Senza considerare i giudizi dei leader europei sulla situazione attuale, giudizi eccessivamente drammatizzati, per esagerazione o per interesse, si avverte una diffusa consapevolezza del fatto che l’ordine internazionale costruito a seguito della Seconda Guerra Mondiale stia progressivamente scomparendo e che il principale attore della fine del multilateralismo sia proprio l’America di Trump.

 

I vantaggi dell’ordine liberale

Contro la lettura diffusa dopo il crollo del blocco sovietico che insiste sull’idea di una “globalizzazione armoniosa”, abbiamo sempre sottolineato che l’eccezionale periodo di «pace» tra le grandi potenze mondiali che ha caratterizzato il dopoguerra non è dipeso né da un automatismo economico né da un salto nel processo di internazionalizzazione e concentrazione dei capitali né infine da quello che Samir Amin ha potuto definire come un “imperialismo collettivo”. Al contrario questa insolita parentesi nei rapporti internazionali tra le grandi potenze capitalistiche era legata alle peculiari caratteristiche dell’egemonia statunitense, egemonia costruita durante la Seconda Guerra Mondiale e sottoprodotto dell’esito paradossale di questa guerra. Alla fine del secondo conflitto mondiale l’URSS esce rafforzata, lo spettro della rivoluzione sociale agita maggior parte dei paesi europei ridotti in ginocchio dopo molto anni di guerra, un processo rivoluzionario ed una guerra civile attraversano la Cina.

Come reazione a questa situazione e tenendo conto dei fattori che avevano portato alla guerra, gli USA hanno costruito le basi di quello che chiamiamo «ordine liberale» o ordine mondiale del dopoguerra. La divisione del mondo in zone di influenza ha rappresentato l’elemento determinante che ha portato alla Guerra Fredda tra le due superpotenze nucleari. Questo nuovo ordine ha prodotto un certo numero di vantaggi nei rapporti tra le potenze e nella gestione delle sfide alla stabilità mondiale. In ultima istanza è l’insieme di questi fattori che ha determinato il crollo dell’URSS e non la maggiore produttività del lavoro del mondo imperialista. Se mettiamo queste considerazioni da parte e ci interessiamo solo ai rapporti tra Stato nazionale e centralizzazione internazionale del capitale, la grande novità è rappresentata dal fatto che, durante il medesimo periodo di tempo, la supremazia statunitense ha trasformato sensibilmente il rapporto tar economia e geopolitica.

Come abbiamo già spiegato in altri articoli, la tendenza degli USA alla supremazia mondiale ha determinato la subordinazione dei paesi meno sviluppati (ma anche dei paesi industrializzati, alleati o nemici) alla priorità della potenza egemone cioè all’accumulazione del capitale. Questo è stato il tratto distintivo dell’epoca dell’egemonia americana in rapporto al precedente periodo dell’egemonia britannica. Chiaro esempio di questa situazione è rappresentato dalla ricostruzione economica, politica e geopolitica dei grandi sconfitti della Seconda Guerra Mondiale, Germania e Giappone. Durante questo periodo, il potere egemonico degli Stati Uniti ha assicurato una presenza politica, geopolitica e militare decisive della superpotenza in Asia e in Europa, accompagnando questa supremazia con  la creazione di nuovi strumenti e nuove alleanze permanenti come la NATO.

Nel suo libro “The Jungle Grows Back: America and our imperiled world”[1] l’intellettuale neoconservatore e nostalgico del vecchio ordine imperialista Robert Kagan ha sottolineato cosa   ha significato questo nuovo ordine in termini di novità. Secondo Kagan, la trasformazione geopolitica della Germania e del Giappone dopo il 1945, che oggi si potrebbe chiamare doppio “cambio di regime”, è stata un’esperienza “più significativa dell’ascesa e della caduta dell’URSS” (pag. 42), nella misura in cui la Costituzione giapponese (dettata dagli Stati Uniti) e lo smembramento della Germania hanno condizionato i due paesi,

assicurando ai loro vicini regionali un livello di sicurezza inedito. [Anche grazie a questi provvedimenti] i due paesi poterono concentrare i propri sforzi e le proprie risorse sulla politica interna e sull’economia piuttosto che sulle preoccupazioni strategiche che li avevano assorbiti durante la prima parte del XX secolo. (…) Giappone e Germania erano liberi. Bandita ogni ambizione geopolitica e militare, Berlino e Tokyo poterono indirizzare le proprie energie e le proprie ambizioni in economia e nella creazione di uno stato sociale (pag. 42-43).

Considerato dal punto di vista della struttura internazionale del sistema politico e geopolitico delle principali potenze imperialiste, questo cambiamento e le sue conseguenze hanno trasformato non solo la struttura del potere globale, ma anche le dinamiche delle relazioni internazionali.

