Quando si è criticati per niente, ho per aver fatto del proprio meglio, si è propensi a dare al mondo tutta la propria vendetta. Tuttavia, la parte precedente della mia vita è stata trattata come una nullità e da quando sono balzato all’attenzione sono stato attaccato come una bestia selvaggia. Quando questo succede, e puoi aspettarti poca giustizia e poca franchezza, cerchi naturalmente per autodifesa, rifugio in una sorta di misantropia e di cinico disprezzo per l’umanità.

William Hazlitt

 

“L‘ignoranza delle persone colte” è uno dei sette saggi contenuti nella raccolta “Table-Talk”, la rubrica che l’autore tenne sul “London Magazine” dal giugno del 1820 al dicembre dell’anno successivo (raccolti in un’antologia liberamente consultabile anche su Wikisource): tutti testi di sconcertante attualità e caratterizzati da un’alta dose di humor, specie se letti oggi, alla luce del presente. Una raccolta che in Italia è stata pubblicata nel 2015 da Fazi editore, tradotta da Fabio De Propris, col titolo “L’ignoranza delle persone colte”, riprendendo quello di uno dei componimenti.

Paradossale, irriverente, beffardo, passionale nel tenere la posizione su giudizi controcorrente, curioso istrionico nel destreggiarsi fra citazioni e rimandi colti, Hazlitt risulta di un’attualità sconcertante e di facile immedesimazione per il lettore contemporaneo.

Persona e personaggio particolare per il suo tempo; conoscendo la sua biografia si comprende la ragion d’essere dei suoi scritti polemici e il bisogno recondito di dare voce ad un pensiero che egli non poteva tacere e tenere per sé, anche se il silenzio avrebbe comportato una sorta di tacita e pacifica emarginazione sociale, evitandogli l’ostilità aperta dei suoi contemporanei.

L’autore era solito dar voce alle opinioni non richieste, a dire cose scomode per società e morale comune e se ne in fischiava beatamente del fatto che questo potesse renderlo una sorta di pensatore incompreso dal suo tempo: non smise mai di osservare il mondo e di esprimere su di esso la sua opinione, mai convenzionale.

La sua originalità ha un carattere di franchezza a volte brutale, per nulla gradito nell’ambiente letterario, teatrale e romantico del tempo. Hazlitt divenne saggista per la sua bella prosa di stampo illuminista e per la sua verve polemica – spontanea, involontaria, mai artificiale.

Egli pretendeva di dire ciò che voleva senza cerimonie di sorta e i contemporanei da lui citati arrivarono a odiarlo. Nota è la sua lunga amicizia con il poeta Coleridge, che si ruppe in un momento per l’apparente irriverenza contenuta in una lirica.

Nella realtà l’autore desiderava giungere alla verità evitando accuratamente le frasi fatte e gli interventi prefabbricati: due piaghe diffusissime anche nello scrivere odierno; stava lontano da pezzi composti a tavolino e aborriva lo scritto schematico, il linguaggio rei riporto, lo specialismo esangue.

Non era uno si quegli scrittori che evitano di pronunciarsi e svaniscono nella nebbia morendo d’insulsaggine. Nei suoi saggi è presente sempre e con enfasi, senza rumore e senza vergogna. Dice esattamente ciò che pensa e dice esattamente quel che prova.

Aveva una straordinaria consapevolezza della propria esistenza e, siccome “non passava giorno che non gli infliggesse uno spasmo d’odio e di gelosia, un fremito d’ira o di piacere”, nel leggerlo entriamo spesso in contatto con un carattere singolarissimo: bisbetico ed insieme magnanimo, gretto e tuttavia nobile, assolutamente egoista eppure ispirato da una passione per i diritti e le libertà del genere umano.

Hazlitt ammirò, in special modo Rousseau, Napoleone, Stendhal, Locke, Hume, Milton, Keats: un ondeggiare fra realismo, romanticismo e classicismo dalle sue fonti d’ispirazione.

Dal clima romantico prese le cose meno svenevoli o non svenevoli affatto, ammirò Rousseau e si fece ammaliare dalla poesia vibrata e sincera di Keats: non più di tre, per il poeta, erano “le cose di cui godere”: una di queste ere “la profondità del gusto” di Hazlitt.

