Per comprendere l’attuale caos libico dobbiamo fare un passo indietro fino al 2011, quando anche la Libia di Gheddafi viene coinvolta nel processo di radicalizzazione popolare cominciato nel dicembre dell’anno precedente a Tunisi, prima di propagarsi in tutto il Medio Oriente e il Nordafrica, passando alla Storia come “Primavera Araba”. Le prime manifestazioni contro il regime sono di Febbraio, e intonano slogan simili a quelli che si sono sentiti nei mesi e nelle settimane precedenti in Tunisia ed Egitto – “pane, giustizia sociale e libertà”. Sul piano economico, in realtà, la Libia non ha conosciuto gli immani processi di privatizzazione e di espropriazione trainati dalle Istituzioni Finanziarie Internazionali e dalle borghesie compradore dei paesi medio-orientali, insieme agli effetti della crisi scoppiata nel 2008, alla base delle rivolte nella regione. Rimane, comunque, che il regime di Gheddafi è uno dei più repressivi della zona. Inoltre tra la fine degli anni 90 e il primo decennio del 2000 anche in Libia comincia un processo di smantellamento del capitalismo di Stato istituito dopo la “rivoluzione” del 69, parallelo a un aumento della povertà e all’arricchimento del clan di burocrati, finanzieri e famigliari  attorno al Colonnello, il quale nel frattempo ha riallacciato i rapporti con l’occidente siglando accordi commerciali – in primis con l’Italia di Berlusconi – e investendo la rendita petrolifera a Londra, New York, Parigi, Berlino ecc.  tramite un apposito fondo sovrano,  la Libyan Investment Authority, che nel 2010 vanta inoltre il 7,6% delle azioni di Unicredit [1].

L’intervento NATO nel marzo 2011

Mentre in Tunisia e in Egitto il movimento è spinto in avanti dagli scioperi dei lavoratori, in Libia – dove inesistente è il movimento sindacale – esso non si estende oltre a settori giovanili e parte dell’intellighenzia. Gheddafi – come poi farà anche in Siria Assad – avrà perciò gioco facile a liberare estremisti islamici e criminali comuni dalle galere per giustificare una repressione feroce e condurre a una rapida militarizzazione dello scontro. Ecco che l’inziativa è fin da subito in mano a gruppi armati delle più svariate affiliazioni che prendono possesso degli edifici pubblici nelle principali città come Bengasi dove si forma un’autoproclamatosi “consiglio nazionale di transizione” (CNT). Si tratta di un organismo composto essenzialmente da esponenti del vecchio regime ben connessi con i circoli finanziari e diplomatici occidentali, sauditi ed emiratini: non stupisce che venga immediatamente riconosciuto dalla “comunità internazionale”. Nel frattempo le attività estere della banca centrale e del fondo sovrano libico (attorno ai 70 miliardi di dollari) sono sequestrate da Usa e potenze U.E, mentre oltre al desiderio di vedere Gheddafi condannato alla corte penale internazionle il CNT non esprime rivendicazioni politiche, ma si premura di accreditarsi presso le banche euroamericane per ottenere lo sblocco dei fondi governativi congelati. Questi ultimi, sottratti al Colonnello– ironia dell’imperialismo – “onde evitare che li spenda in truppe mercenarie” (ci raccontarono i telegiornali), cominciano nel giro di poche settimane ad essere somministrati alle nuove autorità per l’acquisto di armi da destinare alle milizie che spuntano ovunque nel paese, basandosi sul clan politico-clientelari locali legati al vecchio regime e su reti di islamisti radicali, l’unica tendenza politica in grado di sopravvivere alla repressione durante l’epoca di Gheddafi, anche in quanto rappresentano un ottimo espediente per giustificare con lo spauracchio del “terrorismo” la dittatura (strategia storicamente adottata da tutti i regimi bonapartisti-borghesi arabi). Non si contano, poi, i nuovi signori della guerra che sono riusciti ad approfittare del caos scatenato dal collasso delle strutture statali.

