Intervista della redazione di Egemonia ad Ariane Anemoyannis, universitaria, militante rivoluzionaria francese, emersa come figura nazionale del movimento giovanile che si è attivato a fianco della classe operaia francese contro la riforma delle pensioni di Macron.


Ariane Anemoyannis, tra i volti pubblici della gioventù francese emersi recentemente, è militante e dirigente di Révolution Permanente e Le Poing Levé (Il pugno alzato), rispettivamente, la formazione politica sorella de La Voce delle Lotte-FIR in Francia e il raggruppamento studentesco con cui Révolution Permanente interviene nella gioventù e tra gli studenti. Abbiamo incontrato Ariane lo scorso luglio alla scuola estiva animata da RP sulle Alpi della Savoia.

Il tema principale dello scambio con la redazione di Egemonia è la grande lotta a difesa delle pensioni condotta dai lavoratori francesi tra gennaio e aprile 2023, la “bataille des retraites”. In particolare, abbiamo discusso il ruolo giocato nel processo dai giovani, e in particolare l’intervento di Le Poing Levé, la cui radicalità e influenza sulle fasce d’avanguardia del movimento è stata riconosciuta anche dai grandi media come Libération. Questo è stato il punto di partenza per inquadrare alcuni temi chiave della politica rivoluzionaria, dalla messa in pratica dell’unità studenti e lavoratori per sfidare le strategie passivizzanti delle burocrazie sindacali, passando per l’importanza di inserire in un discorso rivoluzionario le questioni democratico-radicali, fino all’atteggiamento da tenere nei confronti dell’esplosività dei giovani razzializzati delle periferie urbane.

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La lotta contro la riforma delle pensioni di Macron è stata probabilmente il movimento più importante della classe operaia nell’ultimo decennio in Europa, ma è significativo come anche ampi settori giovanili e studenteschi abbiano dato un contributo importante alla lotta. 

Che ruolo avete avuto come Le Poing Levé nel mobilitare questo settore?

La prima data di mobilitazione è stata il 19 gennaio, quindi dopo gli esami di metà semestre, in tutte le università, o almeno nella maggior parte di esse, ci sono state diverse assemblee generali organizzate dai sindacati o dalle organizzazioni studentesche per cercare di prepararsi a quella data. Si trattava però di assemblee piuttosto minoritarie, cioè di poche centinaia, a volte meno, di studenti che si riunivano, con scarsa auto-organizzazione reale, nel senso che si discutevano poco le rivendicazioni, si intraprendevano poche azioni concrete, e quindi non si riusciva ad uscire dal bacino tradizionale dei militanza. 

Il punto di svolta in cui abbiamo visto l’esplosività e il ruolo dei giovani è stato dopo l’uso del 49.3, la disposizione costituzionale che di fatto permette al governo di imporre una riforma al Parlamento. Si è trattato di un innesco, nel senso che ha cambiato la natura del movimento: dalla sera stessa, c’è stata un’esplosione spontanea di giovani nelle strade, che ha fatto eco alle loro preoccupazioni sul terreno della tenuta democratica. Tutto ciò ha ostacolato il decorso normale della strategia dell’Intersindacale, che voleva limitare il movimento al ritiro della riforma, e la cui unica politica, quel giorno, era stata leggere un comunicato stampa in cui si diceva “Quello che sta facendo il governo non è giusto, ci vediamo tra 10 giorni” [l’Intersindacale è l’organismo con cui i vertici dei principali sindacati francesi – dalla cattolica CFDT alla CGT, più radicale e storicamente legata al Partito Comunista, fino ad alcuni sindacati di base – hanno lanciato le mobilitazioni e si sono interfacciati con il governo, ndt].

Questa ondata di giovani mobilitati ha avuto un ruolo radicalizzante, ha permesso di fare un salto e un vero cambiamento nella natura del movimento, rendendo possibile una vera vittoria. C’erano studenti di diverse università ed è stato molto significativo vedere che in università che non si erano mai mobilitate, che non avevano mai fatto occupazioni, nemmeno nel maggio ‘68, ci sono stati tentativi di blocco delle lezioni, anche minoritari, che esprimevano il desiderio dei giovani di scendere in piazza. Questo ha innervosito le autorità al punto che Darmanin, il ministro degli Interni, ha detto: “questi sono dei black-bourges!”, un neologismo che unisce «black bloc» a «bourgeoises» [«borghesi» ndt]. In effetti il movimento ha coinvolto anche studenti iscritti a scuole di ingegneria, a Sciences Po [prestigiosa e selettiva scuola di scienze politiche a Parigi, ndt], talvolta scuole private, scuole molto di destra. Non sorprende che Darmanin sia stato colto di sorpresa dalla massività e dall’importanza dell’interesse mostrato dai giovani per la questione delle pensioni. 

