Pubblichiamo questa testimonianza di un nostro compagno che, da lavoratore precario, è stato prima formato e sfruttato da Amazon, si è poi ammalato ed è stato persino licenziato, tastando nel frattempo quanto il Sistema Sanitario Nazionale si sia dimostrato completamente impreparato all’emergenza COVID19, lasciando completo arbitrio “di vita e di morte” alle aziende.


In seguito ad uno dei tanti curriculum inviati online tramite agenzia o direttamente sul sito dell’azienda, lo scorso giorno di San Silvestro, venni chiamato per fare un colloquio presso la sede dell’agenzia interinale “Gi Group Roma” sulla Tuscolana. Il colloquio fissato per la mattina di capodanno era relativo alla mansione di magazziniere in Amazon per il nuovo servizio di spesa online dei generi alimentari che Amazon offre nelle grandi città. Eravamo stati chiamati in gruppi. Nel mio eravamo circa una decina. Ci fecero un paio di domande e chi sarebbe risultato idoneo sarebbe stato selezionato per i tre giorni di formazione.
Due giorni dopo mi comunicarono la mia idoneità e i dettagli sulle tre giornate di formazione che si sarebbero svolte sul finire della prima decade di gennaio. Così, l’8 gennaio iniziai la prima giornata di formazione. A sto giro eravamo circa una quarantina in totale. Il posto fu quello dove poi saremmo andati a lavorare, ovvero la zona di Portonaccio, vicino alla Stazione Tiburtina. Il primo giorno assistemmo ad una lezione sulla sicurezza in generale e nel pomeriggio un preposto di Amazon indottrinato a dovere ci spiegò i principi basilari del lavorare per Amazon. Sulla falsa riga della retorica toyotista, fondata sul lavoro di squadra e sulla meritocrazia, avrà ripetuto almeno venti volte che la regola fondamentale è lavorare in sicurezza. Si è poi ben preoccupato di voler smentire la famosa storia dei braccialetti elettronici per controllare i dipendenti. Infine, come ciliegina sulla torta non poteva non evidenziare che se c’è qualcuno ben attento al rispetto dell’ambiente quello è sicuramente Amazon. Il secondo e il terzo giorno furono meno entusiasmanti, corso di sicurezza specifica e corso di HACCP con i relativi esami.
Finiti i tre giorni di formazione l’agenzia mi richiamò avvertendomi che Amazon avrebbe iniziato a chiamarci a scaglioni di 5 ogni giovedì. Ma dopo tre settimane nessuna notizia, riprovai a richiamare l’agenzia interinale, difficile da reperire, ma nemmeno loro mi seppero dare informazioni precise. Così ormai rassegnatomi all’idea che forse non avrebbero chiamato tutti ricominciai a cercare lavoro. Ma verso la fine di febbraio ecco il colpo di scena! Gi Group mi richiamò dal nulla dicendomi che Amazon mi avrebbe assunto a partire dal 26 febbraio. E così fu. Il giorno prima firmai il contratto arrivatomi tramite il portale online dell’agenzia e il giorno dopo iniziai la mia nuova esperienza lavorativa. Il contratto era part-time, di quattro ore al giorno per cinque giorni. Il primo problema era la paga, di soli 5€ all’ora, e il primo contratto di sole due settimane con possibilità di proroga. Tutte cose specificate durante la formazione, certo, ma comunque condizioni miserabili di lavoro rimangono – come si dovrebbe sopravvivere con 400 euro al mese?
Il primo giorno fu più che altro di spiegazione. Il preposto della formazione, che tra l’altro ci disse di aver rinunciato al suo giorno di riposo per noi, ci spiegò la nostra mansione. Non fu difficile imparare. Tutto era organizzato in maniera precisa e secondo un proprio linguaggio. Noi avevamo un cartellino da passare su quasi tutte le porte che si varcavano e da timbrare ovviamente. Poi dovevamo prendere un palmare, entrare con le nostre credenziali ed entrare in fase di “pick up”.