Intanto (marzo) cominciano i bombardamenti NATO che giustificati con l’esigenza di proteggere la popolazione dalla furia di Gheddafi colpiscono molti obiettivi civili, come l’imponente rete idrica pagata a suo tempo 31 miliardi… Finiti nelle tasche della multinazionale francese Vinci, i cui dirigenti – mentre ringraziano  Sarkozy che più di tutti ha spinto per i bombardamenti – non stanno più nella pelle di fronte all’aspettativa di nuove commesse. Sia chiaro, non c’è però nessun complotto contro l’Italia, anche se come abbiamo accennato essa aveva intessuto negli ultimi anni con la Libia strette relazioni economiche e diplomatiche (concretizzatesi, oltre che in flussi di capitale, nei primi accordi volti a rinchiudere nei lager gli emigranti verso l’Europa, con buona pace di chi rimpiange Gheddafi da sinistra). Al netto che non si capisce perchè l’imperialismo con base a Roma debba avere più diritto di saccheggiare le risorse del popolo libico di quello con base a Parigi, infatti, la NATO può intervenire perché il regime è destabilizzato da cause interne, mentre è strategico – dal punto di vista di tutti i paesi imperialisti – intervenire militarmente dove le condizioni sono più propizie per evitare di perdere l’iniziativa in un contesto come quello medio-orientale segnato in quel periodo da sommosse e imponenti movimenti rivoluzionari. Tant’è che nonostante tutti i contratti firmati dalla Libia con l’Italia, Berlusconi e Napolitano concedono quasi senza colpo ferire le basi siciliane per le operazioni dell’Alleanza Atlantica [2].

Dalla morte di Gheddaf al fallimento della “transizione democratica”

Dopo otto mesi di guerra civile Gheddafi viene ucciso e comincia il percorso che nel Luglio 2012 condurrà alle elezioni di un “governo democratico”. Vanno alle urne 1.5 milioni di persone su 2.7 registrate e 6 milioni di abitanti totali: tale è il consenso delle fazioni che hanno portato avanti la “rivoluzione”; ex gheddafiani con referenze in occidente (o negli Emirati e in Arabia Saudita), notabili locali ed islamisti di varie sfumature, tra i quali quelli legati alla frazione locale della Fratellanza Musulmana (questi ultimi sostenuti da Qatar e Turchia). Il compromesso istituzionale tra le fazioni parlamentari dura però molto poco dato che la partita si gioca a livello militare tra le milizie che detengono il potere reale nel paese. Nel 2014 il generale Haftar, un vertice militare del “vecchio regime” tornato in patria con la “rivoluzione” dopo un lungo esilio negli USA, minaccia un colpo di stato a meno che non si tengano nuove elezioni, mentre mostra i muscoli con una campagna contro i gruppi armati islamisti a Bengasi.