 

Hai parlato del fatto che i giovani sono entrati in campo in massa sul terreno della difesa della democrazia. Ma gli studenti non sono più un gruppo sociale così separato dai lavoratori: molti studenti non vengono da famiglie benestanti e lavorano per mantenersi. Quali sono le domande che i giovani si sono posti come studenti-lavoratori o semplicemente come lavoratori, e che li hanno portati a mobilitarsi?

Innanzitutto, quello che sappiamo è che in questo movimento ci sono stati scioperi di massa in un numero enorme di settori, sia pubblici che privati, quindi per deduzione, settori in cui i giovani lavoratori esistono, occupano lavori temporanei, o saltuari. Non è possibile però avere cifre esatte. Certo è che in Francia quasi uno studente su due è anche un lavoratore, mentre il numero di studenti è esploso negli ultimi anni, quindi in termini assoluti ci sono molti più giovani che sono sia studenti che lavoratori, quindi i temi dell’università, della formazione universitaria e dell’occupazione sono estremamente intrecciati. 

Una cosa che ritengo interessante, e che penso abbia avuto un peso nella politicizzazione dei giovani, è che, durante il Covid, i giovani hanno rappresentato la seconda ‘linea di difesa’, dietro il personale medico, nell’ottica di garantire il funzionamento della società. Erano loro che facevano i corrieri in bicicletta per il food delivery, erano loro, i giovani dipendenti dei supermercati, che andavano ad aiutare gli anziani perché potessero procurarsi il cibo senza uscire. Non a caso, dopo il confino c’è stata un’ondata di scioperi per le condizioni di lavoro animata proprio dagli studenti lavoratori. Il loro status, infatti, impediva loro di ottenere alcuni bonus Covid forniti dal governo, nonostante fossero proprio uno dei settori che aveva tenuto in piedi la società durante il lockdown. Credo che questo sia stato un precedente interessante perché non solo i giovani hanno sperimentato una lotta sul terreno della classe operaia che ne ha rafforzato la presa di coscienza, ma ha anche creato molti ponti tra l’auto-organizzazione sul posto di lavoro e l’auto-organizzazione nel luogo di studio. Questo ha aperto molte potenzialità che si esprimono in vari modi. 

Tuttavia il fatto, che molti giovani di estrazione popolare e proletaria temano di non poter proseguire gli studi a causa del processo di selezione sempre più duro promosso da Macron, ha favorito una dinamica contraddittoria. Molti giovani hanno sentito che la bataille des retraites era un’opportunità per farla pagare a Macron scendendo in piazza. Allo stesso tempo, però, se sei uno studente precario, rischi di perdere la borsa di studio se ti fai coinvolgere troppo. Inoltre, abbiamo assistito a un altro fenomeno legato alla questione del lavoro e delle opportunità di carriera: giovani provenienti dalle scuole di ingegneria e dalle scuole di economia che hanno detto: “non voglio fare questo lavoro, voglio stare a fianco dei proletari”. È quindi interessante pensare all’unità con la classe operaia, alle questioni sulle alleanze.

 

Tu fai parte della corrente giovanile lanciata da RP, Le Poing Levé, che ha partecipato alla Réseau pour la grève générale. Che ruolo hanno avuto i giovani da voi organizzati nella costruzione di questa “Rete per lo sciopero generale” e nel tentativo di combattere la burocrazia sindacale e gli ostacoli che essa pone alle lotte?

Un elemento che non esisteva negli ultimi anni e che credo stia permettendo alle idee marxiste rivoluzionarie di tornare in auge, non solo come lettura della società ma anche come cassetta degli attrezzi per le lotte, è il fatto che in modo molto spontaneo e con molta volontà i giovani sono andati direttamente ai picchetti per sostenere i lavoratori, in particolare nella regione di Parigi, di cui parlo perchè è lì che svolgo il grosso della mia azione militante. Qui ci sono diversi centri di smistamento dei rifiuti, e gli operatori della nettezza urbana sono stati uno dei settori che hanno spinto maggiormente in avanti il movimento dopo la 49.3, con uno sciopero molto duro, riconvocabile. Molti giovani, spontaneamente, al di là dei militanti delle organizzazioni tradizionalmente marxiste, sono andati ai picchetti dei netturbini per impedire alla polizia di interrompere lo sciopero; si è trattato di un episodio prorompente che il governo non si aspettava. 

