Le origini e le contraddizioni dello “spirito antifascista” della Repubblica Italiana spiegano abbondantemente perché oggi Matteo Salvini, Ministro dell’Interno, possa tranquillamente disertare le celebrazioni del 25 aprile: ciò che stupisce è la sorpresa per il non-antifascismo del capo di un partito apertamente reazionario e filofascista in modo neanche troppo velato.
Oggi, come ogni 25 aprile, è giorno di festa nazionale che celebra l’anniversario della liberazione d’Italia, cioè il giorno in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) emana dal suo quartier generale a Milano proclama lo sciopero generale e l’insurrezione, intimando la resa a tutte le forze armate tedesche ancora presenti sul suolo italiano, in ritirata da mesi dopo lo sfaldamento della Linea Gotica: in quelli che furono in generale gli ultimissimi mesi della seconda guerra mondiale sui fronti europei (Berlino cade il 2 maggio), le formazioni partigiane del nord Italia passarono all’offensiva, dando il via a combattimenti urbani significativi dopo mesi o anni di azioni militari perlopiù limitate alle zone montane e di campagna, prendendo il controllo militare delle città in molti casi prima dell’arrivo delle truppe degli Alleati che risalivano la pianura padana dopo aver valicato l’Appennino.
La sconfitta politica e militare dell’asse fascista ha fatto sì che, in Italia come in Germania, fossero istituite leggi contro la possibilità che si riformassero i partiti fascisti; in particolare, nel caso italiano, la Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948, nella sua, XII disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana, recita così: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. La Repubblica, instauratasi il 13 giugno 1946 a seguito del referendum tenutosi fra il 2 e il 3 giugno di quell’anno, nasceva con la collaborazione di tutti i partiti che erano stati all’opposizione (clandestina, dato il regime di partito unico) del governo di Benito Mussolini, dando allo Stato italiano un assetto differente rispetto alla monarchia costituzionale che aveva preceduto la dittatura fascista.
Mentre il PCI e il PSI, ora concordi nel mettere da parte qualsiasi piano di rivoluzione sociale e instaurazione di un governo dei lavoratori e dei contadini abbattendo la democrazia borghese, accettavano il ruolo di “sinistra ufficiale” del nuovo regime democratico, la Democrazia Cristiana poteva “finalmente” reclamare il ruolo di partito “eterno” di governo, di primo partito elettorale e di grande fiduciario degli Stati Uniti d’America e della NATO, l’alleanza militare sorta per fronteggiare il pericolo rappresentato dal blocco-politico militare del Patto di Varsavia attraverso il quale la burocrazia di Stalin contendeva l’egemonia sull’Europa (e non solo) alle potenze imperialiste occidentali.
In questo scenario, formalmente l’agibilità politica per gli avvocati della causa monarchica savoiarda veniva salvaguardata, con relativo diritto all’esistenza e all’effettiva partecipazione per diversi anni alla vita politica nazionale di un partito monarchico, mentre veniva negata ai fascisti: divieto immediatamente superato tramite escamotage formali che permisero all’effettivo partito fascista ricostituito, l’MSI, di mantenere un peso importante, come principale forza d’opposizione di destra, nella politica italiana.
Dal 1948 stesso, possiamo dire, c’è una continua e non marginale storia di apologia del fascismo, in forma politica-organizzata o ideologico-culturale, che le varie disposizioni costituzionali, le leggi, i (rari) casi di repressione non hanno assolutamente né limitato né tanto meno estinto.
Le stesse forze democratiche, col PCI del Ministro di Grazia e Giustizia (nonché segretario del partito) Palmiro Togliatti alla testa, si premurarono di mantenere ai propri posti la quasi totalità dei funzionari statali fascisti, anche nei casi manifesti di personaggi che personalmente avevano preso parte a fenomeni violenti di repressione degli oppositori politici durante la guerra civile del ’43-’45.
D’altronde, quali altri corpi scelti di burocrati civili e militari era possibile mettere a difesa dello Stato borghese e della proprietà privata di industriali, agrari e banchieri (velocemente passati sul carro “antifascista” dei vincitori) di fronte alla minaccia di molte decine di migliaia di partigiani comunisti e socialisti armati (cioè la netta maggioranza delle forze partigiane), in gran parte sinceramente convinti di poter farla finita non solo e non tanto con “l’invasore tedesco”, ma con gli stessi padroni che avevano messo al potere Mussolini?