Il governo a maggioranza islamista è sfiduciato e in luglio vengono indette nuove elezioni, vinte dai “laici” prima di spostare il parlamento a Tobruk, città della Cirenaica (Nord-Est), dove sfruttando gli importanti contatti all’interno del vecchio esercito Haftar riesce a costruire la più grande e coesa forza armata nello scenario libico. La mossa tuttavia non è gradita alle varie milizie e fazioni radicate nel nord-ovest – in particolare quella della città costiera di Misurata – le quali non riconoscono il nuovo esecutivo e ne installano un altro a Tripoli, legittimato da 94 parlamentari che defezionano dall’assemblea internazionalmente riconosciuta di Tobruk. Il paese è diviso e mentre la comunità internazionale legittima ancora il governo in Cirenaica, la National Oil Company e la Banca Centrale, uniche autorizzate dal consiglio di sicurezza dell’ONU a vendere il petrolio e a gestirne i proventi, sono in mano ai “ribelli” con perno a Tripoli, dove entrambe le agenzie hanno la sede. La maggior parte del petrolio libico, tuttavia, viene estratto nella zona centro orientale del paese – nota come “mezzaluna petrolifera” -, dove sono inoltre collocati i principali scali per l’esportazione: Sidra e Ras el Lanuf. Il risultato è che l’ovest può vendere, ma produce poco, mentre l’est può produrre, ma non può vendere. Si tratta evidentemente di un calcolo delle potenze imperialiste e regionali coinvolte nella partita, le quali – bloccando la principale fonte di finanziamento per i contendenti sul campo – possono continuare a manovrare, evitando che emerga una forza in grado di imporsi autonomamente. Anche se la situazione e le articolazioni delle alleanze in uno scenario che coinvolge decine di attori sono molto complesse, l’imperialismo USA ha maggiori entrature a Tripoli, così come Turchia, Qatar e Italia, mentre Heftar è sostenuto da Emirati Arabi, Arabia Saudita e Russia, interessati peraltro a creare uno stallo per ridurre la produzione di petrolio libico e mantenere o guadagnare posizioni nel mercato mondiale degli idrocarburi già depresso dagli effetti della Grande Crisi (a causa dell’impasse, l’estrazione giornaliera di greggio nell’ex colonia italiana crolla dal milione e mezzo di barili del 2012 ai 300.000 del 2016, con tutti gli effetti in termini di devastazione economica e sociale del caso, in un paese che dipende in maniera essenziale dall’  “oro nero”). Chi subisce maggiormente la fase in corso è la Francia, alla testa dell’intervento NATO del 2011, ma le cui compagnie petrolifere (in primis la Total), concentrano i propri interessi nella “mezzaluna petrolifera”. Chi invece “gode” è l’imperialismo Italiano: l’ENI infatti controlla una serie di giacimenti nell’ovest e rimane di fatto l’unico produttore di idrocarburi in Libia, alla faccia dei soloni nostrani – dal PD alla Lega, passando per i 5Stelle, da Repubblica a Libero – che individuano la ragione del caos nella prepotenza di Parigi (e non nell’imperialismo come fenomeno complessivo). Nel frattempo, l’instabilità è ulteriormente aggravata dai lauti finanziamenti erogati dalle varie multinazionali (Shell, British Petroleum…) a tutta una serie di milizie che spuntano nella mezzaluna petrolifera, le quali non fanno direttamente riferimento ne a Tripoli ne a Tobruk (si tratta delle Guardie Petrolifere comandate dall’avventuriero Al Jadran).

 

I tentativi di stabilizzazione e le manovre imperialiste (2015-…)

Ad approfittare della situazione appena descritta sono gruppi di estremisti islamici che – dopo aver rimpinguato le proprie fila di mercenari in fuga dalla Siria dove l’Isis sta arretrando grazie all’intervento Russo e alla resistenza dell’YPG – conquistano Derna e la Sirte, proclamando la propria adesione allo Stato Islamico (gennaio 2016). Intanto (dicembre 2015), le potenze imperialiste e regionali, hanno appena siglato con alcuni notabili libici un patto volto a riunificare politicamente il paese: nasce sotto egida Onu, un nuovo governo di Unità Nazionale con sede a Tripoli e presidente Al Serraj, un oscuro burocrate del vecchio regime che tuttavia non ha nemmeno il supporto delle milizie della capitale (per insediarsi dovrà raggiungere le coste nord-africane in gommone, accolto dal fuoco delle mitragliatrici!). L’esito non deve sorprendere dato che nelle trattative, invece dei vari capo-milizia, sono stati coinvolti prevalentemente esponenti delle “tribù”, reti sociali ereditate dalla formazione semi-asiatica propria della Libia Ottomana, ma che – al netto di una certa narrativa neo-colonialista e magari forzando il paragone per rendere l’idea – hanno al giorno d’oggi un peso politico paragonabile a quello che in Italia possiede l’Associazione Nazionale degli Alpini. Non sorprende, perciò, che gli accordi di Skhirat, vengano rigettati da Tobruk, mentre Serraj si regge in piedi essenzialmente grazie al sostegno della comunità internazionale – che ha trovato un precario equilibrio tra alcuni gruppi armati di Misurata e Tripoli – e in particolare dell’imperialismo Italiano.

