Pubblichiamo di seguito la dichiarazione del collettivo di fattorini Riders Union Bologna a seguito della firma della Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano, e i contributi pubblicati su Facebook dai collettivi Deliverance Project (Torino) e Deliveroo Strike Raiders, Deliverance Milano. Per un aggiornamento sulla vertenza dei fattorini e per un nostro commento politico, leggi Fattorini: le app non mollano. Lo Stato può veramente stare dalla parte dei rider?.


Carta dei Diritti: un primo importante passo per continuare la battaglia contro precarietà e sfruttamento
Dopo mesi di confronti e trattative, oggi come Riders Union sottoscriveremo insieme al Comune di Bologna, ai sindacati e ad alcune piattaforme del food delivery operanti nella nostra città la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale.
Nel corso dell’inverno scorso abbiamo interrogato collettivamente e con forza le istituzioni e la città tutta, portando in primo piano la nostra condizione lavorativa e di vita e quelle che erano le nostre esigenze ed aspirazioni. Da lì si è sviluppato un percorso che giunge alla firma odierna, frutto innanzitutto delle lotte portate avanti in questi mesi, degli scioperi, delle iniziative, della capacità che abbiamo avuto di urlare forte “mai più consegne senza diritti”.
La Carta dei diritti, che rappresenta a tutti gli effetti un accordo territoriale, impegna le piattaforme che la hanno sottoscritta (e quelle che eventualmente lo faranno in seguito) a riconoscere ciò per il quale ci siamo battuti sin dall’inizio: salario orario equo in linea con i contratti collettivi nazionali di riferimento, maggiorazioni per lavoro svolto in condizioni particolari (come festivi, notturno o col maltempo) e sospensione del servizio in condizioni d’impraticabilità ambientale; certezza di un monte orario; tutela di salute e sicurezza, prevenzione dei rischi e copertura assicurativa a carico delle piattaforme; l’obbligo di giustificatezza del licenziamento; il diritto di sciopero e quello all’organizzazione collettiva dei rider, compresa la possibilità di svolgere assemblee retribuite dall’azienda. Tutto questo dovrà poi essere tradotto in accordi specifici con le singole piattaforme che dovranno adeguare le condizioni contrattuali e lavorative agli impegni presi, concordandole con noi ciclofattorini.
La Carta non è perciò un fine ma un mezzo, uno strumento. Rappresenta nei fatti una chiave che apre le porte di una reale contrattazione con le piattaforme, istituendo innanzitutto degli obblighi a trattare con le forme organizzate dei e delle riders. Ma prima ancora, e soprattutto, riconosce i riders come un soggetto collettivo portatore di interessi particolari, smascherando e rovesciando l’idea della community di individui alla pari che invece nasconde l’esistenza, anche nel capitalismo di piattaforma, di posizioni ben distinte tra chi detiene la proprietà e gestisce la piattaforma stessa e chi invece mette a disposizione la propria forza-lavoro sotto l’inequivocabile direzione e organizzazione dei primi. Abbiamo dimostrato, quindi, che nonostante precarietà, ricatti e sfruttamento organizzandosi si può ancora ottenere qualcosa, si può invertire la china di decenni di politiche contro i lavoratori e lavoratrici di questo paese.
Al contempo, siamo consapevoli di muoverci in un terreno che presenta molti elementi inediti e ambivalenti. In questi mesi abbiamo scommesso su un tipo di contrattazione nuova, che abbiamo definito metropolitana, nell’intento di recuperare quel necessario impianto di tutele e diritti tipico del tradizionale lavoro salariato, ma al contempo non chiudendo mai gli occhi di fronte alle sfide e alle difficoltà che le attuali trasformazioni del lavoro e un contesto generale indubbiamente sfavorevole ci pongono davanti. In questo senso non crediamo che la strada intrapresa sia di indubbio successo. Di certo, però, rimaniamo convinti che sia necessario tentare di innovare, di pari passo con le forme dell’organizzazione e del conflitto, anche il piano del riconoscimento, sostanziale e formale, di vecchi e nuovi diritti e con esso gli strumenti attraverso i quali raggiungiamo tali obiettivi. La speranza è quindi che l’odierna sottoscrizione di questa Carta sia un piccolo ma importante passo in avanti in questa direzione. E’ chiaro infatti che siamo solo all’inizio di questo percorso di rivendicazione e quanto raggiunto rappresenta per noi tutt’altro che un punto di arrivo, ma piuttosto un nuovo inizio. Ecco perché già da domani saremo di nuovo “in sella”: con le piattaforme che hanno firmato apriremo da subito una contrattazione che traduca nei fatti i principi sanciti nella carta e migliori concretamente le nostre condizioni di lavoro; con quelle che invece si sono rifiutate di firmare apriremo nuove fasi di pressione, agitazione e conflitto.
