Riceviamo e pubblichiamo volentieri la prima parte di uno scritto del compagno Giulio Palermo1, docente universitario all’Università di Brescia ed economista.

Qui la prima parte.


3. I costi del reddito di cittadinanza

La teoria economica del RdC, l’abbiamo visto, promette la fine della povertà e l’accesso universale ai diritti. Vediamo perché queste aspettative sono sbagliate e quale sarà la vera direzione verso cui si indirizzerà il sistema. Non serve aver letto Marx, e nemmeno Keynes e Kalecki, basta una calcolatrice.

Il peso del reddito di cittadinanza nel bilancio dello stato

Secondo le ultime rilevazioni Istat, nel 2016, la spesa pubblica in Italia è stata di 830 miliardi di euro, circa il 50% del Pil (1672 miliardi). Leviamo subito la spesa per gli interessi sul debito pubblico perché quella — Tsipras docet — è sacra, non si tocca, si paga e basta: 66 miliardi. La cosiddetta “spesa pubblica primaria” — quello che resta, levati gli interessi — è stata dunque di 764 miliardi. Quasi la metà di questa spesa (il 46%) è servita per la protezione sociale (355 miliardi), alla sanità sono andati 117 miliardi (il 15%), alla scuola 66 (il 9% della spesa primaria), giusto per ricordare i settori che tutti dicono di voler difendere.

Calcoliamo ora quanto costa il RdC. Per dare a 60 milioni di persone un reddito mensile di 500 euro, ci vogliono 360 miliardi l’anno (500*12*60 milioni), il 47% della spesa pubblica primaria. Non c’è bisogno di essere economisti, né funzionari all’Istat per fare due moltiplicazioni, le possono fare anche i compagni che filosofeggiano di un mondo migliore all’apericena.

Se invece vogliamo veramente garantire anche ai più poveri un reddito che consenta loro di arrivare alla soglia di povertà — un RdC dunque di 780 euro — ci vogliono circa 562 miliardi (780*12*60 milioni), il 74% della spesa pubblica primaria.

Gli economisti si sono divisi sulla validità della recente decisione di introdurre in Costituzione il pareggio di bilancio nei conti dello stato: chi ritiene che con un po’ di spesa in deficit si rilanci l’economia; e chi ritiene che con un debito pubblico a questi livelli indebitarsi ulteriormente pregiudichi la crescita nel lungo periodo. Ma prima della riforma costituzionale (imposta dalla crisi del sistema bancario), lo sanno tutti, il tetto al deficit pubblico era fissato al 3% del Pil. Qui c’è uno zero di troppo, siamo attorno al 30%.

Finanziare il RdC in deficit significa rendere il debito pubblico inesigibile in un paio di anni. E siccome i mercati finanziari scontano gli eventi prima che accadano, gli attacchi speculativi cominceranno in realtà due minuti dopo l’annuncio di questo strumento rivoluzionario.

L’alternativa, Friedman lo sa, sono i tagli alla spesa pubblica. Da un giorno all’altro, si dovrà quindi decidere se azzerare la spesa nella protezione sociale o invece dimezzarla soltanto, a condizione però di cancellare del tutto sanità e scuola; oppure, se si vuole mantenere almeno la scuola dell’obbligo, si potranno eliminare protezione dell’ambiente (che costa 15 miliardi), abitazioni e assetto del territorio (11 miliardi); o ancora si potranno proporre tante altre combinazioni di tagli con la motosega, secondo la sensibilità di ciascuno.

Un reddito di cittadinanza fattibile

Visto che un RdC che risolva veramente i problemi dei lavoratori non è possibile, soffermiamoci sugli effetti (recessivi) di un RdC fattibile.

Consideriamo un RdC di 100 euro al mese a persona. Il suo costo complessivo è di 72 miliardi di euro l’anno (100*12*60 milioni). Per recuperarli, basterà ad esempio chiudere un ospedale su tre e una scuola su due. L’effetto macroeconomico — l’abbiamo appena visto — sarà una caduta del reddito nazionale di 72 miliardi. Vediamo però quali sono i benefici.

