Il contesto politico-istituzionale all’interno del quale si sviluppano la lotta di classe e il conflitto sociale, anche per i rivoluzionari che rivendicano di abbatterlo quale ne sia l’assetto, non è una mera formalità né un fattore neutrale nello scontro. Dunque è fondamentale criticare correttamente la democrazia borghese contemporanea e integrare in chiave transitoria rivendicazioni democratico-radicali all’interno del programma politico dei comunisti.


Introduzione

La recente approvazione della controriforma delle pensioni voluta dal governo Macron-Borne in Francia non ha solamente dato avvio a un possente ciclo di lotta di classe, ma ha anche mostrato come l’architettura istituzionale di un regime politico possa emergere come un fattore rilevante nel conflitto tra il movimento operaio e la classe dominante. Questo sembra vero in un duplice senso. Da un lato, rimane alquanto dubbio se e in quale misura il governo Macron-Borne sarebbe riuscito a far passare l’allungamento dell’età pensionabile in un sistema diverso da quello della Quinta Repubblica francese. Dall’altro, proprio la necessità per l’esecutivo di bypassare completamente la camera bassa del parlamento – stante la limitata maggioranza di cui godeva e gli scricchiolii al suo interno causati dalla pressione della piazza – ha determinato una significativa radicalizzazione del movimento di protesta a partire dalla metà di marzo (Chingo 2023). L’utilizzo del “famigerato” articolo 49.3, che consente a un progetto di legge di essere approvato definitivamente senza seguire il consueto iter parlamentare, non costituiva in alcun modo una novità assoluta per il governo Macron-Borne. Anzi, questo vi aveva già fatto ricorso ben undici volte (Global Project 2023). In questo caso però, la posta in palio era completamente diversa. L’utilizzo di una procedura prevista dall’ordinamento vigente, e quindi costituzionalmente legittima, ma dal chiaro sapore antidemocratico anche per la mera dottrina liberale, ha così prodotto un curioso cortocircuito. Proprio perché il dominio borghese ha impregnato nel corso dei decenni la classe lavoratrice con le sue parole d’ordine e l’ha portata, con poche e rare eccezioni, ad accettare come legittimo il gioco parlamentare borghese, l’improvvisa rimozione di questo manifestava come dietro la pretesa universalità del progetto della borghesia si celasse in realtà nient’altro che il proprio interesse minuto. Tale svelamento rappresenta, come sottolinea Peter Thomas (2009: 145) nel suo studio dedicato ad Antonio Gramsci, uno dei fattori che conclamano lo scoppio di una crisi organica – ovvero una crisi di egemonia della classe dirigente e delle istituzioni del suo regime.

Questi brevi accenni al caso francese ci mostrano come l’assetto istituzionale sia uno dei molti terreni dove si gioca lo scontro di classe, per quanto non sia il luogo dove la classe lavoratrice possa riportare la vittoria decisiva. La capacità di navigare tra l’incudine riformista, che mira esclusivamente ad allargare la propria influenza all’interno delle istituzioni vigenti, ed il martello massimalista, che considera inopportuno ogni intervento nel gioco parlamentare borghese, è proprio una delle difficili sfide affrontate in contesti democratico-borghesi dalla politica rivoluzionaria, specialmente in fasi non rivoluzionarie. Entrambe le “ali”, inoltre, tendono ad essere particolarmente forti in Italia, sia a causa di alcune specificità storiche sia per l’effetto di elementi più contingenti. Tra le prime troviamo certamente quello che è stato, per circa mezzo secolo, il più forte e organizzato partito comunista dell’Europa Occidentale, la cui politica tutta orientata alla conquista di una maggioranza parlamentare ha creato, da un lato, una forte eredità politica – la cui incarnazione più pura è stata a lungo Rifondazione Comunista e che ritroviamo oggi nel progetto neoriformista di Potere al Popolo (Turci 2022) – e dall’altro, un profondo rifiuto, quasi un rigetto, da parte di una buona parte della sinistra rivoluzionaria di qualsiasi serio coinvolgimento con un programma che articolasse rivendicazioni di stampo democratico-radicale. Su un piano più contingente invece, il martello massimalista è rafforzato dall’incapacità di qualsiasi organizzazione politica della sinistra marxista di avere carattere di massa, o quantomeno un reale radicamento nei luoghi di lavoro e nei quartieri. Questo “galleggiamento fluido sulla società’” disarticola la relazione tra una forza politica e le varie classi sociali, rendendo più facile per i gruppi dirigenti di piccole organizzazione assumere posizioni settarie, che possono sì favorire la coesione interna e la riproduzione del gruppo stesso, ma che lo allontanano dalla grande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori. In maniera interessante, tale dinamica non la ritroviamo solamente nei gruppuscoli che agiscono, dati i numeri che dispongono, più come collettivi che come organizzazioni politiche vere e proprie, ma anche in quelle forze che pur contando svariate centinaia di militanti sono prive di una tattica seria di ingaggio con la sfera istituzionale, come nel caso del Fronte della Gioventù Comunista (FGC), oppure rifiutano qualsiasi partecipazione alla democrazia parlamentare borghese dietro la parola d’ordine dell’astensionismo strategico, come nel caso di Lotta Comunista (LC).  

