L’escalation politica tra Azerbaigian e Armenia è culminata lo scorso 19 settembre in un attacco azero su larga scala nella regione dell’Artsakh per annettere questa regione popolata da armeni.


Lo scorso martedì 19 settembre, dopo un’escalation politica e di primi scontri minori, l’Azerbaigian ha lanciato un altro attacco su larga scala contro l’Armenia. L’Azerbaigian però parla del ristabilimento della pace nei suoi “confini interni”. Cos’è successo, dunque? Facciamo un passo indietro per capire meglio la situazione.

Le radici storiche del conflitto dell’Artsakh

Gli armeni sono una popolazione indigena del Medio Oriente, che dall’età antica fino al genocidio inflitto dall’Impero Ottomano, abitava l’Anatolia (oggi lo Stato turco), il Levante (cioè il Vicino Oriente) e il Caucaso meridionale. 

Dal momento in cui le tribù turche migrarono nell’area nel corso dell’XI secolo, con la loro unificazione e ascesa nell’Impero Ottomano, le vecchie popolazioni cristiane, come quella armena, furono sottomesse nell’arco di secoli, diventando sudditi del sultano di Istanbul.  Per quanto i non musulmani dell’impero non godessero della stessa condizione politica, fu con l’ascesa del nazionalismo moderno, tra Ottocento e Novecento, che le tensioni tra i popoli della regione si sono inasprite e sono sfociate in scontri violenti che continuano ancora oggi.

Lo scioglimento dell’impero ottomano a seguito della Prima Guerra Mondiale, dove gli ottomani alleati dei tedeschi avevano perso, portò alla nascita del moderno Stato turco. La necessità di rendere omogenea la nazione turca portò a varie persecuzioni, espulsioni, allo sterminio sistematico degli armeni in particolare, e alla guerra contro la Grecia per il controllo delle sponde del Mar Egeo. I popoli che non godevano del favore delle potenze imperialiste vincitrici, insomma, dovevano rassegnarsi ad essere oppressi e perseguitati. 

La nascita delle repubbliche di Georgia e Azerbaigian nel Caucaso, insieme all’ecatombe e alla diaspora degli armeni, portarono questi ultimi a riottenere uno Stato indipendente dopo secoli, di dimensioni molto ridotte rispetto all’area occupata dagli armeni nei secoli precedenti, all’interno dell’Unione Sovietica. Una volta stabilizzata l’area, la convivenza pacifica dei popoli caucasici dentro il primo grande Stato operaio divenne realtà, e le rispettive culture nazionali potevano conservarsi e svilupparsi senza minacciarsi a vicenda. Ciononostante, le politiche burocratiche della burocrazia staliniana e i loro interventi di regolamento dei confini nazionali e migrazioni (spesso forzate) delle popolazioni contribuirono a gettare i semi delle future tensioni nelle zone di confine tra le allora repubbliche sovietiche.

La caduta dell’Unione Sovietica ha riportato in auge il nazionalismo borghese in questi paesi, in particolare quello azero, vicino a quello turco per storia e religione: una cultura relativamente giovane che, a maggior ragione, ha basato il ritorno di ad una società di sfruttati e sfruttatori su un forte sentimento nazionalista, alimentato da una propaganda incessante che continua a fare il lavaggio del cervello alle giovani generazioni. La fase post-crollo vide l’intensificazione degli scontri militari per aggiornare i confini tramite la violenza e la pulizia etnica. Ciò portò al referendum del 1992 per l’indipendenza della regione a maggioranza armena dell’Artsakh/Nagorno Karabakh, col 99,89% dei sì a favore della separazione dall’Azerbaigian. Il rifiuto del diritto all’autodeterminazione dei “propri” cittadini armeni da parte dell’Azerbaigian portò a una guerra di liberazione e ad uno status di regione di fatto indipendente, ma che il debole Stato armeno non riuscì ad annettere ed a far riconoscere dalla diplomazia internazionale. 

La situazione rimane grosso modo invariata fino al conflitto del 2020, quando l’Azerbaigian sconfisse in guerra l’Armenia, annettendo una buona parte dell’Artsakh, imponendo un corridoio presidiato da truppe russe che separava l’Artsakh ancora autonomo dall’Armenia ufficiale.

Quest’ultima aveva vissuto solo due anni prima, nel 2018, il movimento politico e il cambio di regime politico conosciuto come rivoluzione di velluto: un riassorbimento della rabbia popolare contro l’oligarchia post-sovietica in favore di un assetto politico più filo-occidentale, che ha favorito l’ascesa al potere di Nikol Pashinyan, attuale primo ministro.