100 euro in più fanno comodo a tutti, non c’è dubbio. Ma non risolvono la vita di nessuno: né del lavoratore che dovrà continuare a sbattersi per un salario; né di Lady Nutella, la quale i biglietti da 100 li conta a mazzette da 1.000 e di mazzette ne ha già 250.000. La signora Ferrero poi non si accorgerà nemmeno se i tagli si abbatteranno sulla sanità, la scuola o i trasporti tanto lei i figlioli li ha fatti studiare all’estero e in clinica ci va col jet privato. Per il lavoratore che faticava ad arrivare a fine mese invece sarà effettivamente più facile pagare l’affitto e comprarsi una camicia. Ma avrà perso il diritto alla salute e la scuola per suo figlio.

Decenni di conquiste sociali e di lotte per i diritti cancellati in cambio di 100 euro a testa. E se il piccolino, una volta svuotato il biberon, vorrà andare a scuola o avrà bisogno di una visita medica, il lavoratore/imprenditore di se stesso saprà da solo che dovrà trovarsi un altro lavoro precario perché con 100 euro non si può fare tutto. E se disgraziatamente c’è da pagare sia la scuola sia l’ospedale, sarà la diligenza del buon padre di famiglia a guidarlo nella scelta di una scuola di merda e di una clinica senza posti letto. Un piccolo aiuto per arrivare a fine mese ma poi te la cavi. Ecco il rapporto dello stato con i suoi cittadini secondo i sostenitori del RdC.

 

4. Critica marxista

Da un punto di vista marxista, la proposta del RdC andrebbe liquidata come l’espressione moderna del vecchio sogno piccolo borghese di un capitalismo per soli borghesi. Si immagina infatti un mondo con più redditi senza porre la domanda dell’origine del valore. La produzione di merci non interessa, l’importante sono i soldi. Feticismo del denaro in versione hardcore. Ma vediamo innanzi tutto cosa pensano i redditisti di cittadinanza di Marx.

Reddito di cittadinanza e marxismo

Secondo i sostenitori del RdC, la critica marxista è superata nei fatti: le classi sociali stanno sparendo e la merce stessa, questa forma elementare di ricchezza del capitalismo, è ormai per lo più smaterializzata. Il valore non si crea più nella produzione di merci perché è l’attività cognitiva dell’essere umano ad avere valore, non il suo impiego da parte del capitale. Se nel vecchio capitalismo il capitale doveva pagare un salario al lavoratore/creatore di valore, ora sta ai cittadini pretendere un reddito che li ricompensi di esistere. Perché sono loro a creare parte del valore. Secondo questa impostazione, insomma, nel capitalismo il valore deve finire nelle mani di chi lo produce per una sorta di imperativo morale, altrimenti … non è giusto!

Peccato che se il valore dovesse andare veramente a chi lo produce, prima ancora di ipotizzare redditi per i cittadini, sparirebbero i profitti dei capitalisti e finirebbe il capitalismo stesso. Marx ha infatti dimostrato che il profitto è lavoro non pagato: nasce dal sudore della fronte dei lavoratori e finisce nelle tasche dei capitalisti, senza nessuna creazione di valore da parte di questi ultimi. Niente sfruttamento, niente profitto, niente capitalismo. Qui invece si parte dal presupposto che lavoratore e capitalista ottengano già un reddito proporzionale al loro contributo alla creazione del valore e che il vero soggetto sfruttato sia il cittadino, che crea valore in cambio di niente. Questi sono i nuovi tratti distintivi della società della conoscenza secondo i teorici del capitalismo cognitivo. Sembra quasi che l’attuale fase di sviluppo capitalistico non sia più parte del modo di produzione capitalistico, a sentir parlare i nuovi teorici del capitalismo.

In un sol colpo, si butta via l’economia politica e la sua critica. L’economia politica nasce nel Settecento con la teoria del valore-lavoro (che spiega i prezzi delle merci a partire dalle ore di lavoro occorse a produrle). Questa teoria viene poi messa da parte alla fine dell’Ottocento, non per la sua incoerenza o irrilevanza, ma per le implicazioni rivoluzionarie cui era giunta a seguito del contributo marxiano. Ben più comoda, dal punto di vista borghese, è infatti una teoria in cui le cose valgono perché qualcuno le domanda. Invece di spiegare perché le merci arrivano sul mercato a determinati prezzi, si cerca di spiegare il prezzo di mercato guardando al mercato stesso, dopo che la produzione ha riversato in esso le sue merci. Se la merce ha un valore, dunque, non è perché la sua produzione ha richiesto lavoro ma perché sul mercato qualcuno è disposto a comprarla. Invece di guardare a come si produce, si guarda a come si scambia.