Nel contesto del nuovo ordine, la competizione geopolitica era pressoché cessata. I paesi dell’Europa occidentale e dell’Asia orientale non hanno iniziato una corsa agli armamenti, non hanno costruito alleanze strategiche per opporsi gli uni agli altri, non hanno difeso o rivendicano alcun controllo sulle aree di influenza strategica o economica […] Nel quadro di questo ordine liberale, il normale legame tra economia e geopolitica è stato messo in discussione […] L’Europa occidentale e il Giappone sono stati competitori economici […] Ma questa competizione economica non si è mai stata tradotta in competizione militare o geopolitica (pag. 45).

Gli Stati Uniti hanno tratto enorme vantaggio da questo ordine mondiale, preservando la stabilità globale e mantenendo la propria egemonia. Ecco perché, nell’attuale dibattito all’interno dell’establishment statunitense sulla strategia da adottare per rinvigorire l’egemonia americana (dibattito in cui il lavoro di Kagan si inserisce), l’autore si fa portavoce della preservazione del vecchio ordine liberale.

 

Il declino relativo dell’egemonia statunitense e la degradazione dell’ordine liberale

Buona parte dei vantaggi dell’ordine liberale descritti da Kagan sono presenti anche oggi. Lo dimostrano le difficoltà delle potenze imperialiste concorrenti a portare avanti ambizioni geopolitiche coerenti con la propria potenza economica e rispettando l’ordine gerarchico esistente tra Stati sovrani. Quest’ordine liberale mondiale è evidentemente in crisi e parimenti in crisi è l’egemonia americana, almeno a partire dagli anni ’70, con l’ascesa delle nuove potenze imperialiste emergenti e dopo la disfatta politica e militare in Vietnam. La controffensiva reaganiana ha permesso di ristabilire la supremazia statunitense sul terreno geopolitico nel quadro della “Seconda Guerra Fredda”, che aveva come obiettivo quello di frenare le ambizioni geopolitiche delle nuove potenze imperialiste emergenti. La strategia reaganiana ha permesso inoltre di riaffermare la supremazia economica mondiale degli USA attraverso l’imposizione dello schema Dollaro-Wall Street (tagliando le ali alle ambizioni del Giappone). Con la “corsa allo spazio” infine, attraverso un aumento senza precedenti del budget della Difesa, gli USA hanno potuto riaffermare la propria supremazia militare. Malgrado tutti questi sforzi però, l’economia statunitense non ha mai raggiunto i fasti dei decenni precedenti.

Né lo smantellamento dell’URSS né la trasformazione degli Stati Uniti in superpotenza unica (quello che è stato chiamato il “momento unipolare” o “unipolarismo”) sono riusciti a nascondere il drammatico aumento dei costi per gli Stati Uniti e il venir meno progressivo dei vantaggi di questo ordine liberale, man mano che il sistema internazionale cambiava radicalmente. Senza entrare nei dettagli dei “costi” specifici per gli Stati Uniti, siamo in grado di definirne le linee principali: la fine della Guerra Fredda ha indebolito le basi ideologiche e di consenso per cui l’opinione pubblica aveva appoggiato una politica interventista come nei casi di Corea e Vietnam, per citare solo due grandi conflitti in cui Washington è stata coinvolta nel quadro della politica di contenimento del blocco sovietico. Gli attacchi dell’11 settembre 2001 sono stati usati da Bush e dai neoconservatori per rilanciare l’offensiva egemonia nordamericana, soprattutto attraverso l’invasione dell’Iraq.