Dall’altro lato, è indubbio che l’Azerbaigian, dalla fine dell’era sovietica a oggi, vive sotto una dittatura il cui potere è stato tramandato direttamente di padre in figlio, da Geydar Aliyev a Ilham Aliyev. Il regime azero è noto per la censura sistematica della stampa e anche per gli abusi nei confronti della sua stessa popolazione; infatti, come ci si potrebbe aspettare, tutti i soldi del business del gas, fiorito nell’epoca post-URSS, sono finiti nelle tasche di pochissime persone. L’oligarchia azera non ha mai negato o nascosto le proprie rivendicazioni bellicose di riannessione dell’Artsakh, con l’inevitabile contorno di pulizia etnica e colonizzazione di quelle terre.

Dalla guerra del 2020 all’aggressione di oggi

Il conflitto del 2020, in questo senso, ha mostrato quanto fragile e ambiguo è la contrapposizione tra “democrazie occidentali” – inclusa Israele “unica democrazia della sua regione” – e gli Stati autoritari orientali in teoria profondamente influenzati dalla Russia: Israele rifornì l’Azerbaigian e i suoi droni all’avanguardia furono fondamentali sul campo di battaglia; la Russia giocò a malapena un ruolo di mediatore diplomatico del “popolo fratello” armeno; la Turchia socia NATO degli occidentali “difensori della pace e della democrazia” aiutò i “cugini” musulmani azeri. 

Per celebrare la vittoria, l’Azerbaigian ha costruito anche un nuovo museo in cui gli armeni vengono presentati in modo molto razzista e viene celebrata la gloria dell’espansionismo azero. Gli accordi per il cessate il fuoco del 2020 dichiaravano che entrambe le parti si impegnavano a costruire la pace e che il corridoio di Lachin – sottile striscia tra Artsakh “ridotto” e Armenia ufficiale – rimaneva aperto sotto il controllo di contingenti di peacekeepers russi per assicurarsi che fossero garantiti i rifornimenti essenziali e le normali condizioni di vita. Non solo l’Azerbaigian non ha rispettato questi termini, ma ha orchestrato proteste fasulle di eco-attivisti sul corridoio di Lachin, costruendo nel frattempo un checkpoint che portato all’isolamento dell’Artsakh dal suo unico alleato, l’Armenia.

Il blocco dell’Artsakh è durato 282 giorni, durante i quali molte volte gli azeri hanno sparato sui civili, tagliando luce e gas con l’intento di terrorizzare e affamare la popolazione civile. Arriviamo così all’ultimo atto di questo piano di espansione coloniale dai tratti genocidi, volto a cancellare l’identità armena dell’Artsakh. 

Martedì 19 settembre, dopo aver ricevuto nuove armi a lunga distanza da Israele e Turchia, l’Azerbaigian ha iniziato a bombardare indiscriminatamente la popolazione affamata dell’Artsakh; il bombardamento si è concluso con 27 morti tra i bambini e più di 200 feriti. Alle 13.00 è stato mediato un cessate il fuoco da parte dei peacekeepers russi. Questo prevede la resa e la consegna delle armi da parte delle forze armate presenti in Artsakh, per cui la popolazione rimane senza alcuna difesa, alla mercè di un regime dittatoriale genocida, nella sostanziale indifferenza degli attori politici internazionali e delle potenze imperialiste “democratiche” occidentali. 

L’evidente disparità militare e l’isolamento politico ha fatto sì che il governo armeno non abbia nemmeno tentato di rispondere all’aggressione, attirando su di sé l’ira della popolazione anche nella capitale Erevan, e probabilmente anche quella di Alyev, che avrebbe potuto appellarsi a un “illegittimo intervento armeno in territorio azero” per procedere a un’invasione su più larga scala, avendo il fianco coperto dal vasto esercito turco.

L’uscita dalla crisi non è lo scontro tra nazioni o l’affidamento alla diplomazia internazionale e all’imperialismo

Questo ennesimo fatto militare basato su odio nazionalista e settarismo religioso non è la conseguenza di un colpo di testa di Alyev, ma il risultato di politiche sistematiche dell’imperialismo che sobilla i popoli l’uno contro l’altro; l’obiettivo di dominare le varie regioni del globo, di appropriarsi delle materie prime e di alimentare il mercato (e dunque l’uso) delle armi, fa sì che si generino di continuo episodi di guerra e crisi umanitarie, come quella delle decine di migliaia di profughi armeni che stanno scappando dall’esercito azero.