Come effetto di questo, una buona parte della sinistra rivoluzionaria in Italia non sembra disporre di una cassetta degli attrezzi sufficientemente robusta sul piano di una critica democratico-radicale alla democrazia borghese. Questa assenza suona grave per molte ragioni. In una fase di limitato avanzamento della coscienza di classe, la critica dell’esistente che non abbia carattere utopistico – ovvero che non sleghi la costruzione della società futura dalle modalità con le quali questa debba avvenire – può agganciare alcuni settori di gioventù radicale e/o in via di radicalizzazione, ma non ancora su posizioni comuniste o socialiste. Inoltre, ci troviamo, con molta probabilità, alla vigilia del tentativo da parte del governo di Giorgia Meloni di riformare in senso presidenzialista, oppure attraverso l’elezione diretta del presidente del consiglio (premierato), il sistema parlamentare italiano. Se questo scenario dovesse realmente prendere forma, si attiverebbe (quasi) certamente una campagna di protesta da parte delle opposizioni. Dati i rapporti di forza in campo, questa sarebbe dominata dall’arco borghese. Non possiamo evitare che questo avvenga. Anche perché, se riuscissimo ad egemonizzare un movimento di protesta che si concentra principalmente sull’assetto istituzionale, vorrebbe dire che la questione all’ordine del giorno sarebbe quella del potere. Detto altrimenti, saremmo già entrati in una fase alquanto diversa. Questo non è il caso, ovviamente. Abbiamo però l’esigenza di far emergere un punto di vista di classe all’interno di questa campagna, così come in qualsiasi altro confronto che riguardi l’architettura istituzionale. La premessa dalla quale partire è ovviamente una comprensione di cosa sia la democrazia borghese.

 

L’equilibrio instabile della democrazia borghese

Vi è una certa tendenza nel campo marxista a considerare la democrazia borghese come il sistema di dominio più congeniale per la classe capitalista. Tale assunzione è spesso implicita. Quando diventa esplicita, il riferimento classico è invece a un breve passaggio nel quale Vladimir Lenin (1916) la considera come la forma teoricamente normale della sovrastruttura del capitalismo. Come lo stesso Lenin precisa, tuttavia, questo non dovrebbe tradursi in una schematica corrispondenza tra specifica struttura e conseguente sovrastruttura. Sembra infatti abbastanza evidente, come testimoniato dalla storia del capitalismo, la straordinaria capacità di questo sistema di produzione di combinarsi alle più varie e diverse forme di governo: dalla democrazia borghese al fascismo, dalla teocrazia islamica alla dittatura dei militari.

Il rigetto di una prospettiva meccanicistica non significa ovviamente sostenere che l’emersione della democrazia borghese sia stato un incidente della storia. Sembra infatti pacifico assumere che senza sviluppo capitalistico  non vi sarebbe stata democrazia borghese. Eppure, l’emersione di questa non è stata tanto il parto cosciente della borghesia, quanto piuttosto il punto di caduta accidentale (nel senso di non programmato perché logicamente non programmabile) del conflitto di classe. Questo vale sia per quanto riguarda l’ascesa dei borghesi come nuova classe dominante contro la nobiltà in decadenza sia per la loro strenua difesa della posizione egemone conquistata contro la successiva pressione della classe lavoratrice. Esiste oggi un certo consenso nel dibattito accademico che assegna alla borghesia, da un punto di vista storico, un limitato carattere democratico – ovvero materialmente interessata ad istituzioni rappresentative che la includessero, ma che al tempo stesso escludessero tutte le classi non proprietarie (Przeworski 2009). Con fraseologia diversa, tutto questo riecheggia abbastanza fedelmente le posizioni che Karl Marx e Friedrich Engels sostenevano già nel Manifesto del Partito Comunista (1848), dove assegnavano alla borghesia un carattere “sommamente rivoluzionario” contro le condizioni di vita feudali, ma apertamente contro-rivoluzionario rispetto alla nuova classe emergente, il proletariato industriale. Per circa un secolo e mezzo tra la rivoluzione francese del 1789 e la fine del secondo conflitto mondiale, l’idea del suffragio di massa è stata infatti decisamente avversata dalla borghesia, che temeva quanto, con linguaggio sprezzante, descriveva come “la dittatura dei numeri”. L’allargamento dei diritti politici alle classi lavoratrici è stata quindi una conquista da parte di queste. Tale vittoria parziale ha finito per creare la democrazia borghese come la conosciamo oggi – prodotto quindi storico e contingente allo stesso tempo della lotta di classe. Questo sistema offre alcuni vantaggi alla classe dominante – ad esempio, una rappresentazione pluralistica dei propri interessi che sappiamo essere diversificati, una rapida e istituzionalizzata rotazione delle cariche di potere e una formale, per quanto ovviamente non sostanziale, pretesa di uguaglianza tra tutti i cittadini. Al tempo stesso però rimane un equilibrio instabile. Vi sono due ragioni principali al riguardo.