Riders Union è lo spazio e lo strumento a disposizione di tutt* i lavoratori e le lavoratrici di tutte le piattaforme presenti a Bologna e per questo continueremo la lotta per estendere l’applicazione della Carta: perché le tutele sono per tutti o non sono. A chi diceva che non si può fare, che non c’è alternativa ad ingoiare la minestra amara della precarietà, della subalternità, dei bassi salari, del cottimo perché è il mercato o la tecnologia ad imporlo, vogliamo continuare a dimostrare che la lotta paga, che organizzarsi dal basso serve e che è ancora possibile volgere il vento della storia dalla parte di chi è sfruttato. Se da soli siamo imprenditori delle nostre miserie, insieme siamo tutto; siamo la marea che avanza e che non tollera più lo sfruttamento cui ci vorrebbero condannare.
Avanti riders! Non per noi, ma per tutt*!
Riders Union Bologna
Non vi basta il pane, qualcuno vuole anche le poltrone!
Le osservazioni e le valutazioni che prendono voce da Deliverance Project riflettono il punto di vista di alcuni rider o più generalmente lavoratori coinvolti nelle assemblee che di volta in volta lottano all’interno di quel segmento della logistica che è il “food delivery” nella città di Torino. Deliverance Project non è un collettivo, né un sindacato né tanto meno un’organizzazione politica, ma lo strumento per condividere esperienze e tentare di creare connessioni in un contesto caratterizzato da una capillare automatizzazione e precarizzazione finalizzate principalmente ad isolare e rendere inermi i soggetti coinvolti e sconvolti dai nuovi strumenti di organizzazione del lavoro.
Quanto segue ha come obiettivo quello di mettere in evidenza le criticità riscontrate nelle iniziative e dei metodi portati avanti da rider union Bologna, soprattutto nell’ultima settimana. Le riflessioni hanno carattere personale e sicuramente non esaustivo, seppur ampiamente condivise tra rider in lotta, e sono finalizzate a stimolare un dibattito necessario che tenga conto della portata dei problemi affrontati, mettendo da parte quegli interessi personalistici che rischiano di risultare deleteri per una mobilitazione realmente partecipata ed incisiva.

La carta dei diritti del lavoro digitale, firmata da “riders union Bologna, sindacati [confederali], Comune e sgnam-mymenu” il 31 Maggio, sulla quale erano state manifestate non poche perplessità anche in occasione dell’assemblea bolognese dei rider (15 Aprile 2018), non è sembrata essere esattamente un passo avanti. Da un lato per il suo contenuto: la raccapricciante premessa e la pericolosità dei “Meccanismi reputazionali, di cui diremo anche in seguito; dall’altro per la sua forma di accordo mediato dal Comune, che consacra il sindaco come supremo garante della sicurezza e del decoro cittadino – ma di quella sicurezza e di quel decoro che fanno comodo solamente a chi ha da investire – e che di questi tempi possono rivelarsi un ottimo trampolino per un upgrade nei vari livelli della pubblica amministrazione. (qui la carta dei diritti in questione)
Eppure, nella piena autonomia dell’autorganizzazione, sperimentare è la regola, anche se – ormai è doveroso riconoscerlo – il rischio di essere strumentalizzati è sempre dietro l’angolo. È vero, infatti, che la sovraesposizione mediatica e la strumentalizzazione che ne deriva ha colpito tutti – anche chi ha lottato a Torino, ahimè! – e che la buona fede tra chi porta avanti battaglie comuni non può che essere presunta.