Quest’ultimo intervento tuttavia, si è concluso con un amaro fallimento che ha accentuato la riluttanza dell’opinione pubblica a qualsiasi forma di intervento esterno. Lo smembramento dell’URSS ha fatto sorgere nuove ambizioni geopolitiche tra le medie potenze come la Turchia. La fine dell’Unione Sovietica ha riaperto il vaso di Pandora delle contese territoriali espressioni della dissoluzione simultanea, dopo la Prima Guerra Mondiale, dei grandi imperi Austro-Ungarico, Ottomano e della Russia zarista. Questi conflitti sono riemersi con forza negli ultimi venticinque anni. La restaurazione capitalista negli ex stati operai ha portato a risultati contraddittori: da una parte la Russia ha riorientato la propria economia sullo sfruttamento delle materie prime, diventando però dipendente dalle esportazioni di gas e dagli idrocarburi. Dall’altra tuttavia, con spirito revanscista, la Russia cerca di preservare la propria sfera di influenza della pressione colonizzatrice e dall’accerchiamento geopolitico esercitati dalla NATO. In questo contesto la Cina ha approfittato della nuova divisione globale del lavoro da parte delle grandi multinazionali per raggiungere livelli senza precedenti di crescita e ha utilizzato lo sviluppo economico per rafforzare la propria autonomia permettendo così di limitare l’iniziale penetrazione imperialista e affermandosi come avversario strategico degli Stati Uniti. Infine dobbiamo considerare i progressi dell’Unione Europea e la creazione dell’Euro, che hanno avvantaggiato una Germania rafforzata dalla riunificazione imperialista (con l’assorbimento della ex DDR ed il trasferimento ad ovest di parte delle produzioni dell’est) e dalle eccellenti relazioni con la Cina, come dimostra il surplus commerciale del paese. Tutti questi fenomeni devono essere infine valutati nel contesto del relativo declino del peso dei principali paesi imperialisti nell’economia internazionale, a causa dell’ascesa, sulla scena economica mondiale, di potenze come la Cina e, in alcuni settori specifici, anche di un certo numero di altri paesi come India o Brasile. Gli ultimi negoziati per l’apertura del commercio mondiale in seno alla WTO [Organizzazione Mondiale del Commercio] hanno subito rallentamenti e battute d’arresto proprio in considerazione dei mutati rapporti di forza tra le potenze imperialiste e le nuove economie emergenti. Il punto culminante di questi processi è rappresentato dalla crisi mondiale del biennio 2008-2009, la più grave crisi economica dai tempi della Grande Depressione del 1929, crisi che ha avuto il suo epicentro proprio nel sistema finanziario degli Stati Uniti.

 

Trump e l’uscita dal multilateralismo

Le difficoltà di gestione dell’ordine mondiale e dei suoi principali attori da parte degli Stati Uniti precedono l’elezione di Trump. Le Monde, la cui linea editoriale è ancora furiosamente anti-trumpista, è obbligata a riconoscerlo:

il ripiegamento americano era stato già avviato dal presidente Obama, traendo insegnamento dal fiasco delle avventure mediorientali del predecessore George W. Bush nei primi anni 2000, annunciando, non appena salito al potere nel 2009, che era giunto il momento di fare nation-building[2] in casa propria, piuttosto che all’estero. Non era forse Barack Obama che si accontentava di partecipare all’operazione militare in Libia del 2011 alle spalle di Francia e Regno Unito? Non era forse questo presidente, adulato in Europa, ad accusare i suoi alleati di essere “free riders”, cioè di godere di una libertà e di una sicurezza garantite a spese del contribuente americano? Non è stata forse una più equa condivisione degli oneri l’obiettivo del vertice NATO del 2014? Il mondo stava cambiando, ma lo zio Sam continuava a sorridere e Angela Merkel era la sua migliore alleata.

Al pari i suoi predecessori, Trump critica nemici ed alleati. A differenza dei suoi predecessori tuttavia, l’attuale inquilino della Casa Bianca sta iniziando a prendere la decisione di portare gli Stati Uniti fuori dal grande teatro del multilateralismo. Questa reazione da un lato è l’espressione delle difficoltà da parte di Washington ad imporre il proprio dominio egemonico. Dall’altro è la testimonianza del fatto che gli Stati Uniti continuano ad essere abbastanza potenti da imporre le proprie opinioni a nemici ed alleati, indipendentemente dalle regole del multilateralismo. In due anni, Trump non ha solo aumentato il volume dei tweet contro i suoi avversari, contro i suoi alleati o contro il WTO, accusandolo di reprimere la sovranità degli Stati Uniti, sebbene siano stati gli USA per primi ad imporre questo regime in passato. Washington è passata ai fatti.

Lo testimoniano una serie di misure adottate a partire dall’inizio del mandato presidenziale: l’uscita del Trans-Pacific Trade Treaty (TTP), il ritiro dagli accordi di Parigi sul clima, le misure protezionistiche su acciaio e alluminio che hanno inasprito le relazioni con europei e canadesi, con i quali Trump ha preteso di ridiscutere il NAFTA, la pressione neocoloniale sulla Cina, o infine la mancata ratifica degli accordi sul nucleare iraniano che ha segnato un punto di non ritorno nella strategia dell’unilateralismo. Queste azioni sono rivolte in particolar modo contro gli alleati europei le cui multinazionali (Total o PSA, nel caso francese) sono state costrette a ritirarsi da un mercato promettente per non perdere l’accesso al mercato statunitense e al sistema finanziario internazionale finanziato dagli Stati Uniti.