La prima è il paradosso individuato dall’intellettuale marxista Ralph Miliband (1969). All’interno di questa forma di governo, la borghesia deve governare per i pochi con il consenso, quantomeno passivo, dei molti. Non ci sfugge, ovviamente, come il controllo dello Stato, dei suoi apparati repressivi e ideologici, così come di vari altri tipi di risorse renda questo compito molto più agevole di quanto non possa apparire in prima battuta. Nella sua analisi dello Stato integrale, inteso come società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione, Antonio Gramsci ha svelato meglio di chiunque altro il “segreto” del dominio borghese (si veda, Turci e Giampaolo 2021). Rimane sempre viva comunque, la possibilità, come il caso francese ricordato in apertura sembra suggerire, che la discrepanza tra gli interessi delle classi possidenti e di quelle che non lo sono possa diventare evidente agli occhi delle seconde. Tale elemento, per quanto ovviamente con gradi diversi, è sempre presente e non può mai essere soppresso interamente dalla borghesia, visto che il suo dominio non ha legittimità divina, ma si fonda, come ricordano le costituzioni, sul formale primato, per quanto ovviamente non reale, del popolo. In secondo luogo, il concetto di democrazia rimane fortemente conteso. Nella sua battaglia ideologica, la borghesia è certamente riuscita ad imporre una forte sovrapposizione tra il termine “democrazia” e una specifica e parziale interpretazione di questa, che tende ovviamente ad essere massimamente funzionale al proprio dominio di classe. La democrazia viene quindi vista come un mero susseguirsi di elezioni, sovente definite come regolari, libere, a suffragio universale e ricorrenti, e come un sistema di pesi e contrappesi che definisce e limita il potere del governo eletto. La pressione a conformarsi nella direzione di una simile definizione è fortissima nelle scienze sociali e sui mezzi di comunicazione di massa. E, logicamente, in una società dominata dalla borghesia, questa interpretazione penetra, attraverso l’immenso apparato ideologico di riproduzione delle idee di cui dispone la classe dominante, anche tra le lavoratrici e i lavoratori. Accanto a questa prospettiva liberale o formale della democrazia ne convivono però anche altre. Dal nostro punto di vista, la più importante è quella che rientra sotto l’etichetta di “democrazia sociale” – ovvero, l’idea per la quale la democrazia sarebbe uno strumento per dare voce alle classi non proprietarie e per ridurre le diseguaglianze sociali ed economiche (Huber, Rueschemeyer, and Stephens 1997). In maniera interessante, le diverse interpretazioni di cosa debba essere realmente considerata una democrazia tendono ad essere, nonostante gli immensi sforzi della borghesia in questa direzione, fortemente determinati dalla classe di appartenenza. Detto altrimenti, la classe dominante non è riuscita, e probabilmente non vi riuscirà mai pienamente, ad immunizzare la propria forma di democrazia prediletta dalle aspettative e dalla pressione della classe lavoratrice. Questo crea una tensione non risolvibile tra la tendenza delle classi possidenti ad imporre una crescente torsione bonapartista alla democrazia borghese e la pressione dei subalterni ad ottenere un miglioramento, per quanto parziale, delle loro condizioni di vita attraverso ogni strumento che possa risultare utile a tale scopo. A breve affronteremo entrambi gli aspetti del problema. Prima però vogliamo rendere chiara la nostra posizione di fronte al parlamentarismo borghese.     

 