In parte, abbiamo avuto prova della forza dei giovani già nei mesi precedenti con gli scioperi per i salari, dove i settori strategici – come i raffinatori – erano al centro del movimento. L’impatto dello sciopero di questi settori ha dimostrato la rilevanza della mobilitazione indipendente della classe operaia ai giovani. Ciò ha favorito un declino dell’influenza tra i giovani di posizioni autonomistes che negano la centralità del conflitto capitale-lavoro [si tratta di una corrente simile a quella degli “autonomi” in Italia, anche se più anarcoide e meno legata ad esperienze storiche della classe operaia ndt]. La realtà è tuttavia contraddittoria: mentre ci sono questi fenomeni, c’è poca consapevolezza del ruolo politico che il movimento studentesco può giocare, quindi c’è ancora molto lavoro di fronte ad alcuni ostacoli. Parlo ad esempio dei problemi legati alle quarantene Covid e all’interruzione della continuità con le lotte precedenti che hanno causato. Parlo della repressione fortissima, della crescente aziendalizzazione dell’istruzione generata dall’ultima riforma, nota come «Parcoursup»: molti studenti hanno paura che partecipare alle assemblee generali possa far loro perdere tempo per gli esami. Le difficoltà sono anche associate all’impostazione passivizzante delle burocrazie studentesche, che hanno trasformato le assemblee generali da strumenti di auto-organizzazione a passerelle, finendo per delegittimare la stessa idea di riunirsi in massa per decidere democraticamente. 

Noi di Le Poing Levé abbiamo lavorato per cercare di rilanciare l’autorganizzazione. In effetti, abbiamo visto assemblee generali molto grandi a Parigi in questo movimento (in media sulle 1.000 persone), ma a dirla tutta sono state un po’ plebiscitarie: gli studenti votavano “Sì, sarebbe bene bloccare”, ma non c’è stata una riflessione molto matura rispetto al «che fare» e al come farlo. Questo ha creato un fenomeno contraddittorio, per cui come Le Poing Levé abbiamo cercato di avere una politica molto chiara contro i vertici sindacali, che desse molta importanza all’autorganizzazione, che permettesse al movimento studentesco di fare delle manifestazioni indipendenti di modo tale da incoraggiare il movimento operaio a prendere una linea più dura. Ciò ci ha portati a organizzare la prima manifestazione non direttamente chiamata dai vertici sindacali di tutto il movimento, l’8 febbraio, anche se l’idea era proprio prendere in parola l’appello di alcune federazioni della CGT che avevano chiamato a fare scioperi riconvocabili. Noi abbiamo detto: “Ok, l’avete detto, facciamo in modo che gli studenti vi sostengano”. Così abbiamo fatto una manifestazione selvaggia nel Quartiere Latino, con 500 studenti; non era enorme, ma simbolicamente è stato importante. 

Abbiamo riprodotto questa logica il giorno del 49.3: l’avevamo anticipato e abbiamo fatto votare all’Assemblea Generale una manifestazione dalla Sorbona al parlamento, dicendo che non ce ne fregava niente del 49.3 e che saremmo andati fino in fondo. Questo ha contribuito a far passare il movimento alla fase successiva. Abbiamo cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica sui legami con la classe operaia, andando ai picchetti, andando con i giovani al Reseau pour la Grève Generale (Rete per lo sciopero generale), la struttura lanciata da Révolution Permanente per coordinare dal basso i settori operai in lotta e stimolare un crescendo verso un vero sciopero generale (e non a date isolate e sempre più distanziate tra di loro, come imposto dalle burocrazie sindacali). La presenza dei giovani a queste iniziative ha mostrato che non si trattava solo di un’operazione sindacale, ma di un intervento politico volto a creare un fronte unico tra i lavoratori, i giovani e chiunque volesse impegnarsi a sfidare la strategia dell’Intersindacale e portare fino in fondo la battaglia contro Macron. Una delle azioni più importanti del Reseau, questa primavera, è stata andare alle raffinerie della Normandia, le più importanti del paese, per evitare che il governo precettasse i lavoratori con l’obiettivo di rompere lo sciopero. La presenza degli studenti è stata fondamentale per impedirlo. 

