionari devono giungere al potere. In caso contrario, come dimostrato da molti casi recenti nel contesto mediorientale, una spietata repressione li aspetta al varco: niente è infatti più feroce del fervore della controrivoluzione. Quando scoppia una rivoluzione, la sabbia nella clessidra dei rivoluzionari comincia perciò a scendere inesorabilmente. Devono far presto se non vogliono essere sconfitti. Prendono così in ‘prestito’ un tempo che solo parzialmente gli appartiene.

 

Note critiche sul concetto di sviluppo diseguale e combinato e sullo stalinismo come controrivoluzione

Il libro di Traverso è destinato a diventare un punto di riferimento per studiosi e appassionati dei movimenti rivoluzionari. Grazie ad una scrittura elegante e all’utilizzo di numerosi riferimenti artistici, provenienti principalmente dal campo della pittura, il lettore scopre due secoli di rivoluzioni in maniera ricca e originale. Si tratta quindi di un testo che può e deve essere conosciuto dai militanti rivoluzionari. Ciò detto, ci sentiamo di dissentire da alcune interpretazioni fornite dall’autore. 

La prima riguarda il concetto probabilmente più rilevante che la teoria marxista rivoluzionaria ha elaborato nel corso del Novecento – quello cioè di sviluppo diseguale e combinato. Citando uno dei passaggi più famosi che in Storia della rivoluzione russa Lev Trotsky dedica al concetto, Traverso conclude come “questa riflessione teorica portò all’abbandono di una visione eurocentrica della rivoluzione e al riconoscimento del suo carattere socialmente plurale – oggi diremmo ‘intersezionale’ – anziché esclusivamente proletario (p. 338). Crediamo che sia vero l’esatto contrario – ovvero, che il concetto di sviluppo diseguale e combinato esalti la centralità della classe lavoratrice all’interno del processo rivoluzionario. Prima di provare a dire perché, è però forse utile introdurre il concetto stesso. 

Il punto di partenza di Trotsky è la presenza all’interno del capitalismo di due tendenze contraddittorie. Da un lato, attraverso l’incorporazione all’interno del mercato globale delle singole unità, questo ha un carattere universalizzante e livellatore. Dall’altro, l’espansione del capitalismo tende però a creare diseguaglianze e differenziazioni. Per quanto il carattere diseguale dello sviluppo non sia una prerogativa unica del capitalismo, ma anzi rappresenti, nelle parole dello stesso Trotsky (1932: 20), “la legge più generale dello sviluppo storico”, vi sono due aspetti che diventano determinanti all’interno di questo modo di produzione. Il primo è l’assoluta centralità dell’elemento socio-economico che, per la prima volta, diviene in grado di rompere completamente i freni posti al suo sviluppo dalla sfera politico-ideologica. Il secondo riguarda invece le relazioni di proprietà che il capitalismo istituisce, determinando un bisogno sistemico di massimizzazione dei profitti e di crescita infinita in un contesto caratterizzato da una spietata competizione. Proprio questo secondo fattore determina una fortissima pressione da parte degli stati più avanzati industrialmente e tecnologicamente su quelli che lo sono meno. Quest’ultimi, per non divenire completamente dipendenti dal centro capitalista, sono quindi costretti a cercare di chiudere il divario che si è creato, introducendo le tecnologie di produzione più avanzate ed evitando qualsiasi forma di sviluppo lineare. Al contrario, sotto la “sferza della necessità” (Trotsky 1932: 5), la storia procede a balzi per i paesi della periferia capitalista, producendo una miscela unica di forme arcaiche e contemporanee. È proprio questa a determinare uno sviluppo combinato. Mentre oggi questo può riguardare fasi diverse dello sviluppo capitalistico, nella formulazione originale di Trotsky il riferimento era ai vari modi di produzione. Nella Russia del 1917, in particolare, in un paese ancora largamente agricolo e con forme di produzione pre-capitaliste, certi rami industriali nelle principali città si trovavano ad un livello di avanzamento pari, se non superiore, a quelli occidentali, e vantavano una concentrazione di manodopera senza precedenti. Anche per l’effetto della guerra, ad esempio, il 70% della classe lavoratrice a San Pietroburgo si trovava in aziende con oltre 1.000 dipendenti (Smith 1983). Come prodotto di questa eccezionale concentrazione industriale e per la presenza di un proletariato giovane che ancora non era stato irregimentato all’interno delle strutture di massa socialdemocratiche, la classe lavoratrice, nonostante rappresentasse un’esigua minoranza della popolazione, poteva assumere un ruolo guida all’interno di un processo rivoluzionario che avrebbe dovuto legare assieme, come poi avvenuto, la fase democratico-borghese e quella socialista-proletaria all’interno di un unico processo, noto come rivoluzione permanente.   