Cosa fare di fronte alla democrazia borghese

Questa rivista e la tradizione teorica che ispira il nostro lavoro editoriale rigettano la possibilità che una società socialista possa essere costruita attraverso una vittoria elettorale. La ragione è di duplice natura. Combattendo in un ambiente estremamente sfavorevole dal punto di vista dei rapporti di forza, i gruppi rivoluzionari non hanno alcuna possibilità reale di raggiungere una maggioranza della popolazione, probabilmente neanche all’interno della classe lavoratrice stessa. Tale obiettivo è perseguibile invece in una fase di estesa mobilitazione e si basa sul presupposto che le masse si muovano per “approssimazioni successive” – ovvero, scivolino verso posizioni più radicali quando il canale riformista è esaurito e i gruppi rivoluzionari riescono a vincere a sé la parte più radicale del movimento operaio sotto la spinta delle contraddizioni rese più palesi dal processo rivoluzionario stesso (Trotsky 1932: 11). In una fase non rivoluzionaria, questo non può accadere. Ciò non esclude comunque che si possa dare una maggioranza socialdemocratica in parlamento. Quando questa è organicamente legata alla classe lavoratrice ed esprime un programma di riformismo radicale può indirettamente precipitare una situazione rivoluzionaria. Questo non avviene perché il governo socialdemocratico miri realmente ad instaurare una società socialista, ma perché alcune delle misure necessarie per varare il proprio programma riformista radicale (nazionalizzazione di alcuni settori strategici dell’economia o, soprattutto nel passato, espropriazione dei latifondisti) alza l’asticella del conflitto di classe al livello della guerra aperta, causando la feroce reazione delle classi possidenti. Le forze socialdemocratiche e operaie controllano il governo, ma non gli apparati statali. In una società capitalista, questi sono e rimangono uno strumento dell’oppressione di classe, ovvero uno strumento nelle mani della borghesia contro il movimento operaio. La necessaria conclusione è un colpo di mano da parte degli apparati statali, spesso nella forma del golpe militare, al quale segue inesorabile una spietata reazione. Il caso cileno tra il 1970 e il 1973 mostra molto bene questa dinamica (Infanta 2020). Per riassumere quindi, non pensiamo che il socialismo possa essere introdotto con un decreto dall’alto e attraverso la conquista di una maggioranza rivoluzionaria in parlamento.

Alcuni gruppi ritengono tale conclusione sufficiente per poter rifiutare qualsiasi coinvolgimento con la democrazia borghese. Il ragionamento è semplice e lineare. A nostro giudizio pecca però della capacità di comprendere la natura profonda del riformismo. Questo non esiste perché espressione della forza organizzativa di specifici partiti o gruppi. Esiste, al contrario, e viene continuamente ricreato nonostante tutti i suoi tradimenti e fallimenti, perché corrisponde alla forma prevalente della coscienza di classe delle lavoratrici e dei lavoratori nella società capitalista (Choonara 2023). La grande maggioranza della classe operaia, per la specifica posizione che occupa in questa società, per la socializzazione politica e ideologica alla quale è costretta, mostra una tendenza a “naturalizzare” gli attuali rapporti di produzione e a immaginarli come gli unici possibili. Questo non significa ovviamente, come invece sostiene un filone della filosofia radicale molto in voga in alcuni ambienti di sinistra, che il dominio del capitale sia completo e la sua vittoria totale e definitiva (Han 2016). La classe lavoratrice contesta alcuni aspetti del sistema, crea strutture per auto-difendersi dallo strapotere capitalista e sviluppa una batteria di richieste per il miglioramento delle proprie condizioni sociali ed economiche. In altri termini, assorbe e rigetta quanto arriva dall’alto e crea un amalgama spurio e altamente contraddittorio di slanci solidaristici e bieco individualismo. Tutto questo si riflette in una tendenza della classe lavoratrice a combattere il capitalismo su un terreno che è prevalentemente riformista. È stato probabilmente Vladimir Lenin (1920: passim; corsivo nel testo), nella sua polemica contro l’estremismo di sinistra in seno al movimento comunista, ad analizzare al meglio tale dinamica:

Il parlamentarismo è “storicamente superato”. Ciò è esatto nel senso della propaganda. Ma ognuno sa che di qui a un superamento pratico c’è ancora molta distanza. Molti decenni fa con piena ragione si poteva già dire che il capitalismo era “storicamente superato”, ma ciò non elimina affatto la necessità di una lotta molto lunga e molto tenace sul terreno del capitalismo […]. Si tratta precisamente di non ritenere ciò che è superato per noi come superato per la classe, per le masse. […] Finché voi non siete in grado di sciogliere il Parlamento borghese e le istituzioni reazionarie di ogni tipo, voi avete l’obbligo di lavorare nel seno di tali istituzioni appunto perché là vi sono ancora degli operai ingannati […].

Il massiccio ricorso alle citazioni è probabilmente una delle peggiori derive di molti gruppi rivoluzionari. Non fosse altro perché contrasta logicamente con quello che forse è il più importante insegnamento di Lenin stesso – ovvero, la necessità di un’analisi concreta della situazione concreta (Lukács 1924). Proprio perché il capitalismo non può esistere senza rivoluzionare costantemente i propri mezzi di produzione e così facendo trasformare l’intera struttura di classe, il citazionismo, oltre a essere una sconfitta intellettuale per chi vi faccia ricorso in serie, è di fatto anti-marxista, perché uniforma sotto una sola “campana” contesti e composizioni di classe diversi. Questa rivista ha sostenuto con forza queste posizioni e ha evitato con decisione questa pratica deleteria. Se qui abbiamo indugiato su questo passaggio di uno degli scritti più importanti di Lenin è perché lo consideriamo ancora più corretto oggi di quando è stato formulato. E la ragione risiede, come detto in apertura e spesso ricordato dal marxista francese Daniel Bensaïd (2020), nel fatto che una tradizione di parlamentarismo borghese più che centenaria, come è il caso per la maggior parte dei paesi del centro imperialista, fa sì che la tendenza delle masse, perfino in fasi rivoluzionarie, a rivolgersi verso forme rappresentative non socialiste e derivanti dalla tradizione liberale sia ancora più forte oggi di quanto indicato da Lenin un secolo fa. Detto altrimenti, se non avere una tattica di ingaggio con le strutture istituzionali borghesi era scorretto nel corso del ciclo rivoluzionario 1918–1923, lo è ancora di più nella fase corrente.