A tutto però c’è un limite!

Se l’intermediazione del sindaco e sindacale insieme ad una carta dei diritti al ribasso potevano anche andar giù – nonostante questo modello poco efficace ed eccessivamente propagandistico rischi di diventare un esempio a cui ispirarsi anche in altre città – la passerella mediatica al primo giorno di scuola del neo-ministro Di Maio poteva tranquillamente essere evitata. Sarebbe stata da evitare innanzitutto l’organizzazione di un incontro non preceduto da un confronto con gli altri gruppi di lavoratori che già da tempo si organizzano all’interno di diverse aziende: ad esempio quelli che, solo due giorni prima, avevano organizzato e portato avanti con successo ed entusiasmo l’ennesimo sciopero contro foodora (sciopero che a rider union Bologna è probabilmente sfuggito); in secondo luogo, data la navigata esperienza politica di non pochi esponenti dell’organizzazione bolognese, si poteva serenamente evitare o almeno valutare con la giusta cautela, il confronto con un governo dai tratti particolarmente ambigui, il cui unico scopo sembrerebbe quello di vendersi come “governo della gente”, solo a patto che questa “gente” possa permettersi almeno uno smartphone ed una bici.
Non vi siete chiesti perché per stare al fianco delle “generazioni abbandonate” Di Maio non avesse scelto di convocare i braccianti della piana di Gioia Tauro, gli “invisibili” che il 16 Dicembre 2017 a Roma come uno sciame scendevano in piazza ricevendo promesse – naturalmente disattese – da politici e sindacati e che negli stessi giorni in cui il governo muoveva i primi passi tornavano ad essere “visibili” perché presi a fucilate nel tentativo di procurarsi un riparo decente, dignitoso? Chi le dirette Instagram o Facebook non le fa quel “po’ di dignità” invocata dal neo-ministro evidentemente non se la merita neanche!
La via intrapresa da rider union Bologna, quindi, tanto con la carta dei diritti quanto e soprattutto con l’incontro istituzionale al ministero del lavoro, non può essere considerata un punto d’arrivo, né un punto di partenza per mettere in campo una contrattazione reale. È una via vecchia, già battuta ed intrisa di contraddizioni. Le contraddizioni della politica, quella di Di Maio & Salvini in testa, pronta a promettere tutto e a fare l’esatto contrario; le contraddizioni del sindacato e della rappresentanza, vittime dell’autoreferenzialità e della brama di riconoscimento, in nome delle quali qualche lavoratore o qualche lavoratrice è sempre sacrificabile; ed infine le contraddizioni di un sistema di organizzazione del lavoro (la c.d. gig economy) che già da tempo ha stravolto le vite di chi per vivere deve lavorare e può farlo solo stando a testa bassa, imbrigliato dalla pervasività costante delle applicazioni.
Le esigenze e le dinamiche portate avanti dall’aspirante sindacato bolognese non sono di certo esemplari e rappresentative di una mobilitazione ancora tutta in divenire. Una mobilitazione che può crescere ed ottenere risultati solo passando prima dalle piazze, dai ristoranti ed in tutti quei luoghi in cui il senso di sfruttamento e di insoddisfazione si fa crescente. Una mobilitazione che assume forme e sfumature differenti in base al differente contesto e che non può permettersi di anteporre le esigenze del sindacato, inteso come istituzione, alla reale mobilitazione. Le priorità non possono essere quella del riconoscimento e dell’apertura di un tavolo di trattativa, che rischia di avere sorti piuttosto incerte senza un reale coinvolgimento ed un obiettivo condiviso, soprattutto se tali priorità sono sponsorizzate da un governo che con fare istrionico e gattopardiano mira a cambiar tutto senza cambiare niente.
