Di seguito un estratto da me tradotto di Don’t be Quiet, Start a Riot! di Tiina Rosenberg. Il lavoro, pubblicato nel 2016 con Stockholm University Press, è una raccolta di saggi che analizzano criticamente, da un punto vista femminista e queer, alcune opere teatrali (come Madama Butterfly di Puccini, Miss Julie di Strindberg e The Queen’s Tiara di Almqvist). La condizione dei personaggi femminili nelle opere è vista come riflesso della condizione della donna nella società.  La Rosenberg nella sua costante tensione al politico, sebbene non sembri suggerire una soluzione strutturata e solidamente organizzata, frutto di una sua impostazione che forse potremmo definire “movimentista”, risulta almeno sensibile e mai disattenta alla questione di classe.

L’estratto che pubblico questa volta, però, non riguarda direttamente il femminismo, ma il ruolo della piazza, della solidarietà e dei canti di protesta.

La maggior parte delle città hanno uno spazio pubblico che prende la forma di una piazza centrale.

Le manifestazioni degli scorsi anni, in Medio Oriente, a Piazza Syntagma ad Atene, del movimento Occupy Wall Street negli Usa e Los Indignandos in Spagna e le rivolte studentesche in Chile sono solo alcuni degli esempi di quello che alcuni hanno visto come un “ritorno all’agorà”, il concetto classico di Piazza dell’Atene antica in cui i “cittadini” (una fetta minoritaria da cui donne e schiavi erano esclusi) potevano partecipare ai processi democratici della città. Sebbene oggi nuovi mezzi operino nella diffusione delle informazioni, le manifestazioni continuano a richiedere la presenza fisica degli individui al fine di dare forza alle parole d’ordine.

Le proteste in pubblica piazza sono parte significativa dell’attivismo politico. Il periodo post-11 Settembre ha visto un grande restringimento dell’uso dello spazio pubblico in Occidente. All’inizio del ventesimo secolo era ancora possibile impossessarsi delle fabbriche e, in alcuni casi, anche di intere città, attraverso gli scioperi. Occupazioni di protesta e sit-in erano strumenti che il movimento operaio usava per sfidare l’ordine capitalistico. (L’occupazione e il blocco della produzione sono tutt’oggi tra gli strumenti più potenti a disposizione del movimento operaio). Questo creava la consapevolezza dell’importanza di “prendere” gli spazi fisici. I nuovi social media sono altrettanto importanti, ma nessuna rivolta è possibile senza la presenza fisica del corpo in specifiche locazioni geografiche. Secondo Feuer, oggigiorno ogni tentativo di sfidare l’ordine costituito solleva un problema nel rapporto tra presenza fisica e presenza virtuale. Il più delle volte l’autentica solidarietà, indissolubilmente ancorata alla sola presenza fisica, dura un giorno o due. (Ammesso che questa premessa sia vera, ci si potrebbe a questo punto chiedere se e quanto l’enorme impatto che l’uso dei social sta avendo nelle vite delle masse così come dei militanti e degli attivisti possa spiegare questo cambio di passo. E soprattutto quali potenzialità potrebbero invece avere i social, ammesso che le abbiano, nella costruzione di quella “solidarietà” necessaria, che per noi è una solidarietà di classe, apparentemente perduta). La studiosa crede che esperienze come quella della Primavera Araba e di Occupy Wall Street abbiano ricordato alle persone l’importanza di spazi fisici sociali per costruire movimenti di protesta e sviluppare una solidarietà che faccia da collante.

Le manifestazioni, però, non sono solo uno spazio fisico in cui ritrovarsi. L’atmosfera è ugualmente importante. Il risultato è che le mobilitazioni dipendono anche da certi elementi estetici come la musica. Durante la Primavera Araba del 2011, numerose canzoni di protesta sono state esibite e registrate in Piazza Tahir. Un artista noto come El General (Hamada Ben Amor) ha sfidato l’allora presidente tunisino Zine El Abedine Ben Ali con la canzone Mr President, Young People are Dying, un brano di protesta che si è velocemente diffuso via internet. L’Hip-hop e il rap sono emersi come generi di protesta delle generazioni più giovani perché sono facili ed economici da produrre e per via della loro immediatezza. Tutto quello di cui un rapper ha bisogno infatti è un beat e qualcosa da dire. Secondo molti è il genere del momento per la critica sociale.

Tuttavia, i canti di protesta esistono da secoli. Durante la Rivoluzione Francese, ad esempio, il popolo marciava cantando La Marsigliese che, più tardi, sarebbe stata adottata come inno nazionale. L’Internazionale, l’inno del movimento operaio, viene ancora oggi cantata nelle piazze ogni primo maggio (e non solo). Negli anni ’60 la musica di Bob Dylan e Joan Baez attirava migliaia di giovani ai loro concerti e persino gli scontri di Londra del 2011 hanno avuto il loro “inno”: London Calling dei The Clash.

Dorian Lynsey scrive che un canto di protesta per diventare tale ha bisogno di nascere in seno a un movimento ampio. Conclude che mentre gli ultimi quindici anni hanno visto molte canzoni di protesta, nessun movimento sociale largo è emerso per unirle. Nonostante ciò, la musica può ancora agire come mediatore e fattore di coesione, come è accaduto nel corso della primavera araba. Per Linkskey i canti di protesta sono una forma di musica “pop” che emerge dal rifiuto, dalla rabbia, dalla frustrazione e, in altre parole, da una gamma di emozioni talvolta contraddittorie, ma quasi sempre sincere. Tuttavia, la studiosa di cinematografia Linda Williams nota come il melodramma, l’horror e la pornografia siano “generi corporei”, che cioè usano lacrime, paura e desiderio sessuale per sollecitare reazioni viscerali tra gli spettatori. La sua idea rimanda alla catarsis aristotelica e può anche essere applicata a un certo tipo di musica, come i canti di protesta, che richiede un particolare coinvolgimento da parte di chi la sta esibendo, e a sua volta, provoca, o dovrebbe provocare, forti risposte corporee tra gli uditori.

Testo originale: Tiina Rosenberg, Don’t Be Quiet, Start a Riot, Stockholm: Stockholm University Press, 2016. pp. 103-104. 

Traduzione dall’inglese, rielaborazione e note di Matteo Iammarrone.

Redattore della Voce delle Lotte, nato a Napoli nel 1996. Laureato in Infermieristica presso l'Università "La Sapienza" di Roma, lavora come infermiere.