Partendo da una prospettiva corretta, una parte importante della tradizione marxista, in Italia così come altrove, ha quindi codificato la partecipazione al parlamento borghese come uno strumento tattico che le forze socialiste e comuniste possono utilizzare per propagandare le proprie idee. Questo vale anche quando le possibilità reali di entrare in parlamento, data anche la presenza di leggi non proporzionali e/o con forti soglie di sbarramento, sono scarse oppure nulle. Le campagne elettorali rappresentano infatti, soprattutto in determinate circostanze, momenti nei quali si registra un interessamento alla politica di settori che spesso ne rimangono ai margini, come la classe lavoratrice. Come sempre però, i meri copia-incolla tra una posizione corretta teoricamente e la sua applicazione pratica rischiano di produrre effetti nefasti. Le forze rivoluzionarie non partecipano principalmente alle elezioni per vincere voti, ma per avere una tribuna e costruire la propria organizzazione. Dato però che questi ultimi due fattori, a differenza della percentuale di voti ottenuti, richiedono un elemento soggettivo nella valutazione, esiste sempre la possibilità per qualsiasi gruppo di rivendicare qualche successo in questa direzione, anche a fronte di una dinamica interna che rischia di indebolire piuttosto che rafforzare il gruppo. Questo accade perché le energie spese dai piccoli gruppi in tutte quelle operazioni necessarie per presentarsi alle elezioni (crescentemente burocratizzate, come ogni altra sfera dell’agire umano nel capitalismo) e per far conoscere il proprio simbolo finiscono per assorbire una quantità di energie materiali, intellettuali e logistiche che supera di gran lunga i benefici ottenuti. Tali sforzi, soprattutto a fronte di risultati elettorali modestissimi, spesso anche inferiori a qualsiasi altro tipo di lista elettorale, non importa quanto strampalata possa essere, attiva cicli di frenetica attività politica elettoralistica e successivi riflussi di profonda delusione per i risultati da prefisso telefonico. E questo è tanto più vero quanto più l’elettoralismo diventa una delle principali attività del gruppo. La trasformazione della partecipazione alle elezioni da tattica a strategia avviene spesso in maniera surrettizia. Nelle dichiarazioni formali del gruppo e nei comunicati ufficiali niente cambia. In un contesto però dove tutte le altre attività politiche del gruppo si riducono, la partecipazione alle elezioni rimane una tappa fissa, finendo quindi per mangiarsi tutto il resto, o quasi. La parabola del Partito Comunista dei Lavoratori (PCL) è esemplificativa al riguardo. In particolare, un punto parossistico è stato toccato nelle elezioni del settembre 2022, quando pur di poter essere presente sulle schede elettorali, il PCL si è candidato in una sola regione italiana – la Liguria – e in un solo ramo del parlamento – il Senato. Fatto alquanto insolito, dato che le forze comuniste hanno da sempre rivendicato, come misura democratico-radicale, l’abolizione dei rami alti dei parlamenti, ancora oggi non sempre elettivi e spesso contenenti una “qualche riserva di truppe” per il campo borghese, che nel caso italiano si manifesta in un numero variabile di senatori a vita di nomina presidenziale (fino ad un massimo di 5) e nell’automatica trasformazione degli ex presidenti della Repubblica in senatori fino alla loro morte.