 

Hai parlato di un declino dell’influenza degli autonomi: questo ci interessa molto in Italia, perché, se prendiamo l’insieme delle loro varie correnti, gli autonomi sono la corrente dominante nel movimento studentesco, nonostante anche loro soffrano della passivizzazione sociale degli ultimi anni. 

Sappiamo che gli autonomi italiani e quelli francesi hanno alcune differenze, ma vorremmo sapere qual è il vostro giudizio su questi settori: quali modalità democratiche di organizzazione degli studenti avete promosso per incoraggiare un dibattito chiaro e avanzamenti politici nel movimento di modo tale da contrastare le tendenze movimentiste (ma anche quelle riformiste)?

Io stessa sono stata influenzata dagli autonomi quando ho lasciato la scuola superiore; li concepisco in fondo come un tentativo sano – ma inadeguato – di rispondere alla politica passivizzante delle burocrazie sindacali studentesche. Penso che gli autonomi siano stati messi in difficoltà da una lotta, come quella contro la riforma delle pensioni, che ha visto una mobilitazione della classe operaia ancora maggiore rispetto al 2016 e al 2018, i periodi della battaglia contro la precedente riforma del lavoro e del movimento dei Gilet Jaunes, rispettivamente, in cui gli autonomi avevano avuto più impatto. Credo che i periodi Covid e post-Covid abbiano avuto un ruolo enorme nel favorire la consapevolezza del ruolo della classe operaia oltre i giri militanti, ma al contempo rimane necessario un lavoro molto intenso per organizzare e sviluppare questa presa di coscienza a livello di massa. Così, per gli autonomi è stato molto difficile proporre una politica durante la lotta contro la riforma delle pensioni. Ad esempio, in una loro importante pubblicazione [Lundimatin, “Il Mattino del Lunedì” ndt] hanno detto che il movimento era «una pentola marcia», che non c’era un vero radicalismo, assumendo una posizione con conclusioni opposte, ma nelle premesse molto simile, a quella dei profeti della sconfitta come Ugo Palheta [1]. Un’impostazione del genere si è espressa nell’innamoramento per azioni avventuriste, per il disprezzo nei confronti degli sforzi per costruire coordinamenti di studenti e di lavoratori, più larghi possibile. L’esigenza di lavorare per rendere il movimento di massa, possibile solo tramite il coinvolgimento democratico degli studenti su un piano di lotta, è stata una linea di battaglia molto forte di Le Poing Levé. Radicalità, ma anche un approccio verso le masse, sono due aspetti che vanno necessariamente insieme se si vuole pensare a uno scontro serio con il governo. 

 

Uno dei fattori chiave della mobilitazione degli studenti, ma anche della situazione in generale, è stata la forte repressione che i giovani hanno subito durante il movimento. Come vi siete rapportati a questo fenomeno e quali richieste avete avanzato come Poing Levé?

Sì, la repressione ha avuto un ruolo importante nello sviluppo del ruolo dei giovani perché ha dato loro una sensazione molto concreta della durezza del regime macroniano, sensazione che pochi settori della gioventù avevano sperimentato prima d’ora. Naturalmente non sto parlando dei giovani razzializzati dei quartieri popolari: come vi ho detto, nella composizione del movimento, le scuole di ingegneria, le università d’élite ecc. hanno avuto una certa importanza. 

In questo quadro, Le Poing Levé ha sfruttato bene l’opportunità di emergere con le proprie posizioni, criticando duramente i ministri e i rappresentanti del governo e collegando la repressione a questioni di classe e sistemiche e mostrando in modo molto crudo cosa significasse: studenti completamente aggrediti nelle stazioni, per dirne una. Un elemento molto importante per noi è stato condurre una campagna contro la repressione in un momento in cui il resto dell’estrema sinistra era scettico, in particolare gli autonomi, per disinteresse nei confronti del dibattito politico, e l’NPA [2] che diceva: “insistere sulla repressione vuol dire far passare che il movimento è già finito!”. Così siamo andati controcorrente. Abbiamo creato un modulo per un censimento scientifico dei casi di repressione e di azioni penali, per cercare di stabilire una visione corretta di questo fenomeno. Le risposte ottenute – qualche centinaio – erano un buon numero in proporzione al numero di giovani che sono stati arrestati dalla polizia (nell’ordine delle migliaia). Ciò che mi ha colpito è che si trattava di persone molto giovani, alle quali abbiamo chiesto di scrivere delle testimonianze che abbiamo poi pubblicato su Révolution Permanente per mostrare la natura strutturale del problema, ecc. Abbiamo dovuto censurare alcuni passaggi, perché di fatto i giovani si autoincriminavano esplicitamente, dicendo: “Beh, sì, ho insultato i poliziotti” o “Sì, ero in un picchetto, quindi è vero che ho fatto qualcosa”, a testimonianza del fatto che è necessario un forte lavoro di maturazione politica all’interno di un lavoro molto importante per collegare le questioni democratiche con quelle di trasformazione economica e sociale. 