Da questa mossa formale di tirare via il fascismo con un tratto di penna bloccando sul nascere il possibilissimo sbocco rivoluzionario dell’insurrezione partigiana, si è sviluppata nei decenni la dissociazione tra una Repubblica formalmente antifascista, radicalmente democratica, e la vita reale della Repubblica stessa: comitato d’affari dei capitalisti (italiani “antifascisti” compatrioti, così come stranieri) che sono rimasti ben saldi al potere anche senza la forma politica e statale fascista che avevano appoggiato per un ventennio; arena politica da sempre di partiti dichiaratamente di fede politica fascista sul cui scioglimento i degni rappresentanti della Repubblica evitano accuratamente di pronunciarsi; garante dell’ordine “democratico” basato sulla repressione delle mobilitazioni della classe lavoratrice e della gioventù; amica della Chiesa cattolica che sotto il fascismo prosperò e fu indiscussa religione di Stato
Se questi – grande proprietà privata, ordine poliziesco, tutela del clero cattolico – sono i grandi valori che la Repubblica antifascista difende, risulta chiaro che un partito che vince le elezioni e forma un governo, come la Lega, schierato dalla parte degli imprenditori “che soffrono per la globalizzazione” (quando gli industriali leghisti del nord-est campano sul loro export frenato, essendo prìncipi della globalizzazione), dalla parte dei “valori tradizionali” cristiani declamati a mo’ di crociata, dalla parte dell’ordine, della polizia e dello Stato, metta come ministro il suo leader politico, senza che questo sia costretto a fare sua una cultura antifascista che non ha e che non gli conviene promuovere, essendo larga parte del suo elettorato filofascista o, quando va “bene”, in linea con le peggiori posizioni reazionarie compatibili con quelle storiche del fascismo.
Se Salvini difende i pilastri della democrazia borghese italiana e della sua Repubblica, i suoi mancati omaggi ai partigiani e alla Liberazione sono un dettaglio, un di più sul quale i suoi mandanti politici chiudono tranquillamente un occhio e i suoi alleati, compreso il suo “superiore” Conte, possono commentare con toni più “antifascisti” e “sinceramente democratici” così da confermare che attualmente non si sta pianificando il gioco di nessuna carta eversiva, dittatoriale nella politica italiana; cosa di cui Matteo Salvini stesso è ben consapevole, ma che è per lui conveniente mantenere come argomento nebuloso, ambiguo, così da attirare le simpatie reazionarie, più o meno apertamente filofasciste, di un intero settore della società italiana che non si poteva e non si può spazzare via con un colpo di penna, nemmeno nel caso di una disposizione della Costituzione della Repubblica.
Questo a maggior ragione, finché Salvini potrà cavalcare l’ondata del nazionalismo e del razzismo di Stato che, lungi dall’essere stata inventata o iniziata da lui, caratterizza per molti versi a livello globale la politica della “era Trump”: non è un caso che Salvini abbia scelto, stamattina, di inaugurare il nuovo commissariato di Corleone (sì, la Corleone dei padrini siciliani) dichiarando di voler “affrancare il territorio dai nuovi occupanti che delinquono, di qualsiasi razza e colore”. Non ha resistito: anche quando lui stesso devia il dibattito dal 25 aprile alla mafia, riesce a parlare di negri delinquenti, ovviamente “razze” diverse e sempre pericolose per i bianchi, nordici italiani. A latere, ma proprio a latere, persino il Capitano, durante la relativa conferenza stampa, è riuscito a dire che sì, l’antifascismo è un suo valore fondante.
Glielo concediamo: l'”antifascismo democratico”, interclassista, garante di tutte le peggiori politiche antioperaie (giusto, PD?), che vuole vedere solo “le mele marce” fasciste senza riconoscere che è la pianta della società capitalista ad essere malata – questo antifascismo può essere, se lo vuole, anche quello di Salvini.
Quello di chi è oppresso e sfruttato in questa società deve essere un altro antifascismo: un antifascismo schierato dalla parte della classe lavoratrice contro i capitalisti, dalla parte dell’emancipazione dell’umanità contro la sopravvivenza del capitalismo, continuo generatore di mostri politici e distruzione.
Giacomo Turci
Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.