Derive simili a quelle del PCL sono il prodotto, a nostro giudizio, di un adagiarsi supino ad un dibattito, quello avvenuto in seno alla Terza Internazionale rispetto alla partecipazione o meno dei comunisti ai parlamenti borghesi, che partiva da una doppia precondizione: la presenza di una fase rivoluzionaria in Europa (e la conseguente forte politicizzazione delle masse lavoratrici) e la capacità dei partiti comunisti di avere strutture organizzative di peso, in grado cioè di aggregare importanti segmenti della classe lavoratrice. L’assenza di queste due condizioni rende chiaro che un copia-incolla delle posizioni leniniste possa essere problematico. L’elemento generale rimane certamente valido, ma la sua applicazione deve essere valutata caso per caso. Allo stadio attuale, nessuna forza dell’estrema sinistra in Italia dispone delle forze e capacità per presentarsi da sola. Se questa strada fosse tentata in maniera permanente, l’effetto prodotto sarebbe quello descritto in precedenza. Si pone quindi l’esigenza di un fronte dell’estrema sinistra. Un tentativo in questa direzione era stato fatto nelle elezioni politiche del 2018 dai due partiti trotskisti numericamente più importanti in Italia: il già menzionato PCL e Sinistra Classe Rivoluzione (SCR). Elettoralmente, il risultato della lista in comune Per una Sinistra Rivoluzionaria era stato modestissimo (appena lo 0,09% su base nazionale, anche frutto, per essere onesti, della capacità della lista di essere presente solamente nella metà delle circoscrizioni). In maniera ancor più problematica, la collaborazione tra i due partiti si è bruscamente interrotta immediatamente dopo le elezioni (Mortara 2018). Non proprio una sorpresa, dati i segnali che vi erano stati nel corso della campagna elettorale, ma comunque un chiaro segno di come le due forze avessero approcciato la formazione della lista elettorale comune. Questa non dovrebbe essere il prodotto di una momentanea ed estemporanea convergenza, ma al contrario il punto culminante di una politica di fronte tra le forze dell’estrema sinistra. Tutto questo si dovrebbe materializzare in campagne comuni, che partono dal conflitto di classe propriamente inteso, ma che non devono rimanere ristrette a questo. Dato che questo articolo tratta del secondo versante, chiudiamo questo paragrafo con un esempio di cosa questo possa significare in termini concreti.           

Per quanto infatti le elezioni e la partecipazione al parlamento borghese rappresentino un momento importante d’ingaggio con le istituzioni liberali, non sono certamente l’unico. Tra i tanti altri campi possibili vi è anche, ad esempio, la campagna per l’elezione del presidente della repubblica. Come noto, questa avviene con i due rami del parlamento riuniti in seduta comune, con l’aggiunta di alcuni rappresentanti regionali. A primo acchito è difficile trovare una situazione meno favorevole per le forze rivoluzionarie. In maniera interessante però, qualsiasi cittadino con nazionalità italiana che abbia compiuto i cinquant’anni d’età e che goda dei diritti civili e politici può diventare presidente della repubblica. In altri termini, non è richiesto, come d’altronde neanche per la carica di ministro, di essere già parte delle istituzioni liberali. Questo spiega in parte come mai le forze dell’arco borghese abbiano spesso espresso simpatia verso figure non necessariamente “politiche” in senso stretto. Nel corso delle elezioni presidenziali del gennaio del 2022, che hanno visto la riconferma del presidente in carica, Sergio Mattarella, nessuna delle forze della sinistra estrema, per quanto ne sappiamo, ha fatto campagna a favore di qualcuna/o. L’unica eccezione è stata Potere al Popolo che ha inizialmente caldeggiato la figura di Paolo Maddalena, ex giudice della corte costituzionale. Il sostegno è stato poi rapidamente ritirato quando è venuto alla luce che Maddalena si era ripetutamente e violentemente espresso contro la legge 194, quella riguardante l’interruzione volontaria della gravidanza. Quanto fatto da Potere al Popolo nella circostanza è uno straordinario bignami di ciò che non si dovrebbe fare: acquisizione di parlamentari eletti in altri gruppi, partecipazione alla scelta di un candidato comune in seno al gruppo misto (come da loro dichiarato nel comunicato del 18 gennaio 2022), ed infine individuazione di un candidato espressione dello Stato borghese e quindi nemico diretto della classe lavoratrice. La cosa straordinaria è che se non fosse stato per il fatto che Maddalena si era schierato in passato contro la legge 194, cosa ovviamente gravissima ai nostri occhi, tutto il resto per le compagne e i compagni di Potere al Popolo sarebbe stato normale. A questa logica, noi gruppi dell’estrema sinistra dovevamo rispondere con l’individuazione di una figura diversa, che rispondesse a due criteri: essere espressione diretta del movimento operaio e garantire una piena indipendenza di classe. Data la grande attenzione che in quel momento godeva la vicenda GKN, una possibile soluzione sarebbe potuta essere quella di lanciare una campagna a favore della nomina a presidente della repubblica di un lavoratore di questa fabbrica (prestando ovviamente attenzione ai pochi requisiti richiesti – nazionalità, età, godimento dei diritti civili e politici). Questo non perché vi fosse la minima speranza che un lavoratore della GKN potesse assumere la guida della presidenza (cosa che inoltre ci interesserebbe anche molto relativamente), ma per cercare di centrare un duplice obiettivo: accreditarsi presso la classe lavoratrice come l’unico soggetto capace di essere espressione dei suoi interessi e costringere le forze della sinistra istituzionale a prendere posizione. Cosa avrebbero fatto Potere al Popolo e Sinistra Italiana? Avrebbero votato un candidato del campo borghese, oppure sarebbero state costrette ad accettare le nostre posizioni aderendo alla campagna? Nel primo caso, avrebbero svelato il loro carattere di forze neoriformiste (Potere al Popolo) o social liberali (Sinistra Italiana) – qualcosa che, lo ricordiamo, non può essere semplicemente dichiarato dai gruppi rivoluzionari, ma deve essere costantemente svelato. Nel secondo sarebbero collassate sulle nostre posizioni, dandoci anche e soprattutto la possibilità di avere un incontro con la loro base, che nel caso di Potere al Popolo si trova spesso a sinistra del gruppo dirigente e può essere delusa dalla crescente torsione centrista del partito. 