“Il principale svantaggio di sapere di più e di vedere più lontano degli altri, in genere, è di non essere compresi”. Pensiero sostenuto apertamente dall’autore nel suo saggio “Sugli svantaggi della superiorità intellettuale”, uno dei sette appartenenti a “ Table-Talk”; sette testi ricchi di sense of humour e di eccentricità tutta britannica, che con uno stile semplice e diretto vanno a trattare temi come la moralità e la filosofia, la letteratura e il sapere fino alle esperienze quotidiane. Leggerli è un vero e proprio piacere e nonostante siano stati scritti quasi due secoli fa, sono molto più attuali di quanto possano sembrare. Anche Petrarca -ricorda- si lamentava in un passo del suo Canzoniere che la natura lo aveva fatto diverso da altri, “Singular d’altra genti”, e aggiunge: “la vera felicità della vita consiste nel non essere né migliore né peggiore della media di quelli che si incontrano. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra degli altri, trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono i differenti davanti a ciò che ti piace di più.” Una rinuncia qualsiasi virtù e ambizione per amore della pace sociale e da quella garantita dal poter confondersi nella massa come nel proprio elemento. Una forma di individualismo che si accompagna evidentemente ad una misantropia di fondo e ad un pessimismo cinico, come già detto, sulle sorti della società e sulla possibilità di miglioramento dell’uomo

La raccolta, oltre al saggio che da il nome al libro, contiene: “Sul pensiero e sull’azione” “Sul fare testamento”, Sull’effemminatezza del carattere”, “Sulle istituzioni”, “Sugli svantaggi della superiorità intellettuale”, “Sulla paura della morte”. Ognuno di essi espone sinteticamente la tipologia umana che vuole attaccare; ne emerge un ritratto spietato e ricco di sarcasmo di un’umanità il più del le volte gretta e inutilmente vanitoso che non accetta i propri limiti come parte essenziale di sé, rischiando ogni volta, di scadere nel ridicolo.

Le critiche – supportate da citazioni di autori di tutti i tempi – sono argute e vanno oltre gli screzi della società e della politica del tempo, ma colgono la natura del problema, di quello che non funziona, di quello che stride, che non è come dovrebbe essere o agisce nell’ipocrisia, ed è proprio per questo motivo che ê traslabile nel nostro contesto storico, anche se molto diverso da quello ottocentesco in cui è stato scritto. Ovviamente, dato il periodo in cui l’opera si inserisce potrebbe risultare un po’ostica per il linguaggio adoperato, che risulta complesso fruibile ma non sempre fluido, comprensibile ma non sempre immediato o facile. L’utilizzo stesso di diversi campi semantici, di molte discipline (dalla filosofia, alla letteratura, alla morale), con considerazioni dai toni più metafisici, sino alle esperienze più empiriche e quotidiane, crea un mix complesso che si comprende meglio (paradossalmente) se si ha avuto modo di leggere e studiare cioè se si è un minimo colti e dunque oggetto della polemica dell’autore. Non un’indagine oggettiva sui colti, certo, ma un brillante esempio, sempre molto piacevole da leggere, del metodo di “polemica assoluta” di Hazlitt, il quale espone il suo punto rivista e lo rafforza con tutte !e argomentazioni che trova favore, letterarie, filosofiche, eccetera; l’autore così, espone concetti a lui cari e soprattutto consiglia alle persone colte cosa fare, come comportarsi in presenza di persone non colte, o di ceti inferiori – ai suoi tempi, molto più che oggi, essere colti era sinonimo d’appartenenza alle classi medio-alte della società; ciò non toglie che Hazlitt eviti un tono riverente , e che se la prende un po’con tutti: lettori generici ( che vede nel complesso come persone senza idee), lettori accaniti (che secondo l’autore seguono la pallida ombra della credibilità degli scrittori, senza possederne una propria) – ovvero gli scrittori stessi, ma anche l’ambiente dell’accademia inglese

Di fronte ad un attacco frontale di questa portata, viene spontaneo chiedersi chi sia veramente colto ed istruito per l’autore. Non preoccupatevi, c’è risposta anche a questo:

“Il più istruito di tutti è colui che conosce meglio tutto ciò che ci è di più lontano dalla vita quotidiana, dall’osservazione immediata, che non è di alcuna utilità pratica, che non può essere provato dall’esperienza e che, dopo aver passato attraverso un gran numerosi studi intermedi, resta ancora pieno. Di incertezza, di difficoltà e di contraddizioni. È vedere e ascoltare con occhi e orecchie altrui, è credere ciecamente al giudizio degli altri”.