La priorità dovrebbe essere piuttosto quella di spingersi a sfidare le logiche di un sistema – quello politico e sindacale – che offre soluzioni al ribasso e strumentalizza gli sforzi e le disgrazie altrui al solo fine di auto legittimarsi e magari conquistare la poltrona.
“Le piattaforme di collaborazione possono rappresentare un modello di impresa che coniuga opportunità di occupazione, flessibilità e reddito per i collaboratori ed i lavoratori, garantendo ai consumatori nuovi servizi a prezzi maggiormente sostenibili” (carta dei diritti del lavoro digitale, Premessa)
Tralasciando quella strana sensazione di aver letto la prefazione di un libro di Oscar Farinetti (fondatore della catena Eataly), viene da chiedere: siamo sicuri che questa allettante economia delle piattaforme non sia il modo per legittimare sistemi automatizzati, digitali, capaci di indurre all’autosfruttamento in cambio di vane promesse, prospettive nebulose e magari di un salario minimo che tralascia un ampio spettro di garanzie – dal riposo alla malattia, dalle tutele contro i licenziamenti e/o i mancati rinnovi al monitoraggio della prestazione e la valutazione del lavoratore (c.d. ranking) – tutte sacrificate sull’altare della crescita, dell’occupazione e della flessibilità.
Focalizzare l’attenzione sul salario minimo, senza tenere conto degli effetti che i sistemi di ranking producono sullo svolgimento del lavoro e sulla stessa possibilità di accedere al lavoro, effetti che continuerebbero a prodursi senza alcuna alterazione anche in un contesto in cui venisse garantita una paga oraria, risulta essere miope oppure altamente opportunistico. Senza considerare che la legittimazione esplicitata anche all’art. 3 della carta dei diritti, riguardo al controllo e alla classificazione del lavoratore camuffata da “meccanismo reputazionale”, rischia di sdoganare l’applicazione del ranking anche a numerosi settori produttivi attualmente liberi da questo fardello.
La carta dei diritti bolognese in questo senso sembra porsi nel solco di quegli accordi market friendly che strizzano l’occhio al capitale e sotto l’insegna del cambiamento, dell’innovazione e magari anche della sostenibilità compiono passi avanti verso un futuro distopico – la parabola di Merola, amico dei rider ed anche di Farinetti, ma di certo non dei senzatetto colpiti dal Daspo, in questo caso è abbastanza emblematica. Questo approccio dimostra come la priorità all’interno di un’organizzazione sindacale o para sindacale, come quella bolognese ed altre più o meno simili, sia prevalentemente quella di accomodarsi nei tavoli di contrattazione insieme alle controparti prima ancora di aver costruito una solida rete di esperienze e valutazioni o una mobilitazione che possa dirsi tale.
Se si vuole realmente “costruire un presidio democratico nelle frontiere dello sfruttamento capitalista” (cit. comunicato riders union bologna) non si può concepire il conflitto come un diritto – lo stesso dell’art. 10 della carta bolognese – limitandosi magari a lasciarlo solo sulla carta, come lettera morta, preferendo il tavolo o la poltrona a quelle strade ed a quelle piazze nelle quali una dignità che non può essere concessa può essere sicuramente costruita e conquistata incontrandosi, riconoscendosi e lottando insieme.
Cari colleghi e care colleghe di rider union Bologna sulla strada che avete scelto non vi riconosciamo, perché non sta ai sindacati scioperare convocando i lavoratori, né ai sindaci lanciare i boicottaggi; piuttosto sta ai lavoratori e alle lavoratrici, agli sfruttati e alle sfruttate ritrovare la forza e la voglia di conquistare ciò che gli spetta, senza l’intermediazione di chi ha come unico interesse quello di preservare le stesse posizioni di potere che ci hanno portati e portate fino a qui.
Deliverance Project
Tutti pazzi per i fattorini ma chi ci pensa ai lavoratori?