 

La torsione bonapartista della democrazia borghese e l’opposizione al presidenzialismo/premierato che viene

Tutti coloro che partono dal presupposto che la democrazia borghese rappresenti la “naturale” forma di governo della borghesia fanno fatica a spiegare come mai vi sia nel centro imperialista, da diversi decenni ormai, una decisa torsione in senso bonapartista (per approfondire il concetto, si veda Dal Maso 2019). In Italia, questa si è principalmente mostrata in quattro ambiti diversi: la cessione di importanti aree di decisione politica ad un livello extra-statale, spesso nelle mani di istituzioni neanche formalmente dipendenti dal voto dei cittadini, come ad esempio la maggior parte degli organi europei; il marcato rafforzamento dell’esecutivo ai danni del parlamento con il costante ricorso a strumenti che bypassano il giudizio del secondo; l’emersione della figura del presidente della repubblica come figura di garanzia per Bruxelles e Washington, capace di creare governi ad immagine e somiglianza di quanto richiesto dal grande capitale transnazionale, ultimo in ordine cronologico quello guidato dall’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi; infine, il crescente utilizzo di tecnici in dicasteri chiave e la conseguente immunizzazione delle decisioni politiche, non più viste come materia di contesa tra interessi contrapposti, ma come mera capacità di prendere “decisioni che funzionano per il paese”. Le ragioni che spiegano questa torsione bonapartista sono molteplici. Tra queste troviamo: il potere crescente del capitale finanziario e transnazionale con la conseguente pressione che questo esercita sui governi nazionali; le frizioni tra settori di classe capitalista con diversi interessi, ruoli e pesi nei mercati nazionali e globali; una lunga e perdurante fase di limitata crescita dei paesi del centro capitalista e l’esigenza di riguadagnare margini di profitto ai danni della classe lavoratrice; e la crescente competizione tra il blocco occidentale e le potenze revisioniste, Cina e Russia su tutte. 

Vi sono però anche altri due fattori, strettamente connessi tra di loro e che meritano di essere richiamati in quanto hanno carattere strutturale. Il primo è quello che potremmo chiamare il grado asimmetrico nella contesa tra le classi. La maggior parte delle correnti rivoluzionarie di estrema sinistra giudica qualsiasi misura solamente con il “termometro” del socialismo, finendo così per bollare qualsiasi riforma come insufficiente o peggio come un aperto tradimento. La critica ad ogni forma di conquista all’interno di questo sistema è sacrosanta, e di fatto è uno degli assi portanti di qualsiasi politica rivoluzionaria seria. Al tempo stesso però, le conquiste parziali hanno valore perché, soprattutto quando sono il frutto di una mobilitazione dal basso, potenziano la capacità della classe lavoratrice di lottare e, strappando qualcosa alla controparte, riequilibrano parzialmente i rapporti di forza tra i contendenti. Quanto è poco in senso socialista è comunque troppo in senso borghese. E questo avviene perché non esiste un limite ben preciso al dominio della classe capitalista. Il punto di caduta è il prodotto di un’equazione complessa, dove entrano in gioco molti fattori. Il più importante dei quali è comunque lo scontro, diretto o mediato che sia, tra le classi. Di fronte alla debolezza della controparte e pressata dalla competizione internazionale, la borghesia nazionale può cercare di riguadagnare margini di profitto attaccando qualsiasi misura. Alcune hanno carattere sostanziale, come ad esempio una dinamica che spinga al ribasso i salari. Altre sono risibili su un piano materiale, ma rappresentano battaglie ideologiche: il barbaro accanimento contro una piccola misura di tutela contro la povertà assoluta, come il reddito di cittadinanza, è una plastica testimonianza al riguardo. Il secondo fattore, come abbiamo già visto, è la costante riemersione del neoriformismo. Questo non crea una sfida diretta alla borghesia, ma può comunque essere giudicato troppo da questa. Non importa quanto Jean-Luc Mélenchon, Jeremy Corbyn, Pablo Iglesias o Alexis Tsipras siano insufficienti per noi: sono comunque inaccettabili agli occhi delle classi dirigenti. Come abbiamo analizzato in un numero precedente, alcuni elementi specifici del neoriformismo di oggi lo rendono incapace, quando giunge al potere, di mantenere fede anche alle modeste promesse fatte (Turci 2022). Questo non dipende però esclusivamente dalla natura di queste forze, ma anche dal graduale svuotamento delle istituzioni borghesi a livello nazionale, soprattutto nei paesi dell’Unione Europea, che è stato compiuto a partire dagli anni Ottanta. Tutto ciò rientra in un tentativo, mai completo e che non potrà mai essere tale proprio per tutti i fattori che questo articolo ha sottolineato, della borghesia di immunizzare completamente quello che chiama “democrazia” dalla pressione delle masse lavoratrici. In tal senso, la torsione bonapartista non è un elemento contingente, ma un fattore strutturale del capitalismo: esiste sempre. Non sempre si vede perché in fasi di relative conquiste della classe lavoratrice può sparire dall’orizzonte. Eppure questo non cessa di essere presente.

