All’alba del 7 ottobre un commando di Hamas a Gaza rompe il recinto che delimita il confine con Israele e lancia un attacco in terra israeliana senza precedenti. Il varco è stato aperto nei pressi di Eretz ed è stato accompagnato dall’entrata di parapendii guidati da militanti dell’ala militare del partito islamista, le Brigate ‘Izz al-Din al-Qassam. La spettacolarità dell’attacco ha fatto subito il giro del mondo generando il solito sdegno vittimistico dei sostenitori dell’occupante sionista.

L’operazione militare, “Tufan al-Quds” (Tempesta di Gerusalemme) avvenuta all’alba del 7 ottobre al confine tra Gaza e Israele è stato un evento storico che ha segnato la rottura del confine che ha reso la Striscia di Gaza, già martoriata dai bombardamenti Israeliani degli ultimi 15 anni, una prigione a cielo aperto.

L’operazione di ieri è un atto che, a detta dei palestinesi, rappresenta in maniera concreta cosa vuol dire decolonizzare un territorio. Ciò non vuol dire che la liberazione della Palestina sia vicina, al contrario, scatenerà, come già sta avvenendo, l’ennesimo bombardamento della Striscia e una probabile operazione sionista via terra. Infatti, dopo un giorno di operazioni militari gli israeliani hanno lasciato sul campo già 300 morti e migliaia di feriti oltre alla distruzione di case e palazzi.

Secondo gli esperti più attendibili, quella di ieri è stato un’operazione che si è consumata in un momento delicato nella Storia di Israele. L’ascesa al governo dell’esecutivo più a destra della storia dell’entità sionista è corrisposto con grandi mobilitazioni di piazza da parte degli israeliani contro la riforma della giustizia. Secondo molti, Israele in questo periodo sembra essere più debole che mai tanto da permettere a un gruppo di militanti palestinesi di accedere all’interno del suo territorio e compiere un’operazione militare senza precedenti.

Da parte palestinese, i tempi e i motivi dell’operazione sono da ricercare all’interno del processo di normalizzazione dello Stato ebraico con l’Arabia Saudita. Un tentativo, quello di ieri, di far deragliare queste iniziative. Inoltre, sempre rispetto alle tempistiche dell’operazione, molti affermano che l’operazione sia legata a fatti storici, infatti, proprio in questi giorni (il 6 ottobre più precisamente) cadeva il cinquantennale della Guerra di Ottobre, un evento ricordato dai paesi arabi come la ‘vittoria su Israele’ (che vittoria non fu) e la ripresa dei territori egiziani del Sinai conquistati da Israele nella Guerra dei Sei Giorni.

Oltre le speculazioni sulla resistenza palestinese

Al di là delle speculazioni sulle cause e sulla facilità delle forze di resistenza palestinesi di penetrare il territorio israeliano, ciò che è certo è che quello di ieri è il risultato delle politiche di occupazione e segregazione israeliane che vanno avanti da 75 anni.

Alcuni giorni fa abbiamo pubblicato un articolo che ricordava il trentennale dei cosiddetti Accordi di Oslo e del loro fallimento all’interno del grande progetto imperialista americano del ‘Piano di Pace in Medio Oriente’. E’ da qui che oggi, al di là della profondità storica dell’occupazione israeliana, deve partire il ragionamento e dare delle spiegazioni, non speculative come fanno gli analisti dei paesi imperialisti, rispetto a ciò che è accaduto ieri.

Si guarda molto spesso agli attori che svolgono questo tipo di operazioni, in questo caso Hamas, tuttavia si denigrano le cause e il diritto dei palestinesi a difendersi dall’occupazione israeliana e dalla natura sempre più repressiva dell’ANP (Oslo in questo è stato determinante).

Bisogna riconoscere che con il fallimento di Oslo sono crollati diversi paradigmi che hanno contraddistinto la narrativa attorno al processo di pace, tre su tutti: i due Stati, l’integrazione dei palestinesi in Israele, la sicurezza di Israele.

Questi tre elementi sono stati messi seriamente in discussione da azioni di massa dei palestinesi a Gaza, in Cisgiordania, in Israele così come nel Shatat (diaspora) nel 2021 dove uno sciopero generale, nato in seno alla cosiddetta Intifada dell’Unità (qui una nostra traduzione del manifesto originalmente in lingua araba) che ha coinvolto tutti i palestinesi.