Se quindi, con l’utilizzo del termine intersezionale, Traverso allude ad una politica interclassista, la conclusione alla quale giunse Trotsky era esattamente opposta. 

La questione si pone infatti in chiave egemonica, cioè, in ultima analisi, nella messa in pratica della capacità della classe lavoratrice di farsi portavoce e alfiere del malessere e delle istanze di tutta la popolazione subordinata in un comune progetto di emancipazione. La formulazione di Trotsky è quindi in completa rottura con le concezioni operaiste ottocentesche à la Lassalle che contrapponevano il proletariato alle altre classi che si presentavano come “una massa reazionaria” (Marx 1972: 40). Ciò non avviene nel senso di una concezione del contenuto politico della rivoluzione come ‘socialmente plurale’, cioè come amalgama di programmi e progetti politici divergenti, ma di una dimensione politica e universale della lotta di classe e dell’emancipazione della classe operaia come veicolo dell’emancipazione dell’intera umanità dall’oppressione e della sfruttamento.

La seconda interpretazione con la quale dissentiamo è la rappresentazione dello stalinismo come rivoluzione dall’alto. Dopo aver correttamente rifiutato la categoria di totalitarismo, Traverso argomenta come la politica stalinista sia stata una rivoluzione dall’alto – ovvero una trasformazione dello Stato e della società per combattere minacce dal basso oppure dall’esterno, sovente nella forma della competizione economica e militare posta da Stati che si trovano ad un livello più avanzato di sviluppo. Classici esempi di rivoluzioni dall’alto – un concetto che mostra numerosi punti di contatto con quanto Antonio Gramsci definisce rivoluzione passiva – sono l’unificazione e industrializzazione della Germania sotto il cancelliere Otto von Bismarck, la restaurazione Meiji in Giappone e il cosiddetto ‘socialismo arabo’ di Gamal Nasser in Egitto.

Il problema fondamentale del ragionamento di Traverso, su questo, è la semplificazione della sua analisi in base al criterio formale della restaurazione o meno del precedente regime politico in seguito a una rivoluzione. La discussione sulla natura del regime politico nell’URSS e della politica stalinista si schiaccia, così, sui due concetti di rivoluzione dall’alto e di controrivoluzione. Questa sua scelta lo porta a disfarsi dell’apparato teorico marxista riguardo al tema della transizione al socialismo e al concetto di Stato operaio, o semi-Stato, a essa associato, secondo l’elaborazione che esso ha progressivamente formulato, passando attraverso la famosa sistematizzazione di Lenin in Stato e rivoluzione e la difesa e lo sviluppo di questi concetti da parte di Lev Trotsky.

