“La boxe [dal punto di vista del business] è il capitalismo lasciato a se stesso, nella sua forma più estrema. […] It’s the American Dream and the American Nightmare”. Così, Al Bernstein, storica voce della boxe negli USA, commenta nel documentario “Champs”, del 2014, prodotto da Mike Tyson, in merito al sistema di gestione dei profitti della ‘nobile arte’, da più di 110 anni a questa parte. E, alla prova dei fatti, non c’è nulla di più vero.

Le dinamiche intrinseche della boxe, fin dalla sua concezione, sono logiche di sfruttamento. Nell’ottocento, i circuiti di boxe erano composti principalmente da schiavi afroamericani, schiavi “liberati”, o proletari bianchi. Come afferma Spike Lee, nello stesso documentario sopra citato: “se tracciassimo una storia della boxe e dei suoi campioni per etnia e status sociale, potremmo, in America, vedere che quelli dei campioni coincidono sempre con quelli più svantaggiati nella società nel suo complesso.”. Dai “primi” neri post-tredicesimo emendamento (Jack Johnson, Joe Louis…), agli ebrei (Max Baer, Abe Attell, Barney Ross), agli italo-americani (Jake La Motta, Rocky Marciano, Antonio Canzoneri), ai “nuovi” afroamericani (Sugar Ray Leonard, Sugar Ray Robinson, Muhammad Ali, Mike Tyson, Evander Holyfield e tantissimi altri) fino ai giorni della scuola latinoamericana (Oscar De la Hoya, Julio Cesar Chavez, Miguel Cotto), in America, i grandi campioni del professionismo hanno sempre coinciso con membri dei ceti più disagiati della società. Ed è proprio sulle spalle di questi giganti, di questi campioni, che si è venuto a formare uno dei sistemi più predatori e meschini della storia dello sport professionistico.

Tutto si regge sull’idea che un pugile faccia, automaticamente, molti soldi. E’ un ingranaggio insito nella mente dell’osservatore esterno: “Se quest’uomo combatte, allora necessariamente avrà un giusto compenso: se così non fosse, non starebbe combattendo.”. In realtà, questa è soltanto la manifestazione più pura della meschinità del concetto di “meritocrazia” capitalistica. Nel pugilato, per ogni storia di successo, per ogni storia come quella di un Floyd Mayweather, rampollo di una delle famiglie più ricche del business dei guantoni, ce ne sono altre migliaia di pugili reputati “minori” i quali, pur di poter combattere, si trovano non solo a dover spendere una quantità immane di liquidi, ma addirittura a dover sopravvivere con stipendi più bassi, talvolta, di quelli di un operaio. Questo perché la maggior parte dei profitti del singolo pugile derivano dalle vendite e dallo share televisivo dei suoi singoli incontri: come nel calcio, i diritti televisivi sono la più grande causa di spostamento di capitale all’interno dell’industria. Ma a differenza del calcio, nella Boxe non ci sono squadre. Non ci sono contratti assicurati. Non ci sono sindacati.

La maggior parte della contabilità è gestita dai manager, da terzi, che prendono sotto la propria ala i pugili con l’intento, molto spesso (vedi il caso famigerato di Don King), di approfittare dell’ignoranza dei propri clienti. Recentemente, sono venuti alla luce molti scandali di questo tipo, scandali che hanno toccato nomi grandissimi del pugilato (come Tyson e Holyfield), ma ciò che spesso si tende a ignorare è che il sistema che ha permesso il propagarsi di questa malagestione è stato creato ad hoc un secolo fa: accorgendosi della vulnerabilità di molti giovani prospetti, i grandi promoters e le firm dei manager hanno sempre fatto lobby per fare si che non si venissero mai a formare regolamenti a livello federale ed istituzioni che potessero dare avviso e consulenza ai giovani delle classi subalterne che nella boxe cercavano una via d’uscita ad un capitalismo che li aveva lasciati, insieme alle loro famiglie, con briciole o poco più, nella migliore delle ipotesi. Questo ha impedito, negli USA, la formazione di leghe, associazioni, leggi e sindacati col preciso scopo di difendere gli sportivi che competevano in quello che, ad oggi, è ritenuto lo sport più pericoloso del mondo. Nel 2018, quando scrivo questo articolo, esiste solo una legge, l’ “Ali Act” del 1999, che si ripromette di garantire sicurezza e giustizia per i boxer, ma la sua vaghezza e l’influenza del lobbismo televisivo e sportivo hanno impedito molto spesso la sua attuazione effettiva. Uno dei punti fondamentali ripromessi dai promotori legge, ovvero quello di creare una commissione federale della boxe, ad oggi, non è ancora stato realmente rispettato, e sembra ancora lontano il giorno in cui questa commissione vedrà la luce.