Spiegato ciò dovevamo aspettare il briefing, una sorta di riunione molto breve in cui un preposto rispiegava alcuni principi basilari del lavoro, esaltava i buoni risultati produttivi raggiunti il giorno prima e assegnava ogni dipendente di quel turno ad una mansione specifica (nel nostro caso il “pick up”). I turni erano di quattro ore: dalle 6:00 alle 10:00, dalle 10:00 alle 14:00 (il mio), dalle 14:00 alle 18:00, dalle 18:00 alle 22:00, più eventuali straordinari nel caso qualcuno li avesse voluti fare. Con una paga così bassa, è evidente, si è portati a farli sempre, si è costretti a farli. Mi ricordo che in un briefing ci fu anche il capoarea che sottolineò, con tanto di applauso, l’ottenimento di contratti a tempo indeterminato da parte di alcuni dipendenti. Rientra tutto nella retorica meritocratica e motivazionale. Dopo una lunga gavetta anche voi potrete ottenere l’indeterminato, forse, ma intanto, nella lontana illusione di questo, sgobbate per noi padroni.
Terminato il giro, dovevi slammare i sacchetti, ovvero stampare gli adesivi Amazon e chiuderli. Anche qui al 90% delle azioni bastava seguire il palmare. Un lavoro tutto sommato ripetitivo e alienante. Una volta terminato il turno bisognava entrare in fase Eos che voleva significare terminare il proprio turno. In particolare c’erano le azioni dirette -tipo il pick up- dove dovevi utilizzare il palmare, le azioni indirette -come Eos e Kool- dove non utilizzavi il palmare. Il lavoro in sé non era faticoso, ma se ci aggiungiamo il fatto del dover essere veloci, dei contratti a breve scadenza come ricatto continuo e anche le mansioni molto ripetitive e meccaniche, è comunque un’occupazione psicologicamente stressante.
L’ultimo giorno di contratto, il 9 marzo, successe che mi ammalai. Avevo la febbre alta e la tosse, e rimasi giustamente a casa a letto. Avvisai tramite una chiamata, tra l’altro per niente comoda, il posto di lavoro, della mia assenza e chiamai l’agenzia interinale per comunicare sempre la mia assenza. L’agenzia mi disse che mi sarei dovuto rivolgere al mio medico per farmi rilasciare il certificato medico e farmi dare i giorni di malattia. Non essendo residente qua a Roma, dovetti aspettare le 20:00 per contattare la guardia medica. Nel frattempo, temendo che fosse qualcosa di più grave, chiamai il 118 per ricevere assistenza medica a domicilio e anche nell’eventualità per poter fare un tampone, dato che l’epidemia del covid-19 si era già diffusa al di fuori della Lombardia e il governo stava per mettere in quarantena tutto il paese.

Dopo innumerevoli tentavi, mi hanno messo in lista di attesa per il tampone, imponendomi l’isolamento di 15 giorni. Finalmente alle 20:00 riuscii a mettermi in contatto con la guardia medica che telefonicamente, senza nemmeno venire a visitarmi, mi diede 5 giorni e mi fece il certificato per il lavoro prognosticandomi una bronchite. Due giorni dopo, non essendo ancora venuto nessuno a farmi il tampone, richiamai il 118 e riuscito finalmente a far capire la mia situazione grave, o perlomeno potenzialmente grave, riuscii a far venire a casa due operatori del 118 che mi misurano la pressione e il respiro. Sulla base di queste misurazioni, ritennero non necessario portarmi in ospedale e nemmeno farmi il tampone, in quanto il respiro non era così affannoso quanto un possibile paziente affetto da Coronavirus. E io, conoscendo ormai le tempistiche del servizio sanitario della regione Lazio – chissà quando, in ogni caso, mi avrebbero portato in ospedale – non ho insistito oltre. I due operatori mi comunicarono anche che, una volta guarito, non avrei dovuto rispettare i 15 giorni di isolamento ma attenermi semplicemente a quelli datimi dalla guardia medica. Tuttavia, e qui sorse un’altra controversia del nostro sistema sanitario, il giorno dopo il 118 richiamò per sapere come stavo e per comunicarmi che dovevo stare in isolamento. Così, per avere più spiegazioni, provai a richiamare, ma nessuno seppe dirmi nulla di più.

Sono guarito quando stavano finendo i giorni di malattia, ma me ne sono fatti dare altri per terminare l’antibiotico, e anche lì si presentò la solita difficoltà di dover aspettare le 20:00 per chiamare una guardia medica per farmi dare altri giorni e il certificato medico per il lavoro. Nel frattempo, il 9 marzo mi avevano prolungato il contratto di lavoro di una settimana e mi avevano chiesto se ero disposto a fare orari notturni. Io accettai la proroga ma rifiutai gli orari notturni. Arrivati al 15, comunicai che il 16 avrei ripreso a lavorare.

Ma quel giorno, il preposto che si occupava di orari e turni mi consigliò di stare a casa e di rientrare il 17. Il 16 però l’agenzia mi comunicò che questa volta Amazon aveva deciso di non prorogarmi il contratto. Senza nemmeno avermi testato nel nuovo periodo, Amazon ha deciso in modo del tutto arbitrario e opaco di non prorogarmi il contratto. Forse perché non ho accettato gli orari notturni, forse perché temevano fossi positivo al Covid 19, nonostante loro non si siano mai preoccupati di fornirci guanti e mascherine: sta di fatto che ora sono nuovamente a casa, senza nessun sussidio sociale. Il governo si è riempito la bocca di proclami per cui non avrebbe lasciato indietro nessuno, ma ci sono milioni di precari e disoccupati, soprattutto giovani, in una situazione difficile di questo tipo.

 

Lorenzo De Girolamo

Nato a Rimini nel 1995. Laureato in Scienze della Formazione all'Università di Bologna. Vive e lavora come rider di Just Eat a Roma.