Mancando, per ovvi motivi, un’analisi di Lenin degli sviluppi politici successivi all’inverno 1922-1923, i suoi due ultimi scritti effettivamente pubblicati in tempo reale (al contrario del suo ‘testamento’ rivolto al XII Congresso del partito comunista russo), Come riorganizzare l’ispezione operaia e contadina e Meglio meno, ma meglio offrono l’ultimo sguardo d’insieme sul tema, insieme al notevole L’epurazione del partito e altri scritti relativi ai primi due anni della Nuova Politica Economica (NEP) sovietica. In particolare, troviamo in più di un caso l’affermazione esplicita che tutto un insieme di peculiarità e problemi dello Stato sovietico sono riconducibili alla sua natura deformata in senso burocratico (cfr. ad esempio 1967), che viene ricondotta sistematicamente al problema della vittoria della rivoluzione socialista in altri paesi e, in particolare, alle potenze imperialiste europee caratterizzate dal più avanzato sviluppo capitalista, a partire dalla Germania. Tale inquadramento della questione permette a Lenin, poi a Trotsky (2000), di non scadere in una formulazione unilaterale o comunque semplicistica, a partire dal rifiuto di una lettura del fenomeno URSS basata su un isolamento astratto delle sue dinamiche interne dal proprio contesto storico – socio-economico e politico – internazionale. A partire dalla lezione storica dell’altra memorabile rivoluzione sociale europea, quella francese del 1789, gli oppositori di Stalin negli anni Venti recuperarono i concetti di termidoro e bonapartismo per analizzare la burocratizzazione del regime sovietico e le dinamiche reazionarie che mettevano in pericolo la transizione al socialismo nel paese, rischiando di sfociare in una controrivoluzione, nello smantellamento dello Stato operaio e nelle liquidazione sistematica delle conquiste della rivoluzione (cosa puntualmente avvenuta decenni dopo col collasso dell’URSS). Appunto, né in questa prima fase (con posizioni diverse sostenute dalle varie correnti di opposizione) né successivamente questi pensatori marxisti hanno appiattito l’analisi dell’URSS post-leniniana a una semplice ‘controrivoluzione’ che sarebbe dunque durata una sessantina d’anni solo nella sua prima fase, quella ancora ‘sovietica’, per poi passare a quelle successive – immaginiamo, ancora in corso e non si sa per ancora quanto tempo – rendendo il concetto talmente sovraesteso da fargli perdere qualsiasi significato specifico. Un problema che però si pone anche sul versante opposto, dove si colloca Traverso, che consiste nell’assimilazione dell’URSS burocratizzata alle ‘rivoluzioni dall’alto’ che hanno interessato in particolare le potenze imperialiste sviluppatesi in ritardo rispetto ai loro principali concorrenti. I critici rivoluzionari sovietici dello stalinismo, l’Opposizione di Sinistra di Trotsky e la corrente “Centralismo democratico”, sottolineavano l’opera di reazione politica e sociale alla vittoria della rivoluzione sociale, senza schiacciarne i vari aspetti e fasi alla nozione di controrivoluzione, la quale d’altronde, nel suo primo tentativo, era stata sconfitta negli anni della guerra civile russa. Ciò non toglieva, però, che si davano contemporaneamente sia un recupero di posizioni da parte della borghesia (quella urbana dei nepman  e quella rurale dei kulaki) come classe reazionaria e non definitivamente liquidata nella società sovietica; sia un salto qualitativo verso destra del regime politico attraverso la lotta politica contro le correnti più radicali e conseguenti rispetto all’ulteriore sviluppo della rivoluzione. Questa situazione presentava un’analogia forte, effettivamente, col Termidoro francese del 1794, quando i giacobini di Robespierre furono rimpiazzati violentemente al governo da correnti più moderate che avevano interesse a troncare la dinamica di ‘rivoluzione in permanenza’ che ancora si stava dando. Minacciato dalle forze controrivoluzionarie (la precedente classe dominante aristocratica e le potenze europee in guerra con la Francia), il bonapartismo di Napoleone I aveva rappresentato il salvataggio del regime sociale conquistato dalla rivoluzione, associandolo a una sua forma ‘burocratizzata’, con tratti conservatori e reazionari, tenuta assieme dalla figura del Primo Console – e poi Imperatore – per via della debolezza politica delle classi sociali in Francia. Al netto dell’intenso dibattito che vi fu in merito e che non possiamo qui ripercorrere, l’Opposizione di Sinistra, all’interno della degenerazione del processo rivoluzionario sovietico, individuò un periodo ‘termidoriano’ con la lotta aperta, emersa tra 1923 e 1924, da parte del ‘centrismo burocratico’ dell’apparato di partito e di Stato contro la componente rivoluzionaria, seguito dall’instaurazione di un regime più propriamente ‘bonapartista’, centrato sulla figura di Stalin, con la liquidazione delle opposizioni, nel periodo del XV congresso del partito russo (fine 1927) e negli anni immediatamente successivi. La stessa dinamica contraddittoria e violenta di questa evoluzione permise di stroncare l’ascesa di una nuova borghesia controrivoluzionaria nel paese, garantendo un certo sviluppo e consolidamento del nuovo regime sociale nonostante lo stroncamento del processo di rivoluzione permanente da cui era nato. Una situazione che va distinta dai processi di modernizzazione borghese in cui si evitava un processo rivoluzionario “classico” tramite riforme strutturali calate dall’alto, evitando accuratamente l’attivazione politica delle masse popolari. La burocratizzazione dell’URSS, questo è vero, ha presentato aspetti di ‘rivoluzione dall’alto’ proprio nella misura in cui aveva neutralizzato il sistema sovietico della democrazia proletaria, e dunque poteva agire dispoticamente ‘dall’alto’ modificando ulteriormente la società russa, respingendo la tendenza a una ‘restaurazione’ della società borghese che, come abbiamo argomentato, non sarebbe consistita nel semplice recupero dell’assetto sociale pre-1917. La differenza fondamentale con le ‘rivoluzioni dall’alto’ borghesi, che permette soltanto un’analogia parziale, consiste nell’instaurazione della dittatura politica di una nuova classe dominante (il proletariato) tramite l’abbattimento del precedente regime politico col suo apparato statale.