È all’interno di questa logica che si deve situare il tentativo del governo Meloni di giungere ad una riforma presidenzialista o, come al momento sembra più probabile, di premierato, ovvero di nomina diretta del presidente del consiglio. Da quanto si apprende dai quotidiani, le cosiddette opposizioni sono pronte alle barricate. La cosa è ovviamente farsesca. Non fosse altro perché la compagine è guidata da quel Partito Democratico, nato con “vocazione maggioritaria”, secondo la nota formula di Walter Veltroni, e costantemente contrario a qualsiasi legge elettorale in senso proporzionalista. Quanto la coalizione di (centro-)destra prova a portare a casa è quindi il frutto maturo di una stagione inaugurata o quantomeno coltivata da chi oggi si oppone. La probabile campagna anti-premierato verterà interamente su aspetti formalistici, indugerà all’infinito sul fallimento di una riforma simile varata in Israele a metà anni Novanta e sarà egemonizzata dagli appelli alla difesa della costituzione del 1948. Questa non rappresenta, come vorrebbe la vulgata da “popolo della sinistra”, la più bella e avanzata costituzione al mondo che chiede semplicemente di essere applicata nella sua interezza. Esprime, al contrario, da un punto di vista giuridico il dominio del capitale sulla classe lavoratrice. Quanto è importante per noi è quindi evitare ogni forma di accomodamento rispetto alle posizioni di mera difesa della costituzione come fine primo ed ultimo della campagna. Non ci sfugge ovviamente che questa posizione sarà di gran lunga maggioritaria, ma quest’ultimo aspetto non è un elemento che meccanicisticamente deriva solamente dalla specifica natura della questione. È anche il riflesso dei rapporti di forza esistenti tra le forze della sinistra estrema e tutte le altre opposizioni, chiaramente a tutto favore delle seconde. Questo non è un elemento di natura, ma qualcosa che può e deve essere sfidato. L’opposizione alla riforma in discussione è un banco di prova, perché se con ogni probabilità non determinerà un interesse diretto da parte del grosso della classe lavoratrice, potrebbe realisticamente attivare una qualche attenzione da parte di settori giovanili e di chi oggi si trova su posizioni riformiste, ma che nutre la possibilità di radicalizzarsi. Due soggetti con i quali abbiamo interesse a interloquire. Di fronte quindi alle due ali che emergeranno – pieno disinteresse per quanto succede e appiattimento sulle posizioni di un generico no al premierato e difesa acritica della costituzione – noi proponiamo di utilizzare questa occasione per articolare una serie di rivendicazioni di natura democratico-radicale e per creare un fronte della sinistra estrema attorno a queste domande. Ne presentiamo otto che non rappresentano ovviamente un pacchetto chiuso, ma una proposta aperta di discussione con tutte le organizzazioni che vorranno confrontarsi con noi a partire da quanto questo articolo ha provato a dire. Nello specifico, oltre ad un categorico no a qualsiasi riforma di stampo presidenzialista o di premierato, rivendichiamo: (a) l’abolizione del vincolo di pareggio di bilancio in costituzione; (b) il varo di leggi elettorali pienamente proporzionali e senza alcuna soglia di sbarramento ad ogni livello; (c) l’abolizione del senato, o quantomeno dei senatori a vita e del diritto per gli ex presidenti della repubblica di ricoprire tale carica; (d) l’abolizione di una figura bonapartista come quella del presidente della repubblica; (e) un salario operaio per tutti gli eletti e la piena e permanente possibilità di revoca del loro mandato; (f) l’abolizione dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle regioni, che costituiscono il modello di governo al quale il premierato si ispira; (g) l’obbligatorietà di scegliere il presidente del consiglio e i ministri tra i parlamentari eletti; ed infine (h) il diritto di voto per ogni lavoratrice e lavoratore che, qualsiasi sia la cittadinanza, si trovi in Italia al momento delle elezioni.

 

Gianni Del Panta

 

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Questo articolo fa parte del numero 6, ottobre 2023, della rivista Egemonia.

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).