L’importanza di una commissione a livello federale che regoli la gestione del pugilato deriva dal fatto che la maggior parte dei comportamenti più sregolati all’interno dello sport sia dovuta alla presenza di una commissione sportiva per ogni singolo stato federato, che quindi crea un sistema vizioso di competizione per fondi e diritti televisivi, innescando di conseguenza un meccanismo di deregolamentazione a favore di promoters e fortemente improntato alla noncuranza del benessere e della salute degli atleti in questione, i veri creatori del profitto materiale derivato dagli incontri.

Ed è proprio la salute il punto più tragico della vicenda: si stima che almeno il 90% dei pugili arrivi a fine carriera con un qualche tipo di trauma cerebrale, e che moltissimi di questi portino a condizioni permanentemente disabilitanti. Si sono fatti dei passi in avanti per cercare di proteggere i pugili da una sorte terribile, ma in generale ancora si garantisce poco a individui che mettono a rischio, ogni mese, la propria vita per uno sport, per un guadagno misero, nella maggior parte dei casi. Non c’è alcuna forma di welfare sociale, nessun sistema di assicurazione sanitaria generalizzata, nessun compenso garantito minimo per gli atleti, con storie tragiche come quella di Meldrick Taylor, un tempo promessa scintillante della categoria dei pesi light-welter, oggi ridotto a dover combattere, ancora, per poter pagare un affitto, nonostante un infortunio debilitante riscontrato contro Chavez nel 1990 lo abbia ridotto a uno stato di demenza clinica.

Se un disabile ancora deve trovarsi a combattere per poter sopravvivere, risulta assurdo come ancora non siano stati fatti dei passi nella direzione giusta per poter aiutare le migliaia di pugili che, per amore di quest’arte, di questa disciplina, si trovano a dare sangue per ricevere in cambio poco più che spiccioli. Per questo, l’incontro del secolo, è quello tra i pugili ed un sistema corrotto, vigliacco e manipolatore: la sfida, così come in molti altri campi (come nel wrestling, che in realtà presenta una situazione ancora più assurda, dove nonostante si tratti di intrattenimento, nonostante i risultati degli incontri siano predeterminati, e nonostante le statistiche sui danni agli atleti siano quasi coincidenti con quelli del pugilato, il meccanismo di gestione economica e dei diritti è quasi lo stesso), sta nel creare un sindacato, un’entità dei pugili, costituita da pugili, che si batta per i loro interessi, e che cerchi di inserirsi nella direzione non solo di un cambiamento nel breve periodo, per tutti coloro che oggi soffrono e non possono fare altro che incassare, ben oltre la dodicesima ripresa, ma anche di uno nel lungo periodo, per cambiare un sistema economico che, è il caso di dirlo, come una piovra, attanaglia tutto e tutti.

 

Luca Gieri

 

Nato a Toronto nel 1998, studente di scienze politiche all'Università di Bologna presso il campus di Forlì, militante della FIR e redattore della Voce delle Lotte. Cresciuto a Bologna, ha partecipato ai movimenti degli studenti e di lotta per la casa della città.