Quanto Traverso correttamente vede come “una miscela paradossale di modernizzazione e regressione sociale, il cui risultato finale furono le deportazioni di massa e i campi di concentramento” (p. 350), si era innestato a partire da un nuovo regime sociale, forgiato da una rivoluzione, dove avevano prevalso gli aspetti conservatori-reazionari e burocratizzanti, cosa che poneva costantemente il problema di una risoluzione della contraddizione tra il necessario sviluppo in senso socialista, rivoluzionario, e il regime politico bonapartista. L’evoluzione controrivoluzionaria di questa situazione non è però considerabile solo rispetto alla dimensione ‘interna’ dell’URSS, ma fu segnata in particolare dal passaggio stabile alla politica dei fronti popolari e al sostegno di una partecipazione di lungo periodo allo sviluppo di regimi borghesi democratici come strategia complessiva dell’Internazionale Comunista (finché è esistita: la logica conseguenza dell’abbandono esplicito della lotta rivoluzionaria socialista fu la liquidazione del Komintern nel 1943). All’atto pratico, l’URSS intervenne attivamente per stroncare l’ulteriore sviluppo in senso socialista della rivoluzione spagnola durante la guerra civile del 1936-39: in questo caso, non si trattava di consolidare un nuovo regime politico rivoluzionario con metodi burocratici, ma di mantenere quello precedente liquidando le ali sinistre e l’evoluzione del processo rivoluzionario stesso come parte di una rivoluzione socialista mondiale.

Se ovviamente sarebbe scorretto attribuire tutte le colpe del successo della reazione guidata dal generale Francisco Franco allo stalinismo, questo ha giocato un ruolo così nefasto per lo sviluppo e il successo della rivoluzione che sembra difficile tacerlo. Non abbiamo lo spazio per entrare nei dettagli e vi è una mole imponente di studi dai quali attingere. Forse però sono due romanzi – Omaggio alla Catalogna (1938) di George Orwell e L’Uomo che amava i cani (2009) di Leonardo Padura – che consiglieremmo per ricavare un affresco della rivoluzione spagnola che, oltreché chiaro, sia anche estremamente vitale. Temendo che il successo della rivoluzione spagnola potesse rafforzare l’opposizione interna in Unione Sovietica, lo stalinismo si dedicò con immancabile precisione alla sistematica eliminazione della componente anarchica e, soprattutto, di quella del marxismo rivoluzionario, come testimoniato dall’efferato omicidio di Andreu Nin, leader del Partito Operaio di Unificazione Marxista (PUOM). La sconfitta della rivoluzione spagnola chiuse definitivamente quel lungo ciclo che la rivoluzione del 1917 in Russia aveva aperto e spinse l’Europa sulla soglia del secondo conflitto mondiale.