Quell’aspetto centrale su cui si regge la distinzione di Marx tra produzione (in cui, appunto, si produce il valore) e circolazione (in cui il valore creato passa di mano), scompare e si ricade nella visione mistificata che Marx rimprovera agli economisti volgari di esaminare tutto con le lenti dello scambio. Da qui nasce questa concezione del denaro come equivalente universale del valore nella sfera della circolazione, in cui apparentemente si perde il legame con la creazione del valore nella produzione di merci (Marx lo chiama il “feticismo del denaro”). E da questa concezione mistificata del denaro nasce poi il sogno di un reddito slegato dalla produzione.

In un mondo in cui si ottiene ogni cosa col denaro, l’ammalato, l’affamato, il senzatetto non domandano medicine, da mangiare e una casa, ma soldi. Non possiamo essere tutti economisti. Siamo solo figli di questo sistema e molti di noi non hanno nemmeno il tempo di criticarlo o di studiarlo. Chi non soddisfa nemmeno i bisogni primari, chiede soldi per potersi comprare l’aspirina, il pane e pagarsi un affitto. Invece di individuare il problema nel fatto che l’aspirina, il pane e la casa siano merci prodotte solo a condizione di creare profitto, il problema appare come una carenza di soldi con cui comprare queste merci. “L’economista volgare in effetti non fa altro che esprimere in una lingua apparentemente più teorica e generale” queste apparenze, “arrabattandosi per dimostrare la fondatezza di tali opinioni” (Marx, Il Capitale, terzo libro, cap. 13).8

Invece di suggerire un processo di demercificazione delle medicine, dei generi alimentari e delle abitazioni, che consenta di produrre finalmente questi beni guardando ai bisogni che devono soddisfare e non ai profitti che devono garantire, i sostenitori del RdC vorrebbero aumentare il ricorso al mercato e procedere a passi più sostenuti lungo la strada minata della produzione di merci, che è poi quella stessa strada che arricchisce il capitalista e impoverisce il lavoratore nella sfera distributiva.

La razionalità del mercato non è sottoposta a critica, è presa per data. E dove il mercato si intoppa si prova a sbloccarlo e a svilupparne il ruolo. Questi sono i nuovi teorici del capitalismo: dicendo di lottare contro il capitale, teorizzano la necessità di mercificare ogni cosa. Marx sarà forse superato nei fatti ma il RdC è solo il nuovo feticcio dell’economia volgare.

Produzione e circolazione

Il Capitale di Marx è strutturato in tre libri: La produzione del capitale, La circolazione del capitale, La produzione capitalistica nel suo insieme. La questione è semplice: prima si produce, poi si scambia (e solo mettendo assieme questi due momenti dell’analisi si giunge ad una comprensione della produzione capitalistica nel suo insieme). Saltare l’analisi della creazione del valore non porta lontano. Si ha l’impressione che sia lo scambio a dare valore alle merci (le merci valgono perché qualcuno le domanda …). Ma senza produzione di merci non c’è nessun valore da scambiare. La circolazione ripartisce un valore già creato, non può crearne di nuovo. Accrescere i redditi monetari di alcuni soggetti, senza modificare la sfera produttiva, significa ridurre i redditi reali di altri soggetti. Aumentare i redditi di tutti significa invece inflazionare le merci. Non si può chiedere alla circolazione di creare il valore che non è stato creato nella produzione.

Negando ogni distinzione logica tra produzione e circolazione, gli economisti del RdC credono di poter risolvere i problemi del capitalismo attraverso interventi che toccano solo la sfera della circolazione. Da questa confusione teorica, tipica dell’economia borghese, prende origine quel riformismo di facciata, che a volte assume anche toni radicali, che vorrebbe la fine della povertà e delle disuguaglianze, senza però intaccare lo sfruttamento dei lavoratori nella produzione, che è proprio il meccanismo che produce povertà e disuguaglianze. La produzione di valore, che nel capitalismo passa per la produzione di merci, diventa quindi irrilevante e il problema distributivo appare come indipendente dal problema produttivo. Sembra così che i disagi sociali e la povertà si possano risolvere semplicemente creando nuovi redditi.