Il governo PD, però, si trova a dover reggere il moccolo a un fantoccio, proprio mentre truppe speciali francesi supportano l’offensiva grazie alla quale in primavera Haftar riuscirà a contenere l’avanzata dell’ISIS e a consolidare il suo potere nell’est del paese. E’ plausibile che l’errore italiano sia legato alla speranza nutrita da Renzi che gli USA possano far digerire alla Francia un nuovo intervento NATO, dove stavolta sia però Roma a fare la parte del leone. La speranza, coltivata nell’opinione pubblica nostrana dalle sparate del Corriere a firma Panebianco sul pericolo che l’ISIS invada la Sicilia, tuttavia, non si concretizza. Così, con Haftar sempre più nell’orbita di Parigi (ma anche di Mosca ed El Cairo), al “nostro” imperialismo non resta che approfondire l’appoggio al “governo riconosciuto dalla comunità internazionale”, anche se Minniti sa bene che non può affidarsi solo al fragile Serraj. Mentre, infatti, l’ex ministro degli interni si accorda con Tripoli per l’addestramento dell’esercito, la fornitura di 60 motonavi e per permettere alla marina libica di superare le 12 miglia marittime per condurre i migranti sui barconi nei lager sulla costa, finanzia direttamente i capo-milizia delle città costiere, insieme a notabili del sud-ovest, dove – approfittando dell’ingovernabilità generale – i centri controllati dal gruppo etnico dei Tebu, giocano la loro partita contro i Tuareg. Se tutti questi sviluppi permettono di equilibrare i rapporti di forza e dunque di imprimere una relativa stabilità alla situazione, hanno però l’effetto di riprodurre e di amplificare la polarizzazione: gli altri attori coinvolti – e in primis la Francia – non si limitano a subire le mosse diplomatiche italiane. Nei mesi in cui Minniti può presentarsi come il salvatore del paese dagli “sbarchi dei clandestini” (che in effetti si sono ridotti di due terzi nell’ultimo anno e mezzo), Heftar cerca di impossessarsi – con alterno successo – dei porti di Sidra e Ras el Lanuf, prima di incontrare Putin (Gennaio 2017) e Macron (Luglio 2017) il quale, anche grazie a scricchioli nella fragile coalizione di Serraj (vittima nel gennaio 2017 di un tentativo di colpo di Stato), riesce a intavolare una trattativa per condurre a nuove elezioni in grado di unificare il paese.

I negoziati proseguono con un nuovo incontro a Parigi nel marzo di quest’anno dove Serraj, il suo capo di gabinetto Al Mishri, Heftar e il presidente del governo di Tobruk Saleh, si impegnano a indire nuove elezioni per Dicembre. In Aprile, a segnalare la precarietà del sostegno all’accordo tra le varie forze in campo, si vocifera che Haftar sia stato avvelenato. Intanto Salvini e Moavero proseguono la politica di Minniti e nell’incontro con Trump di qualche settimana fa Conte cerca garanzie rispetto al sostegno USA nella partita libica, dopo che in Luglio Heftar riconquista Derna. Due settimane sono invece trascorse dall’inizio dei violenti scontri di Tripoli che hanno subito un escalation nelle ultime 72 ore: protagoniste alcune milizie fedeli a Serraj e gruppi di combattenti della città di Tahruna, situata a pochi chilometri dalla capitale del “governo legittimo”, ma che come riporta Agenzia Nova, esprime i suoi rappresentanti nel parlamento di Tobruk controllato da Heftar. Cigliegina sulla torta: sono appena stati liberati 400 lealisti del defunto Colonnello, pronti probabilmente a ricongiungersi con Seif Gheddafi, a sua volta liberato lo scorso anno; si tratta ovviamente del figlio del vecchio dittatore (il secondogenito), un personaggio che ha forti basi nella città di Zintan (qualche centinaio di km a sud di Tripoli), oltre ad aver ereditato il capitale politico del padre, ristabilito agli occhi di molti libici dopo sette anni di morte e disperazione…

Contro le ingerenze imperialiste!