Da un po’ di tempo a questa parte, dopo più di due anni di silenzio e di poca attenzione nei confronti dei lavoratori del mondo delle consegne del cibo, il gioco è cambiato e dobbiamo registrare un fenomeno assai curioso e molto significativo: stampa, istituzioni, accademia e sindacati corporativi ci cercano assiduamente, quasi con spasmodica insistenza. Stanno tutti letteralmente in fissa con noi fattorini. Tutti tranne le aziende, che con noi non vogliono proprio parlare facendo finta di non avere nulla da spartire.
Tutti pazzi per noi fattorini?
Secondo noi no, o meglio, secondo noi sì, nel senso che ministri, assessori, sindaci, governatori regionali e sindacalisti confederali sembrano rivolgersi a noi come se fossero tutti quanti disposti ad aiutarci da sempre, quando poi noi sappiamo benissimo che la questione è un’altra: tutti quanti credono al mercato e alle sue leggi e chi professa la fede nel profitto ad ogni costo sta decidendo che non può stare dalla parte nostra, con chi sta prima di tutto dalla parte dei lavoratori e di chi rivendica giusti diritti. Quindi sì, tutti pazzi. Ma non per noi. Tra una proposta di legge e il miraggio di un tavolo di contrattazione spesso ci si dimentica che la parte più importante di questa faccenda sono i lavoratori e il loro protagonismo decisionale.
Non solo riders
Non per noi, ma per tutti. Per questa ragione abbiamo iniziato a mobilitarci e a protestare contro le multinazioni delle piattaforme digitali, a coordinarci con le altre categorie di lavoratori. Abbiamo organizzato assemblee e il corteo del Primo Maggio, ci siamo strutturati in rappresentanze autonome perché una cosa ci è chiara sin dalla prima ora, qui si parla del nostro futuro, del nostro lavoro, del nostro tempo, dei nostri diritti negati e delle nostre condizioni di vita. Condividiamo lo stesso destino con tutti coloro che lottano per arrivare alla fine del mese, contro la precarietà e la disoccupazione e questo non ce lo dobbiamo mai dimenticare.
Che cosa vogliamo
Da Milano quello che cerchiamo da più di un anno è la possibilità di costruire un aperto confronto tra lavoratori e aziende, anche attraverso la mediazione delle istituzioni, che non dovrebbero vergare, di loro pugno, leggi e manovre finanziarie che ci penalizzano e ci ricattano, ma che ci tutilano e ci garantiscano. Al posto di raffazzonate promesse, pretendiamo miglioramenti collettivi, avanzamenti materiali per la restituzione di reddito e diritti. E per fare questo occorre soprattutto volontà politica.
Che fare? Volere è potere
Noi fattorini attraverso iniziative, presidi, pratiche di mutualismo, scioperi, sabotaggi, momenti di aggregazione, manifestazioni, convegni, occupazioni, cortei, dibattiti, dopolavoro, vertenze legali, assemblee nazionali abbiamo solo un obiettivo, che è quello che poi dovrebbe anche muovere, a nostro umile modo di vedere le cose, tutti coloro che si avvicinano alla lotta dei fattorini: vincere.

Venghino, signori, venghino

Dobbiamo arrivare a conquistare un contratto migliore e a riaffermare con forza il diritto alla lotta sindacale, che non può essere interpretato come un lusso per pochi ma nemmeno uno scherzo da prendere alla leggera, alla mercé di interessi strumentali o eterodiretti: a spese dei lavoratori non si fanno né campagne elettorali né spot pubblicitari.
La risposta è il conflitto
Seminando conflitto non raccoglieremo tempesta ma qualche dolce frutto. E sarà certamente un buon frutto perché il segno indelebile del nostro impegno e della nostra determinazione. Se intendiamo divaricare la dialettica politica e innescare un processo collettivo in grado di favorire l’apertura di un dialogo con i referenti della controparte, dobbiamo generalizzare il conflitto e allargare la nostra capacità di sviluppare e organizzare la protesta. Anche perché se la nostra lotta non è in vendita, come la felicità che non si compra e non ha prezzo, la vittoria si conquista. Ed è l’unione tra lavoratori la nostra arma segreta.
Deliverance Milano
Deliveroo Strike Raiders

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.