Nowa Huta (in italiano ”Nuova Acciaieria”) è un quartiere situato all’estremo oriente della città di Cracovia, in Polonia. Comprende attualmente 200.000 abitanti. Costruito nel corso degli anni ’50, il quartiere di Nowa Huta fu uno dei primi grandi progetti del governo stalinista instauratosi in Polonia nel 1945 (assieme alla ricostruzione di Varsavia e all’industrializzazione del Paese). Lo scopo era quello di attrarre i contadini delle campagne per trasformarli in operai urbani e quello di presentare un prototipo di città ideale da opporre (più o meno propagandisticamente) alla vecchia Cracovia del centro, uno degli avamposti storici della borghesia nazionale. Architettonicamente fu adottato il “realismo socialista”, influenzato da elementi di neo-rinascimento e dal funzionalismo di Le Corbusier: il quartiere fu dotato di numerose aree verdi e di tutti i servizi necessari, ma non di una chiesa, ragione che nel corso degli anni ’60 (durante la cosiddetta “Battaglia delle Croci”) scatenò delle rivolte che portarono infine alla costruzione delle due attuali chiese (e a una strumentalizzazione dell’accaduto da parte della Chiesa cattolica in funzione anti-comunista).
Janusz, operaio in pensione, in un colloquio col il blogger Luca Palmarini, racconta:
Sai, c’era una certa euforia tra noi operai. Costruivamo muro su muro, credevamo in una nuova Polonia, il piano triennale stava funzionando, c’era lavoro e da mangiare per tutti. La rapidità con cui la città cresceva era impressionante anche per noi operai. Quando siamo arrivati c’erano solo campi, un convento e qualche casetta. La convivenza con i russi che ci portavano i materiali era difficile, ma non potevamo permetterci di offenderli, comandavano loro. Non è stato per niente facile, ma alla fine ci siamo riusciti! Abbiamo costruito una città dal nulla”. Molti credevano davvero nel futuro del socialismo. Zdzisław è un pensionato che abita nel quartiere Willowe di Nowa Huta. Dopo tutto questo tempo crede ancora nella Polonia Popolare: “voto sempre SLD (gli ex comunisti). Io e miei compagni abbiamo costruito con le nostre mani Nowa Huta, mattone su mattone. Qui non c’era niente. Per me resta il posto più bello del mondo. Vede signor Luca, tra i palazzi c’è un bel po’ di spazio, del gran verde. Non come ora che, quando costruiscono i condomini, lasciano 8 metri tra un edificio e l’altro, così riescono a farci stare un palazzo in più, ma sono tutti stretti come sardine. C’erano i negozi, le panetteria, la biblioteca, persino un teatro abbiamo costruito!
Non si può dar torto a Palmarini quando afferma che questi due vecchi operai gli fanno venire in mente l’eroe di Nowa Huta, Piotr Ożański, lo Stachanov locale, cui Wajda si ispirò per il film L’uomo di marmo (Człowiek z marmuru), e che rientra tra gli eroi popolari del periodo “comunista” polacco.
La toponomastica del quartiere aveva il suo fascino: Piazza Lenin e Via Karl Marx, oggi rispettivamente “declassate” a ”Piazza Reagan” e ”Via Giovanni Paolo II” – c’è persino una terza via intitolata alla ”grande statista” della borghesia e massacratrice della classe operaia Margaret Thetcher. Il passaggio da Marx a Giovanni Paolo II non sorprende se si pensa alla maestria con la quale nei delicati anni ’80 il secondo, eletto papa, abbia saputo giocare con i sentimenti religiosi e mistici dei polacchi per usarli in funzione anti-regime. (Glisso sul coinvolgimento della Chiesa nel sindacato anti-regime di Solidarność, lasciando intenzionalmente a un’altra sede il dibattito su quest’ultimo).
Ciò che conta è sapere che lo scopo di questa nuova “moderna” e “rampante” toponomastica è ricordare ai polacchi di che pasta il loro nuovo eterno presente è realmente fatto: una democrazia borghese con forti pulsioni oscurantiste e religiose dove ogni tentativo di ri-organizzare il movimento operaio su basi marxiste e ri-mettere in discussione il capitalismo sono propagandisticamente associate alla nostalgia di un passato buio da dimenticare e di cui vergognarsi, quello del regime “comunista”.
Nella piazza principale di Nowa Huta (oggi chiamata Piazza Reagan) si ergeva una statua di Lenin che, agli inizi degli anni Novanta fu abbattuta e svenduta per pochi spiccioli a un ”misterioso uomo svedese”. Prima di essere abbattuta la statua aveva subito un attentato che non riuscì tuttavia a smuoverla dalle sue fondamenta. La piazza era però anche un simbolo di coesione: era lì che il Primo Maggio e altre importanti occasioni venivano celebrate (anche i matrimoni, ”benedetti” da Lenin e dai burocrati di regime).
Attraverso qualche ricerca ho scoperto che il Lenin di Nowa Huta si trova oggi a Hillersturp, in Svezia nella regione di Småland, e fu venduta a Big Bengt, un uomo svedese fondatore del parco divertimenti Chaparral situato nella stessa zona. Dal Comune mi scrivono che la statua è stata esposta pubblicamente una sola volta, nel 2008, e che ora potrebbe essere stata venduta nel corso di un’asta. Questa informazione coincide in parte con quanto la guida turistica mi aveva raccontato: egli, infatti, sosteneva per certo che la statua si trovasse esposta nel più grande parco divertimenti della Svezia. D’altro canto però, Chaparral è totalmente sconosciuto nel resto del Paese e men che meno all’estero. Inoltre la statua, come scrivono dal Comune, non è attualmente in esposizione. Nella mia visita in Polonia ho notato che non è inusuale che le guide turistiche inventino o esagerino dei dettagli per impressionare i visitatori.
Nei depliant e nei manuali turistici attuali non è difficile trovare riferimenti a Nowa Huta come a una città grigia e “orwelliana”, un avamposto propagandistico del vecchio regime e un passato da scordare. Quando la si visita, tuttavia, ci si accorge ben presto che il quartiere, secondo Wikipedia il più verde della città, non è troppo diverso da una periferia ben tenuta di una moderna città nord-europea. Per uno sguardo piuttosto genuino sulla attuale Nowa Huta, rimando ancora all’articolo che le ha dedicato Luca Palmarini.
Questo tipo di narrazioni, esageratamente anti-comuniste, rimangono nella Polonia attuale un freno a ogni miglioramento del presente, una strategia psicologica cavalcata dalla Chiesa cattolica polacca, tra le più reazionarie d’Europa, e i maggiori partiti alla guida del Paese (tutti di destra). Si parla della ”felice fine del comunismo” per dirottare l’attenzione del triste presente di un Paese martoriato da diseguaglianze economiche (dove la quota di reddito nazionale posseduta dal 10% più ricco della popolazione è stimata attualmente a circa il 38%), violenza e intolleranza verso le minoranze (vedi quanto accaduto al pride di Białystok), totale assenza di diritti LGBT e diritto all’aborto limitato solo ai casi di stupro.
Lungi dal rivendicare la Polonia dei burocrati stalinisti, è necessario riflettere sul 21esimo secolo che per i lavoratori polacchi la Chiesa e i reazionari, col supporto dei capitalisti, hanno costruito: una Polonia ”nuova”, ma non meno buia e, anzi, per certi versi peggiore, se se pensa ai diritti delle donne che almeno erano garantiti persino sotto la cappa della burocrazia di partito e di Stato del “socialismo reale”.
Matteo Iammarrone
Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.