Mentre il teorico del RdC sostiene che, grazie a questo strumento, il lavoratore si sgancia dal ricatto del salario, in realtà ci si lega in modo ancora più stretto poiché è proprio dal suo lavoro che dovrà essere tirato fuori il reddito del cittadino. Infatti, delle due l’una: o il RdC è una pura elargizione monetaria che non incide sui rapporti di classe e non modifica la sfera produttiva, e allora si ha semplicemente inflazione (la stessa massa di merci si scambia con un ammontare maggiore di denaro, lasciando invariate le variabili reali); oppure, effettivamente, l’introduzione del RdC fa parte di un processo più generale di trasformazione anche della sfera produttiva che consenta effettivamente di accompagnare la distribuzione di nuovi redditi con la produzione di nuove merci. Ma in tal caso, il lavoratore non si sgancia da un bel niente, anzi queste nuove merci sarà proprio lui a doverle produrre. Sotto la guida del capitale, per il bene del cittadino.

Istituzionalizzazione del lavoro precario

Se in un dato contesto storico il RdC ha effetti solo monetari o anche reali dipende dai rapporti di classe (oltre che, ovviamente, dal modo di finanziarlo). Nel capitalismo, la concorrenza spinge il salario verso il basso, verso il livello di sussistenza. In periodi di crisi, quando la concorrenza si fa dura, può spingerlo anche più giù. Nell’era del lavoro precario poi il salario di sussistenza perde i suoi tratti di salario minimo poiché la riproduzione della classe lavoratrice diventa un problema individuale: se il salario non basta, sta al singolo lavoratore trovarsi altri lavoretti per arrivare a fine mese. La linea di demarcazione tra occupati e disoccupati diventa un problema di definizione statistica. Ma coi rapporti lavorativi esistenti lo sanno tutti i precari che con un contratto part time, di apprendistato o a chiamata non si esce dalla povertà.

In un simile quadro, il RdC non migliora affatto le condizioni dei lavoratori. Serve invece a razionalizzare il precariato in un contesto di crisi. Il disegno globale è quello di un mercato del lavoro su misura per le imprese, con lavori multipli e intermittenti, secondo le esigenze aziendali, e salari sempre più bassi, come condizione affinché le imprese riprendano a investire. Fornendo a tutti una base monetaria su cui contare, il RdC contribuisce a istituzionalizzare il nuovo modello lavorativo e ad accompagnare la caduta del salario sotto il livello di sussistenza.

La remunerazione del lavoratore diventa così la somma di due componenti: il salario vero e proprio, in caduta libera, e un aiuto pubblico per arrivare a fine mese. Entrambe le componenti, come dicevamo, le produce il lavoratore ma la voce di quest’ultimo potrà farsi sentire solo sulla prima parte di reddito, dell’altra decide lo stato. Diminuisce così il ruolo della lotta sindacale e aumenta quello del fisco. A che serve lottare sul posto di lavoro? Meglio lavorare in silenzio e aspettare il contributo statale. Quello che si può concedere ai lavoratori si stabilisce al Ministero dell’economia. Invece di stemperare la concorrenza tra i lavoratori, il RdC aiuta a strutturare un mondo in cui il movimento dei lavoratori non esiste e ci sono solo individui isolati che competono per un lavoro precario, con l’aiuto dello stato.

Cittadinanza

Ai fini della ricomposizione di classe, l’espressione RdC non è tra le più felici. Non si tratta di una questione solo terminologica poiché per passare alla fase attuativa si devono definire, in un modo o nell’altro, gli insiemi degli aventi diritto e degli esclusi. In un clima di intolleranza all’immigrazione (creato proprio per dividere e segmentare il proletariato), il richiamo alla cittadinanza (o alla residenza) non spinge affatto verso l’unità dei lavoratori. I sans papiers non lavorano in nero per pagare meno tasse ma per sopravvivere. Quei documenti mancanti significano salari più bassi e zero diritti, lo sanno gli immigrati e i capitalisti che li assumono. Sono la base giuridica delle discriminazioni economiche.