Questi eventi, per quanto limitati, hanno cambiato qualitativamente l’azione palestinese in tutto il territorio, il confine non è più contemplato e paradossalmente si è tornati ad una situazione in cui la soluzione della spartizione della Palestina non è più percorribile. Già le famose marce del ritorno (ritorno dei profughi nelle loro case originarie) rappresentavano un’iniziativa che contrastava con forza la retorica della pace giusta.

Tale scenario mette in dubbio, in primo luogo, la retorica imperialista della soluzione dei due Stati (in realtà con l’obiettivo di legittimare il colonialismo di insediamento nella Cisgiordania) e, in seconda battuta, il Movimento Nazionale Palestinese (soprattutto quello legato all’ANP) che di fatto resta impotente di fronte al crescente apartheid politico e sociale israeliano. Inoltre, mette fine alla narrativa del palestineseisraeliano ben integrato all’interno della società dello Stato sionista, ove invece esso è sempre stato considerato un cittadino di serie b, perennemente super-sfruttato in tutti i settori dell’economia israeliana.

Il succo del discorso ruota attorno alle dinamiche che stanno unendo sempre più rivendicazioni nazionali a quelle strettamente sociali. Su quest’ultimo punto centrale è la fine dell’illusione della Palestina come nuova Singapore del Medio Oriente. Un concetto sbandierato all’epoca degli Accordi dalle grandi Istituzioni finanziarie internazionali e appoggiato in grande stile dall’imperialismo occidentale così come dalla leadership palestinese. Il logico fallimento della costruzione neo-liberista dell’economia palestinese ha generato quello a cui si è assistito in diversi paesi periferici: lo sviluppo di una borghesia compradora e la proletarizzazione di ampie masse. La corruzione crescente, data soprattutto dai grandi finanziamenti delle potenze imperialiste all’ANP e il controllo delle stesse da parte israeliana (controllate dall’occupante e usati come arma di ricatto) hanno generato un sistema corrotto che è andato a erodere il tessuto sociale, già martoriato, dei Territori Palestinesi.

Per un movimento di classe indipendente palestinese

Di fronte alle scene, quasi romantiche, dei guerriglieri di Hamas in parapendio che atterrano su territorio israeliano hanno generato una sorta di ritrovato entusiasmo per la resistenza armata palestinese. Tuttavia, all’interno di un discorso politico lucido è anche necessario evidenziare i limiti del movimento islamista.

In questo senso, al di là della natura reazionaria del movimento e delle politiche criminali che esso porta avanti all’interno della Striscia di Gaza dal 2007, Hamas non ha una strategia di liberazione efficace. In questo senso, la lotta armata così come interpretata dal movimento islamista, scollegata da una strategia di classe in grado di organizzare il proletariato arabo in Israele e Cisgiordania, oltre ad essere collusa con potenze regionali reazionarie come l’Iran, è di fatto a perdere. Da un lato, è ben riconosciuta l’asimmetria di potere tra esercito israeliano e la resistenza palestinese tutta, mentre come abbiamo visto l’ANP ormai da tempo si limita a gestire l’esistente; ragion per cui è necessario collegare una strategia insurrezionale alle contraddizioni in seno alla società israeliana e alla stessa società palestinese, così da indebolire il nemico e unire le rivendicazioni delle classi popolari palestinesi.

Dall’altro lato, non solo gli Stati Arabi, ma anche l’Iran, mantengono un atteggiamento opportunista nei confronti della questione palestinese, oltre a rappresentare regimi oppressivi nei confronti dei loro stessi popoli, i veri alleati internazionali degli abitanti di Gaza, Ramallah ecc.

Date le condizioni oggettive createsi soprattutto in questi ultimi anni e soprattutto alla luce dell’incremento della violenza israeliana in Cisgiordania, una posizione che ogni organizzazione comunista dovrebbe avere in questo frangente è quella del sostegno all’auto-0rganizzazione palestinese. I comitati popolari di resistenza, indipendenti dalle fazioni politiche palestinesi, così come le organizzazioni dei lavoratori nei Territori Occupati così come quelle palestinesi all’interno di Israele devono essere al centro di una più ampia mobilitazione popolare. Solo in questo modo i rapporti di forza potrebbero in un qualche modo minare l’egemonia israeliana. Al di là delle speculazioni fatte in questi primi giorni dell’operazione, il fatto che Israele sia in piena difficoltà sociale e politica è del tutto verosimile. Una mobilitazione in tutti i territori palestinesi sarebbe un’ulteriore spina nel fianco per il governo israeliano e potrebbe rappresentare il punto di partenza di una vera situazione rivoluzionaria che in grado di avviare un processo di emancipazione del popolo palestinese.

 

Mat Faruq

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