L’Occidente si è limitato a “esprimere le sue profonde preoccupazioni” senza imporre alcuna sanzione (mentre non ha problemi a farlo con Russia, Iran, Siria o Cuba) perché la realtà dei fatti è che al momento ha bisogno del gas e del petrolio azero, pena la possibile mancanza forniture per l’inverno. Non solo: nemmeno dopo la guerra del 2020 è stato promosso alcun tentativo di risolvere la questione territoriale in maniera democratica, tramite l’espressione della popolazione coinvolta e l’aggiornamento pacifico dei confini. La diplomazia ha semplicemente ignorato la questione dell’Artsakh. Ciò è ancora più vile criminale, quando a reti unificate la politica occidentale ha martellato i propri cittadini per oltre un anno rivendicando la difesa fino alla vittoria dell’autodeterminazione dell’Ucraina dall’aggressione russa. L’ipocrisia delle potenze occidentali, che con una mano inviano materiale bellico all’Ucraina e con l’altra già ne stanno saccheggiando le terre e le risorse trasformandola in una colonia e piazza d’armi NATO, non potrebbe essere maggiore.

Molti giornali italiani e occidentali già dipingono ciò che sta accadendo in Artsakh con una indifferenza sconvolgente. Non ci tenta nemmeno di ripudiare questa aggressione violenta, ingiusta, e illegale persino per le leggi internazionali ad uso e consumo della classe dominante. 

Chiaramente non è la stampa borghese, o i partiti di governo che sostengono il ruolo imperialista dell’Italia e il suo coinvolgimento in guerre e “missioni di pace” all’estero, che possono condannare coerentemente Alyev… ma nemmeno Pashinyan. Quest’ultimo, come molti politici di potere degli Stati periferici nella scena internazionale, basa la sua permanenza al potere sui favori di uno o più soci che possano garantire benefici economici, politici e militare… a sé, alla propria cricca politica e alla borghesia che li sostiene. La resistenza e la vittoria contro le aggressioni neocoloniali come quella azera passano necessariamente attraverso una larga mobilitazione popolare e a misure rivoluzionarie in campo economico, politico e militare. Non all’affidamento a milizie e mercenari che fanno capo ai potentati politici e ai capitalisti locali, mentre questi ultimi continuano a sfruttare la grande maggioranza della popolazione e a mendicare un posticino tranquillo e profittevole, anche se subordinato, nella politica internazionale. Così in Armenia, come in Ucraina e altrove, la difesa delle proprie terre da invasioni e devastazioni non può passare dalla subordinazione alla propria borghesia e ai suoi politici, che sono pupazzi conclamati dell’imperialismo o suoi impotenti pretesi “oppositori”.

Pashinyan e il nazionalismo borghese armeno, contrapposto a quello azero, non possiedono la soluzione alla questione azero-armena, e possono solo continuare ad alimentare l’odio etnico e religioso, invece di indicare una via comune di liberazione per le popolazioni oppresse del Caucaso e del Medio Oriente.

Non saranno le associazioni internazionali che fanno da mediatrici tra le varie potenze, come l’ONU, a evitare queste tragedie. Esse oggi sono la versione ripulita e col vestito buono delle vecchie conferenze che Lenin chiamava già un secolo fa “covi di briganti”.

Deve diventare intollerabile agli occhi di tutti gli sfruttati che la vita quotidiana di intere popolazioni sia sconvolta da eserciti piccoli o grandi a servizio di cricche capitaliste avide, prive di scrupoli. Che la propria identità e memoria, legata alle terre ancestrali dove è nata, sia spazzata via con la pulizia etnica.

L’unica soluzione progressiva per trovare la pace e la l’emancipazione di ogni nazione e gruppo religioso in paesi come l’Artsakh, la Palestina e la Siria è una rivoluzione sociale, per cui le risorse e l’economia siano sotto il controllo della classe lavoratrice e delle masse popolari, e non di cricche autoritarie e di borghesie brutali e corrotte che non hanno mai costituito un’alternativa al sistema delle potenze imperialiste. 

La liberazione e la pace tra i popoli passa dalla loro discesa attiva nella lotta politica, nella lotta di classe, organizzandosi attorno alla forza della classe lavoratrice, che ne può essere il campione e l’alfiere internazionale, in un progetto comune di liberazione dal capitalismo, dal razzismo, dall’odio religioso che sono un tutt’uno col suo sistema.

Per questo rivendichiamo una politica della classe lavoratrice indipendente dai governi armeno e azero, e la costruzione di partiti rivoluzionari che lottino per una soluzione democratica e pacifica della questione armeno-azera, basata sul diritto all’autodeterminazione, che si renderà possibile tramite una comune liberazione e la presa del potere politico da parte della classe lavoratrice in questi paesi.

Artsakh libero!

Basta con guerre e oppressione alimentate dalle potenze straniere!

Per Federazioni socialiste nel Caucaso e nel Medio Oriente: per avere pace e libertà per i popoli, bisogna liberarsi delle potenze imperialiste, dalle cricche borghesi locali, del sistema capitalista basato su odio e razzismo!

 

Arechi La Salvia

Studente all'università La Sapienza di Roma, militante della Frazione Internazionalista Rivoluzionaria.