Nel capitalismo, con le sue leggi su misura per il capitale, l’esistenza di un esercito di lavoratori irregolari, in stato di costante ricatto, è la base materiale per minimizzare il costo del lavoro. Da qui nascono le campagne razziste contro gli immigrati. Le quali però sono efficaci solo se attecchiscono tra i lavoratori, se rompono cioè la solidarietà di classe. Fingendo di difendere l’universalismo, il RdC si iscrive in questo attacco alla classe lavoratrice. Rafforzare il ruolo economico della cittadinanza significa aumentare le discriminazioni e i differenziali retributivi tra i lavoratori.

Se oggi i lavoratori immigrati fanno i lavori peggiori e peggio pagati è perché la classe lavoratrice è divisa e la coscienza di classe inesistente. Senza unità di classe, nessuna lotta è possibile: prima arretra uno, poi l’altro, poi tutti. Senza coscienza di classe, il nemico del lavoratore sembra essere il lavoratore più disgraziato, non la classe capitalista che li sfrutta tutti. Il RdC non rafforza affatto la classe lavoratrice, rafforza le sue divisioni interne. Non aiuta i lavoratori ad emanciparsi dal capitale, li divide per lasciare che il capitale li divori meglio. Questi immigrati già ci rubano il lavoro … ma non potranno rubarci anche il RdC!

Lotta di classe e bene comune

Il clima politico in cui si inserisce la proposta del RdC è tutto volto a disarticolare la classe lavoratrice. Il disoccupato è solo un lavoratore troppo choosy, i lavoratori del settore pubblico sono dei fannulloni con dei privilegi, se si lavora più a lungo e si guadagna di meno è colpa dei pensionati che muoiono troppo tardi e, come dicevamo, l’immigrato ti ruba il lavoro. Questi sono i termini del dibattito politico nell’era neoliberista. Lavoratori contro disoccupati, lavoratori del settore pubblico contro lavoratori del settore privato, lavoratori contro pensionati, lavoratori nazionali contro lavoratori immigrati. Ma tutti uniti, sotto la bandiera della patria, in qualità di cittadini, assieme ai borghesi, senza più distinzioni di classe.

Il bene comune è la nuova parola d’ordine del capitale. I diritti dei lavoratori sono superati, ormai esistono solo i diritti della borghesia, quelli che si esercitano comprando. Il mercato è il nuovo metro incontestato di razionalità. A questo, in definitiva, serve il RdC, a consentire di acquistare sul mercato i servizi da cui lo stato via via si ritira, a sviluppare il capitale privato in nome del bene comune.

Il RdC aiuta così a completare il processo di disintegrazione della classe lavoratrice. Dopo l’atomizzazione dei rapporti interni attraverso la guerra di tutti contro tutti, la scomparsa dell’antagonista esterno: quando compriamo, non ci sono lavoratori e capitalisti, siamo tutti “cittadini” (anche i sans papiers … basta che pagano). Lavoratori in lotta tra loro nei luoghi di produzione, ma uniti alla borghesia nei supermercati.

Secondo la logica del RdC, i diritti si fanno valere comprando merci. Come lavoratori, dunque, contiamo sempre meno, come consumatori siamo i nuovi sovrani (anche se, con la distribuzione del reddito e della ricchezza esistenti, alcuni consumatori sono decisamente più sovrani di altri). Nella nuova società fondata sul consumo, il cliente ha sempre ragione e il lavoratore ha sempre torto. Come nella Milano da bere, lavoro-guadagno, pago-pretendo! Si lavora in silenzio e si alza la voce quando il servizio non è buono. Il RdC indebolisce il lavoratore (che produce il reddito di tutti) e rafforza il consumatore (che il reddito lo spende e basta), sacrificando i diritti del primo e santificando quelli del secondo. Per questo, se il lavoratore dei trasporti sciopera non contano le sue ragioni ma i disagi che crea al viaggiatore.

Mentre la crisi morde e i lavoratori ne pagano il prezzo, i sostenitori del RdC inseguono il bene comune. Di fronte all’impennata dei profitti e alla caduta dei salari, promettono redditi per tutti. Perché l’importante, è comprare — o, più correttamente, vendere — le merci, anche se intrise di sangue dei lavoratori. Le condizioni di lavoro peggiorano ma le merci luccicano sugli scaffali dei supermercati. Questo è il bene comune nella società del consumo: l’inferno nella produzione e i merletti nello scambio.