Questo in antitesi rispetto ai neo-riformisti de La France Insoumise. Nonostanta la rivendicazione della «Sesta Repubblica» sia un loro cavallo di battaglia, essi sono stati completamente in silenzio rispetto a un cambiamento della costituzione, mentre Macron utilizzava le prerogative autoritarie dell’assetto istituzionale vigente per far ingoiare ai lavoratori la riforma delle pensioni. «Ora è importante pensare alla riforma delle pensioni e sostenere le richieste di trattative dei vertici sindacali. Domani parleremo di questioni democratiche, e se ne parleremo non sarà un movimento di piazza a sollevarle, ma i parlamentari», questa la logica de la France Insoumise. Come Le Poing Levé abbiamo attaccato frontalmente questa impostazione, organizzando assemblee generali proprio su questo tema, sulla questione della democrazia, del tipo di democrazia che vogliamo costruire, e questo è stato molto importante. Penso che dovremo fare ancora di più nel prossimo futuro.

 

Secondo te, con la fine del movimento c’è stata una maggiore demoralizzazione la politicizzazione degli studenti e dei giovani rimane in una fase ascendente? Puoi parlare delle mobilitazioni dei giovani razializzati nei quartieri popolari dopo l’assassinio da parte della polizia del diciassettenne d orgini magrebine, Nahel?

Quello che trovo molto interessante è che non vedo una demoralizzazione come invece è avvenuto dopo il 2016, o dopo il 2018. Stavolta le persone si sono rese conto solo alla fine che stavamo andando verso la sconfitta, ma che la vittoria era possibile. Il ciclo di fermento politico non si è affatto chiuso, lo si percepisce soggettivamente ; per evitare che questo accada, è però necessario un intenso lavoro politico militante, nei settori giovanili e nel movimento operaio, per trarre le giuste conclusioni e prepararsi a ciò che verrà. 

Che ci sia un rapporto tra il movimento di questa primavera e le rivolte dei quartieri popolari è chiaro. Penso che queste rivolte siano state un duro colpo per il governo e il suo tentativo di dire – dopo mesi di lotte – “Va tutto bene, Macron è di nuovo Giove, abbiamo vinto, ecc”. In realtà, come dicevamo all’epoca dei Gilet Gialli, si tratta più che altro di un pareggio strategico: sì, c’è stata una sconfitta in termini di rivendicazioni ma, dal punto di vista del ciclo politico e della lotta a più lungo termine, non è detta l’ultima parola. Anzi si potrebbe dire che le rivolte sono state il sintomo di un approfondimento di ciò che aveva aperto la mobilitazione per le pensioni e ancora una volta i giovani hanno giocato un ruolo molto importante. Questo di fatto significa che dal punto di vista de Le Poing Levé e di altre organizzazioni studentesche non possiamo accontentarci di un intervento specifico sugli studenti, quando in realtà nei quartieri c’è un’intera generazione di giovani che si è mobilitata contro la violenza dello Stato, che viene repressa dalla polizia, a cui viene impedito di andare all’università da riforme di selezione come il Parcoursup, che soffre per la disoccupazione. 

Tutti i saccheggi che abbiamo visto erano in fondo una risposta all’inflazione, ma abbiamo anche visto giovani lavoratori che saccheggiavano la stessa catena di negozi in cui lavorano: un modo per dire “sì, questo è anche nostro”. Penso che una comprensione della radicalità espressa da queste proteste dovrebbe permeare maggiormente il movimento studentesco, di modo tale che alle manifestazioni non ci siano più solo studenti del centro città e delle università. Bisogna cercare di unificare i settori radicalizzati della gioventù, le esigenze più identitarie e democratiche tipiche delle fasce studentesche tradizionali, con i giovani dei quartieri popolari che hanno richieste molto incentrate sulla possibilità di studiare e sulla possibilità di vivere in modo tranquillo, di avere un lavoro, di non essere costantemente spinti verso la povertà e di lasciare la scuola. Ovviamente questo significa avere una politica antirazzista e una presa di posizione molto chiara contro la polizia, cosa che le organizzazioni riformiste non fanno, perché si limitano a parlare di Stato di diritto, mentre in realtà i giovani nei quartieri sanno che ciò non significa nulla. A loro non importa quale sia il governo: la polizia che viene a reprimerli e umiliarli quotidianamente è sempre la stessa. La repressione che subiscono i giovani marginalizzati e razzializzati non è nemmeno paragonabile rispetto a quella che colpisce i “normali studenti”; tuttavia, la brutalità poliziesca subita dagli studenti durante la lotta per le pensioni ci ha permesso di partecipare alle proteste successive all’assassinio di Nahel cercando di far passare il messaggio per cui il nemico degli studenti e dei giovani dei quartieri popolari è lo stesso, e pertanto è necessario unirsi per pensare insieme le prospettive politiche, per elaborare un programma d’azione comune.