Hazlitt stima moltissimo le donne, le quali, a suo dire hanno maggior buon senso e maggiore naturalezza nelle opinioni e nelle loro espressioni. Ma apprezza in particolar modo anche un certo tipo di uomini: quelli che “si sono fatti da sé”, le persone che hanno forgiato il loro carattere girando per il mondo, osservando in prima persona e comprendendo concretamente le regole degli uomini, della vita, traendo cultura dal vivere stesso. Emerge invece un odio vivido verso le persone pompose e piene di sé: coloro che, pur avendo studiato e speso del tempo per apprendere cultura e sapere, poi di dimostrano particolarmente ignoranti e supponenti giudicando gli altri, come se la cultura avesse dato loro il potere di giudizio inconfutabile, e di verità assoluta e di azione dall’alto semidivina. Un tipo di persona che ritroviamo in svariati ruoli e contesti sociali, in politica, nell’ambiente letterario… con la facoltà di fare danno al prossimo e alla società in maniera più o meno accentuata a seconda del potere di cui dispongono.

Quello che Hazlitt dice suona come una provocazione: una provocazione che però risulta costruttiva, non mossa dal solo desiderio di urtare e distruggere, che espone considerazioni che in realtà possiamo ritrovare nella conversazione quotidiana come critiche accennate, semplificate, banalizzare: Hazlitt vuole invece produrre un discorso di più ampio respiro, contestualizzato, che offra spunti di riflessione critica sulla società, su chi ci governa, sugli scrittori che leggiamo.

Quest’ampiezza di vedute porta lo scrittore su terreni decisamente “pericolosi”, secondo il “senso comune”, col risultato di minare dal di dentro le roccaforti del pensiero. Nella sua animata critica al sapere, rivela tutta la pericolosità di una fiducia cieca nella parola, nella nozione volutamente astratta: il suo ripercorrere la genesi di questi concetti lo porta a riconoscere che la menzogna, il raggiro fanno da fondamenta agli squilibri ed alle ingiustizie che l’impostazione della produzione e della trasmissione della cultura genera.

Se una cosa è vera solo perché qualcuno l’ha scritta, ecco che il gioco dei potenti si fa ancora più facile perché tutto diventa possibile, come smerciare gli scritti di uomini per parola divina in modo da porre sotto sigillo insindacabile le leggi più inique, oppure imporre un punto di vista apparentemente democratico, ma in realtà asservito al potere dominante e così via. Il passo verso l’epoca delle fake news, come strumento principale della lotta politica sui media moderni è molto breve.

E ancora, si rimane letteralmente sbigottiti nel leggere il saggio “Sulle istituzioni” poiché a dispetto degli anni trascorsi e della diversità del luogo, il quadro del ceto politico che dipinge è tristemente simile al disdicevole spettacolo che siamo costretti a sopportare quotidianamente oggi in Italia.

Non c’è sociologo che sia riuscito a dire così tanto in così poche pagine, a dare un quadro così vivido di tante dinamiche, di tante contraddizioni della società moderna, del capitalismo e della sua democrazia borghese, degli schemi sociali che ne derivano: qui troviamo il nostro presente ma anche il nostro futuro.

Hazlitt riconosce che le istituzioni (quelle statali come quelle sociali, culturali nei rispettivi ambiti), sono più corrotte e più guaste degli individui, perché concentrando il potere possono far danno più duramente, perché non sono esposte allo stesso modo al disonore e alla punizione, perché non provano vergogna, né rimorso, né gratitudine, né benevolenza. La coscienza individuale del singolo componente non solo ha la difficoltà nel rapporto con le coscienze altrui, ma viene piegata e soffocata a favore del vantaggio politico, del privilegio, della spartizione di bottini di ogni tipo: ciascun membro raccoglie il profitto e rovescia come può i danni e le colpe sugli altri. La passione che domina nelle istituzioni è lo spirito cieco di corpo: chi solleva obiezioni verso la propria istituzione, verso la società è messo tacere e, se individuato come “intruso”, rischia l’esclusione sociale. L’energia è bloccata, la coscienza disinnescata, alla morale si sostituisce l’ufficialità, la convenzione sempre più vuota.

 

Ylenia Gironella

Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).