Se dal lato dell’offerta, il RdC fa parte del nuovo modello di sfruttamento basato sul lavoro precario, dal lato della domanda, favorisce il processo di mercificazione della società, agevolando la fase sempre delicata della vendita delle merci e sviluppando il ruolo del mercato. Da una parte, aumenta il saggio di sfruttamento durante il processo produttivo, dall’altra, si fluidifica la realizzazione dei profitti all’atto della vendita e si allarga il ruolo del capitale privato.

Mercificazione

Lo stato può garantire i diritti attraverso diverse modalità. Può, ad esempio, stabilire di fornire direttamente determinati servizi, come l’istruzione e la sanità. Oppure può lasciare che della soddisfazione dei bisogni sociali se ne occupi il capitale privato. Ma non bisogna farsi illusioni. Se si segue questa seconda strada, la soddisfazione dei bisogni è subordinata alla massimizzazione dei profitti: possiamo credere di mettere il capitale al nostro servizio e indirizzarlo verso la produzione di ciò di cui abbiamo bisogno ma, alla fine, siamo noi che dobbiamo organizzarci per soddisfare i bisogni del capitale. Il capitale ha i suoi meccanismi, la sua logica è quella del profitto, il resto sono effetti collaterali.

La proposta del RdC si iscrive in questo secondo approccio. Non si sviluppano i servizi pubblici, si fornisce denaro con cui comprare servizi privati, merci. Non è il sistema fiscale a finanziare la spesa pubblica, sono i tagli alla spesa pubblica a finanziare il RdC. La merce non è vista come la cellula del sistema capitalista, la cui produzione presuppone lo sfruttamento di classe e l’asservimento al capitale, ma come lo strumento per soddisfare i bisogni individuali e sociali. La produzione di merci e l’assoggettamento della società al capitale non sono dunque combattute ma ampliate. Lo stato deve quindi ritirarsi dalla produzione di beni e servizi e diventare un semplice fornitore di denaro. Alla soddisfazione dei bisogni ci pensano le imprese, compatibilmente con la massimizzazione dei profitti.

Il problema è duplice. Primo, quando beni e servizi sono forniti attraverso il mercato, per definizione, non possono essere universalmente accessibili. Quale che sia il loro prezzo, ci saranno sempre soggetti che ne hanno bisogno ma che non possono permetterseli. Secondo, quando ci si affida al mercato, il marchio del capitale trasforma la natura stessa dei beni — li fa diventare merci — subordinando il loro valore d’uso alla logica del profitto e del valore di scambio.

Con la crescita dei rapporti di mercato, i diritti si svuotano di contenuto e sono progressivamente subordinati al potere d’acquisto, lasciando esclusi i meno abbienti a beneficio dei migliori offerenti. Non conta l’urgenza del bisogno ma la capacità di spesa. Il latte si produce per essere venduto, non per nutrire i bambini. Se poi finisce veramente nel biberon dei lattanti, tanto meglio. Ma se invece finisce nella ciotolina del gatto siamese della signora dei Parioli, va bene lo stesso. E lo stesso vale per le medicine, le case, i trasporti e tutto il resto. Se si guarda ai bisogni, la medicina dovrebbe andare al malato e la casa al senzatetto. Se vale il potere d’acquisto, va tutto al più ricco. Il diritto al reddito — tanto osannato dai sostenitori del RdC — non aggiunge un diritto, limita tutti gli altri. Il reddito diventa universale e i diritti diventano a pagamento. Non più servizi uguali per tutti ma servizi secondo il censo, proprio come voleva Friedman.

Il secondo problema non è meno grave. Più si sviluppa il mercato, più i bisogni di uomini e donne — ma anche quelli delle altre specie e dell’ecosistema — smettono di contare. Tutto e tutti diventiamo appendici del capitale. In questo processo, è la natura stessa della merce che si trasforma perché invece di soddisfare i bisogni umani deve soddisfare i bisogni del capitale. Ogni anno le connessioni internet diventano più potenti e più veloci e ogni anno le chiavi di sicurezza si perfezionano per impedire che le connessioni girino a pieno regime … non sia mai un utente si colleghi a scrocco. Invece di investire per allargare al massimo l’accesso al servizio, si investe per restringere l’accesso, per escludere chi non ha soldi. Risultato: dieci connessioni internet per palazzo (senza che nessuno abbia mai verificato seriamente i danni che causano) e cinque disgraziati nello stesso palazzo che non possono nemmeno controllare l’email. Questo è il modo in cui si sviluppa internet sotto la guida del capitale. Lo stesso bisogno di comunicazione potrebbe essere soddisfatto dallo stato con connessioni aperte, a un costo inferiore. E invece lo stato ha prima privatizzato la sua compagnia telefonica e ora si propone di elargire redditi ai cittadini per aiutarli ad acquistare il servizio dalle compagnie telefoniche private.