 

Per concludere, una domanda sull’importanza che avete attribuito come Le Poing Levé e Révolution Permanente all’esposizione mediatica. Tu ad esempio sei diventata uno dei volti giovanili del movimento, partecipando spesso a trasmissioni tv. Quali sono stati i fattori che l’hanno favorita e quanto ha contato la vostra strategia?

Gli spazi che siamo riusciti a trovare nei media mainstream sono stati un riflesso dell’emersione di Révolution Permanente e di Le Poing Levé come organizzazione, come un nuovo modo di fare trotskismo in Francia. In questo solco, l’organizzazione del Reseau pour la Grève Generale è stata il fenomeno di maggior successo, non solo per il movimento operaio, ma anche per i giovani, e ne siamo molto orgogliosi, perché è stata una dimostrazione positiva della possibilità dell’alleanza tra la classe operaia e il movimento studentesco. È stato grazie a questa politica che siamo stati invitati a comparire sui media. I media sono stati una tribuna molto importante per pubblicizzare le idee che stavamo proponendo e per mostrare il volto di una gioventù agguerrita e consapevole che stava cercando di portare avanti la mobilitazione. In questo momento, come Le Poing Levé, constatiamo una buona dinamica di crescita, e forse in questo senso ha aiutato lo spazio che hanno trovato sui media questa gioventù in fiamme in cui si fa strada l’idea che non c’è alternativa alla rivoluzione.

 

Note

[1] Ugo Palheta è un accademico e intellettuale della sinistra radicale francese che ha avuto un dibattito con i compagni di Révolution Permanente sulle prospettive del movimento. Si veda sul nostro sito, di Juan Chingo e Paul Morao, Dibattito: elettoralismo o leadership e dei lavoratori in lotta?.

[2] Nouveau Parti Anticapitaliste, formazione che negli ultimi due decenni ha rappresentato la continuità formale con la tradizione della Quarta Internazionale francese, precedentemente organizzata nella Ligue Communiste Revolutionnaire; ad esso si è storicamente contrapposta Lutte Ouvrière, sempre di origine trotskista, attualmente la principale organizzazione “marxista” in Francia, con posizioni particolarmente economiciste e attendiste, che trovano qualche analogia con Lotta Comunista in Italia, nonostante le origini diverse. Soprattutto nella seconda metà degli anni 2000, l’NPA ha giocato un ruolo importante nella sinistra radicale transalpina ed è stato guidato dal gruppo affiliato a livello internazionale al “segretariato unificato” di tradizione mandelista (Controtempo/Alegre e Sinistra Anticapitalista in Italia). Attualmente, questi settori si sono separati (rivendicando di chiamarsi comunque NPA) nell’ottica di un’alleanza strategica con i neo-riformisti de La France Insoumise, ragione di fondo per cui Révolution Permanente, che rappresentava una parte consistente del partito, è stata espulsa 2 anni fa, senza ottenere sostegno dalle altre correnti di “opposizione” interna. Queste ultime, dopo aver ottenuto una leggerissima maggioranza al congresso dell’anno scorso, dirigono ora il partito, a cui hanno dato un’impronta più “rivoluzionaria” nelle parole d’ordine, in parallelo però a un atteggiamento settario, che si è concretizzato, nel caso delle lotta per le pensioni, in uno scarso sforzo nel favorire l’auto-organizzazione e il coordinamento dei lavoratori. Sull’espulsione di Révolution Permanente dall’NPA si veda Dossier: l’espulsione del CCR dall’NPA, un dibattito chiave per la sinistra radicale.

Questo articolo fa parte del numero 6, ottobre 2023, della rivista Egemonia.

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