A questo primo precedente fondamentale ne sono seguiti parecchi, con una responsabilità diretta della burocrazia sovietica o di caste analoghe (come quella cinese), a partire dall’accordo con gli imperialisti ‘democratici’ vincitori della seconda guerra mondiale che permise di stroncare qualsiasi processo rivoluzionario in Europa sulla scia della guerra, con la parziale eccezione di diversi paesi orientali dove il processo di “costruzione del socialismo” veniva calato immediatamente dall’alto, replicando la degenerazione della democrazia sovietica senza averne vissuto la spinta rivoluzionaria iniziale. Questo ruolo controrivoluzionario del regime staliniano (e dei suoi successori) consisteva, appunto, nel suo suolo nella politica internazionale, come freno alla rivoluzione in permanenza su scala mondiale, e non nella liquidazione sistematica delle conquiste della rivoluzione russa, che costituivano la base materiale del potere e della sopravvivenza stessa della casta burocratica, la quale aveva la sua origine e la sua base sociale nel proletariato sovietico. Ciò, evidentemente, creava un’enorme contraddizione tra la retorica del socialismo “quasi del tutto realizzato” e la stagnazione della transizione reale verso il socialismo, che presupponeva una rottura con la vecchia parola d’ordine della costruzione del socialismo “in un solo paese”.

Questo è un elemento che non può non sottovalutato: soprattutto a partire dalla repressione dei moti rivoluzionari d’Ungheria del 1956, schiere di giovani intellettuali e militanti comunisti hanno mostrato un crescente disagio nel considerare i paesi del ‘socialismo reale’ come ‘realmente socialisti’. E a buon titolo, ovviamente. Per molti però il passaggio ulteriore è stato quello di una stretta sovrapposizione tra i metodi con i quali la rivoluzione del 1917 era stata condotta e la creazione di un successivo immenso impero burocratico. La conclusione è stata quella di un rigetto dell’esperienza bolscevica e, soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino, una fortissima spinta verso la cosiddetta politica prefigurativa – ovvero l’idea piccolo-borghese che ognuno debba essere il cambiamento che vuole vedere nel mondo. Traverso è osservatore troppo intelligente per non cogliere questo elemento. Nel breve epilogo del libro, sottolinea infatti come “la sinistra [abbia] riscoperto un insieme di tradizioni rivoluzionarie che erano state eclissate o marginalizzate nel corso di un secolo, in primis l’anarchismo [..]” (p. 375). Per studiosi e commentatori, questo è in primo luogo un elemento di cui prendere nota e che può valer la pena analizzare. Per tutti coloro che provano a costruire una forza rivoluzionaria rappresenta invece un macigno. Questo non significa ovviamente che debba essere considerato un ostacolo insormontabile, né tanto meno un fattore in grado di auto-riprodursi all’infinito. Tuttavia, soprattutto in quei paesi dove lo stalinismo è stato più forte e le correnti radicali hanno preso strade diverse rispetto alla riscoperta del nucleo forte del marxismo rivoluzionario, è oggettivamente un elemento che pesa e frena. Da questo punto di vista, l’eredità dello stalinismo è esplicitamente controrivoluzionaria in quanto il suo ingombrante fantasma contribuisce a deviare il radicalismo giovanile e proletario in senso neo-riformista

Nella sua rappresentazione dello stalinismo come rivoluzione dall’alto diremmo, quindi, che Traverso parla sì degli aspetti burocratici della transizione al socialismo degenerata e bloccata dal regime stalinista, ma offrendone una lettura analiticamente povera rispetto a quella elaborata da Trotsky e dai rivoluzionari del suo tempo, e non feconda per pensare ai problemi dello sviluppo rivoluzionario del movimento operaio e della lotta di classe nel nostro secolo.

Queste divergenze di opinioni non intaccano però in alcun modo, ci preme ricordarlo in chiusura, un testo di rara bellezza che merita la più ampia ricezione possibile. 

 

Gianni Del Panta, Giacomo Turci

Questo articolo fa parte del numero 4, autunno 2022, della rivista Egemonia.

 

Bibliografia

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Lenin V (1967)[1920] I sindacati, la situazione attuale e gli errori di Trotski. Opere complete. Vol. XXXII. Roma: Editori Riuniti.

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Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.