Nel mondo delle merci, non è il valore d’uso a guidare la produzione ma il valore di scambio. Non importa niente a nessuno se internet è veramente accessibile a tutti e se le chiavi di sicurezza sono una spesa inutile. Nel capitalismo, si devono fare profitti. Per questo, la ricerca si concentra sulle tecnologie per escludere dal servizio, non per ampliarne l’accesso. Se i migliori pasticceri si sfidano a chi fa il miglior dolce al cioccolato, la Nutella finisce direttamente nel gabinetto. Ma se si vuole costruire il patrimonio più grande d’Italia si deve fare una schifezza a basso costo che piaccia a tutti. La cioccolata smette di essere fatta col cacao e diventa un mix di olio di palma, burro di cacao e marketing. In origine, serviva a soddisfare il nostro gusto, ora serve ad arricchire chi la vende. Il valore d’uso soccombe al valore di scambio. Adorare la Nutella fa tendenza e il nostro palato assomiglia sempre di più a quello degli americani … E Lady Nutella è la più ricca d’Italia.

In questo processo di mercificazione, le caratteristiche intrinseche dei beni sono plasmate dal capitale per soddisfare al meglio i suoi bisogni e del bene originario resta solo il nome. Per loro natura, la cioccolata e una connessione internet non hanno niente in comune. Quando tuttavia la loro produzione avviene su basi capitalistiche esse diventano quasi identiche: poiché per il capitale sono entrambe mezzi per fare profitti; e se per massimizzarli la connessione rallenta e la cioccolata diventa Nutella, il problema è degli uomini, non del capitale.

Che si tratti di beni di prima necessità o di cose superflue non fa alcuna differenza. Se la cioccolata non è una priorità politica per nessuno, il problema si fa più serio quando si discute di diritto all’istruzione o alla salute. Perché mentre si cerca il modo di finanziare il RdC questi diritti sono sempre più negati nei fatti proprio dalla mancanza di fondi. Così, anche grazie al RdC, la scuola pubblica e il servizio sanitario nazionale si ridimensionano e crescono invece le scuole private e le cliniche. Le quali però non hanno nessun interesse a sviluppare la crescita culturale e scientifica dei ragazzi e a sviluppare un approccio organico alla salute perché lo studio critico e la prevenzione medica si sposano male con la logica del profitto. Se già oggi ci lamentiamo della mercificazione di questi settori vitali per la soddisfazione dei bisogni primari, allargando il ruolo del mercato, la mercificazione accelera.

Non si può certo accollare ai sostenitori del RdC la responsabilità della mercificazione del mondo. In definitiva, loro stessi sono prodotti culturali del processo di mercificazione anche quando credono di combattere il sistema. Ma è proprio quest’accettazione acritica del mercato — da cui discende la proposta politica di ampliarlo ulteriormente — che fa di questi soggetti dei pericolosi avversari politici.

Il mercato è il sistema circolatorio del capitale. Senza di esso, il capitale non può imporre la sua legge. Estenderne il ruolo significa semplicemente espandere il regno delle merci e comprimere quello dei diritti: il capitale avanza e la società indietreggia. Nel mercato, è il capitale che comanda, è come Mike Tyson sul ring. Allargare al mercato i diversi aspetti della nostra vita sociale credendo di combattere il capitale è come interrompere un alterco con Tyson e invitarlo a regolare i conti sul ring.

Il RdC non può agire da strumento di emancipazione della classe lavoratrice. Il lavoratore si emancipa dalla schiavitù del capitale attraverso la crescita salariale, il riconoscimento dei diritti e la demercificazione dei rapporti sociali, non attraverso nuovi redditi che accompagnano la caduta del salario, la perdita dei diritti e la mercificazione della società.