In queste ore gli sviluppi sono molto rapidi e difficili da seguire (mentre scriviamo è appena giunta la notizia dell’incendio all’ambasciata USA). E’ possibile tuttavia abbozzare alcune conclusioni politiche: sono mesi che, prima  Minniti, poi Salvini si vantano di aver ridotto il flusso migratorio sostenendo e foraggiando il “legittimo” governo Libico. Peccato che, a causa dell’intervento NATO di 7 anni fa e dell’intreccio di interessi imperialisti che si affastellano nella zona, l’ex colonia italiana sia balcanizzata sotto il controllo di varie milizie locali: appoggiare Serraj – il presidente sulla carta riconosciuto dall’ONU – significa appoggiare solo una delle tante parti in gioco, a loro volta rappresentanti delle varie potenze imperialiste e regionali coinvolte in Libia.

È necessario chiarire, allora, come non ci sia solo il “controllo dei flussi” dietro gli accordi e i milioni erogati da Roma al governo di Tripoli, ma ci sia soprattutto la tutela degli interessi dell’ENI, di Unicredit e delle grandi imprese di costruzioni italiane (in primis Impregilo; la Libia dopo la guerra avra bisogno di nuovi ponti…), incalzate dall’imperialismo francese, che dal canto suo sostiene il principale rivale di Serraj, il generale Heftar.

Rifiutiamo la logica secondo cui per fermare le migrazioni il modo più efficace sia creare una barriera in nord-africa e nel Mediterraneo: non è possibile legittimare una politica associata alla costruzione di lager che creano l’infrastruttura per torture ed abusi ai danni di migliaia di disperati, mentre amplificano il terrore dei respingimenti per gli immigrati già presenti in Europa (con il risultato di aumentare la ricattabilità di un settore sempre più importante di lavoratori).

In queste ore e nei prossimi mesi, tuttavia, ci si renderà sempre più conto di come la politica di contenimento dei flussi tramite “l’allargamento dei confini esterni” sia non solo abietta, ma anche fallimentare in base ai suoi stessi presupposti. Poiché infatti essa è indissolubilmente legata a politiche imperialiste e si inserisce in un contesto di accanita competizione tra fazioni e paesi imperialisti, pagare Serraj per bloccare (e torturare) i migranti, vuol dire rafforzarlo rispetto ai rivali e di conseguenza fomentare i conflitti e l’instabilità, con il risultato di vanificare gli sforzi per fermare le partenze “dei barconi” dalla Libia.

Nel frattempo, gli immani processi di espropriazione e di impoverimento di milioni di contadini e lavoratori dell’Africa sub-sahariana, causati dagli stessi interessi economici che che stanno distruggendo la Libia, continuano a creare le condizioni per i viaggi verso l’Europa che nessuna politica dei respingimenti, o dell’ “aiutiamoli a casa loro” su basi capitalistiche potrà mai risolvere.

CONTRO LE INGERENZE IMPERIALISTE IN LIBIA E LE POLITICHE DI RESPINGIMENTO!

ABOLIZIONE DELLA BOSSI-FINI, DEL DECRETO MINNITI ORLANDO E DEL TRATTATO DI DUBLINO. PER LA LIBERA CIRCOLAZIONE E L’UNITÀ DEI LAVORATORI!

 

Django Renato

Note

1. Per un’analisi complessiva sulle “primavere arabe” si rimanda a Hanieh A (2013) Lineage of  Revolt. Issues of contemporary capitalism in the Middle East. Chicago: Haymarket, e G. Achcar, The People Want, California University Press, 2013.

2. Per un ottimo inquadramento della guerra civile libica, a nostro avviso viziato solo da un pregiudizio positivo nei confronti di Gheddafi, si veda: Palermo G (2018) L’aggressione imperialista della Libia, disponibile a: https://giuliopalermo.jimdo.com/libri-e-articoli/critica-dell-economia-politica.

Ricercatore indipendente, con un passato da attivista sindacale. Collabora con la Voce delle Lotte e milita nella FIR a Firenze.