Ma la novità della politica di Trump si colloca su un altro livello, come scrive su “Le Debat” Zaki Laïdi, membro del Centro Studi Europeo di Scienze Politiche e consigliere dell’ex Commissario Europeo per il commercio Pascal Lamy tra il 2000 ed il 2004:

La novità [della politica americana] va analizzata si concentra su due punti. Anzitutto la volontà di sostituire un sistema multilaterale fondato su regole e su sistemi di controllo dell’applicazione delle regole (“rules based system”) attraverso un gioco internazionale basato sul perseguimento esclusivo di risultati tangibili per gli Stati Uniti (“outcome based system”). In altre parole, poco importa il rispetto formale delle regole internazionali. La seconda novità introdotta da Trump è la ridefinizione del concetto di alleanza. Gli Stati Uniti non muovono dall’idea di avere alleati con cui condividono valori e interessi dai quali derivano le scelte da adottare. Partono dal presupposto che siano i loro partner a dover dimostrare di meritare la qualità degli alleati. In caso contrario sono visti come pesi ingombranti. Ne deriva una sorta di messa in prova che passa attraverso concessioni commerciali o un aumento delle spese militari in seno alla NATO. Per Trump uscire dal multilateralismo ha un significato preciso. Permette agli alleati di godere di specifiche concessioni commerciali in cambio di protezione strategica. Un approccio che in Europa ha colpito profondamente la Germania.

Il ritorno alle rivalità imperialiste

Le politica di Trump al pari della sua aggressività imperialista rispetto ai competitors ed ai suoi alleati ridisegna bruscamente le regole del gioco. Indipendentemente dai disaccordi che sono sorti in passato tra Berlino e gli USA (la questione Iraq nel 2003 o più recentemente la questione ucraina) la politica estera di Trump destabilizza una potenza come la Germania che fino ad oggi è stata fortemente dipendente dall’ombrello geopolitico statunitense. Berlino non vive da questo punto di vista una crisi politica, ma una vera e propria crisi esistenziale. Come ha ben spiegato un alto funzionario tedesco al giornale Le Monde:

La casa dove noi tedeschi abitiamo è l’America. Gli Americani l’hanno disegnata e costruita. Ed è una casa molto confortevole…Noi tedeschi viviamo una sconfitta mentale molto profonda. La Germania è cresciuta all’interno di questo ordine mondiale liberale al punto che non sa immaginare nulla di diverso. Il nostro sistema immunitario è annientato.

Le manovre di Trump hanno preso di sorpresa i leader delle principali potenze imperialiste, tra cui Xi Jinping, nonostante la cortina di fumo che oscura la relazione tra Washington e Pechino. È così che Trump cerca di ricomporre il dominio degli Stati Uniti. Da un punto di vista tattico, le sue capacità di disturbo sono assai elevate. Dal punto di vista strategico per, la sua politica è estremamente rischiosa. Seguire questo percorso significherebbe rifarsi con la politica del “Big Stick [3]” che ha caratterizzato la politica estera statunitense nel XIX secolo o riconoscere che gli Stati Uniti sono una potenza in declino. Sotto questo punto di vista, quindi, Washington dovrebbe riarmarsi e acquisire una nuova ambizione geopolitica. Paesi che nella crisi del 2008-2009 hanno rappresentato dei poli di stabilità si sono trasformato nell’esatto opposto.  La fine dell’era Merkel in Germania apre un periodo di instabilità e incertezza politica nel cuore dell’Europa, con conseguenze per il mondo intero. Questo è, in ultima istanza, uno dei sintomi della difficoltà della Germania ad emergere come potenza leader in Europa e alla sua incapacità di raggiungere un consenso interno sui sacrifici da adottare per frenare l’offensiva degli Stati Uniti.

Siamo lontani oggi dall’inizio di una nuova guerra mondiale. La fine dell’era della “globalizzazione armoniosa” è segnata tuttavia dal riemerge di alcune caratteristiche classiche dell’era imperialista: crisi, guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni, tutti elementi che segneranno l’agenda internazionale nei prossimi anni. In questo contesto si tratta di prepararsi ai cambiamenti che verranno.

 

Note

[1] Robert Kagan, The Jungle Grows Back: America and our imperiled world, New York, Alfred A. Knopf, 2018

[2] Nation building: processo di costruzione di un ordinamento statuale democratico.

[3] Politica del “big stick”: politica statunitense che prevedeva una forte ingerenza diplomatica ed anche armata negli affari interni degli altri paesi.

 

Juan Chingo
Traduzione da Révolution Permanente a cura di Vera Pavlovna

Membro della redazione di Révolution Permanente, giornale online francese. Autore di numerosi articoli e saggi sui problemi dell'economia internazionale, della geopolitica e delle lotte sociali dal punto di vista della teoria marxista. È coautore con Emmanuel Barot del saggio "La classe ouvrière en France: Mythes & réalités. Pour une cartographie objective et subjective des forces prolétariennes contemporaines" (2014) ed autore del saggio sui Gilet Gialli "Gilets jaunes. Le soulèvement" (2019).