 

5. Conclusioni

Ricapitolo e concludo. In questo articolo, ho evidenziato i limiti teorici del RdC e i rischi politici di una sua attuazione, considerando i punti di vista della giustizia distributiva, dell’economia borghese, della contabilità nazionale e della critica anti-capitalistica. Dati alla mano, ho sostenuto che un RdC che consenta veramente di sganciarsi dal lavoro salariato, in Italia, non è possibile. Chi lascia intendere il contrario deve innanzi tutto ripassare le tabelline. Sul piano teorico ho anche ricordato che, in un contesto di rigore di bilancio, il RdC ha effetti recessivi, non espansivi. Pensare di utilizzarlo come misura anti-austerity significa ignorare l’abc della macroeconomia. Se poi i sostenitori del RdC credono di andare in direzione anti-liberista, conviene che diano uno sguardo anche alle opere di Friedman perché è proprio quello il progetto politico cui inconsapevolmente stanno lavorando.

Contro questa deriva politica, ho suggerito di ripartire da Marx e dalla sua critica. I problemi del capitalismo non si risolvono distribuendo redditi ma combattendo il capitale e arginando i suoi effetti. I diritti del lavoratore, incluso il diritto a un salario dignitoso, si conquistano con la lotta sul posto di lavoro. E lì che si valorizza il capitale ed è lì che i lavoratori hanno i migliori strumenti per impedire che il capitale li ingoi del tutto. Ma fuori dei posti di lavoro, il capitale non termina certo la sua azione. E allora la lotta anticapitalista deve generalizzarsi e svilupparsi in ogni settore in cui il capitale prova ad espandersi. Al malato non servono soldi ma un sistema sanitario che funzioni bene e gratis. La ricerca medica non può essere al servizio del profitto se deve garantire la salute e le medicine non possono essere una merce se devono arrivare a chi ne ha bisogno. Ai ragazzi bisogna fornire scuole che facciano pensare, non che insegnino a piegarsi al capitale. Bisogna dare loro strutture sportive in cui crescere sani, educare il loro corpo e divertirsi. Per ridurre le asimmetrie di genere, si deve socializzare il lavoro domestico, ancora troppo a carico delle donne, non monetizzarlo. Per dare risposta concreta ai bisogni della popolazione si devono fornire beni e servizi, fuori dal circuito del mercato e fuori dalla logica del profitto. Si deve demercificare la società non sviluppare la mercificazione. Questa è la conclusione cui giunge il marxismo dopo aver criticato il capitale e i suoi meccanismi. Non c’è posto per nessun RdC in questo percorso.

Quindi, compagni, se vogliamo andare, anche solo timidamente, verso il comunismo, seguiamo Marx, combattiamo il capitale in tutte le sue espressioni, a cominciare dai posti di lavoro e in ogni ambito in cui vorrebbe imporre la sua logica. Demercifichiamo la società, pretendiamo uno stato che ci fornisca direttamente i servizi secondo i nostri bisogni, senza passare per il mercato, lottiamo per i nostri interessi di classe. Se invece vi preoccupa solo l’austerity e vi piace Keynes, lasciate perdere il RdC e riprendete a ragionare di spesa pubblica. Ogni euro di tasse e di spesa pubblica, ricordatelo, è un euro di crescita. Se infine volete veramente trasformare il mondo in merce e superare a destra il neoliberismo di Friedman, allora continuate così, difendete il RdC.

Giulio Palermo

Note

8 Nella critica del capitale, Marx insiste sul fatto che la concorrenza fa apparire tutto al contrario. In questo passo, nota in particolare che il capitalista, che sotto la pressione concorrenziale, espande la produzione e riduce i costi, vede effettivamente i suoi profitti aumentare, ma non si accorge che, così facendo, contribuisce a far cadere il saggio di profitto generale. L’economista volgare invece di spiegare l’origine del profitto (come lavoro estorto ai lavoratori) e le cause della sua caduta (la sovraccumulazione di capitale) presenta il profitto come valore creato dal capitale (grazie allo stimolo concorrenziale) e si illude di poterne contrastare la caduta sviluppando ulteriormente la concorrenza e l’accumulazione di capitale.

 

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.