Il crollo di SVB, la banca della Silicon Valley, si collega a tendenze più complessive alla crisi, favorite dalle politiche restrittive della FED. Quali sono queste tendenze? Quali le ragioni dietro gli aumenti dei tassi d’interesse da parte della banca centrale USA? Si tratta di un ‘suicidio del capitale’ o un attacco ai lavoratori e alle masse povere? In questo articolo cerchiamo brevemente di rispondere.
Venerdì scorso, SVB (banca di riferimento della Silicon Valley) ha dichiarato fallimento, suscitando forti tensioni nelle borse di tutto il mondo. La ragione del collasso è stata una corsa agli sportelli da parte delle imprese hi-tech dopo che l’istituto finanziario aveva dovuto liberarsi di 2,5 miliardi di azioni per far quadrare i bilanci. I problemi di liquidità, a loro volta, erano legati a due aspetti che impediscono di ricondurre il crack a una mera gestione sconsiderata.
Il primo elemento è costituito dalla perdita di valore dei titoli di stato nelle casse della banca a fronte delle politiche sempre più restrittive da parte della Federal Reserve (FED). Esse hanno preso la forma di aumenti del tasso direttore (il tasso dei prestiti della banca centrale agli istituti finanziari), ma anche di un minore acquisto di titoli, bond del tesoro in particolare (il famoso quantitative easing, cominciato dopo la crisi del 2008 e accelerato nel periodo Covid dopo una breve battuta d’arresto negli anni immediatamente precedenti).
Il secondo aspetto ha coinciso con il calo dei profitti subito dalle aziende tecnologiche, dopo il boom sperimentato grazie alle restrizioni pandemiche. Una situazione del genere – come abbiamo documentato – ha già generato decine di migliaia di licenziamenti da parte di multinazionali come Facebook e Amazon.
Crack di SVB riflesso di tendenze alla crisi più generali.
I due fenomeni di cui abbiamo parlato sono intrecciati: la crescita esponenziale conosciuta da capitalizzazione di borsa e utili del settore hi-tech statunitense è stata infatti spinta dalla possibilità di ottenere liquidità a basso costo sui mercati finanziari, inondati dalle politiche monetarie espansive della FED. Oltre ai giganti del web, questa vera e propria bolla era trainata da una miriade di “start-up” di piccole e medie dimensioni focalizzate su progetti speculativi, come lo sviluppo di cripto-monete. A sua volta, il fallimento di SVB minaccia perciò di peggiorare la crisi del settore dei ‘bitcoin’, già afflitto da un vero e proprio tracollo nell’ultimo anno e mezzo.
A ben vedere SVB non è tra le prime 10 banche statunitensi (è solo sedicesima). Tuttavia la dipendenza dalle politiche monetarie espansive, coinvolge il complesso del sistema finanziario mondiale, USA in particolare. Il punto non è solo che i titoli governativi statunitensi rappresentano asset importanti in pancia agli istituti di credito, ma anche che i bassi tassi d’interesse hanno favorito l’esplosione del debito privato (attualmente ancora più elevato che nel 2008) e della leva finanziaria per l’acquisto di obbligazioni, titoli ecc. Il caso SVB deve dunque ricondurci a riflettere su un problema generale. Detto questo, bisogna anche sottolineare quanto sia cruciale la Silicon Valley in sè e per se nel quadro complessivo. Nel 2020 la capitalizzazione delle aziende hi-tech rappresentava quasi la metà del totale di Wall Street, con 9000 miliardi di dollari (più di tutta la capitalizzazione di borsa dei paesi europei). Un’ondata speculativa al ribasso minaccia dunque di colpire il settore, coinvolgendo anche colossi come Facebook, Google e Amazon, non direttamente interessati dal crack della ‘piccola’ banca californiana. La FED ha inoltre annunciato che continuerà la stretta monetaria per far fronte a dati sull’inflazione che rimangono elevati. In questo modo, però, oltre a destabilizzare i mercati finanziari, essa aumenta le probabilità di una recessione, quindi il pericolo di un circolo vizioso devastante per l’economia globale.
Politiche suicide da parte delle banche centrali?
A questo punto è lecito domandarsi, quali sono le ragioni delle politiche apparentemente suicide della banca centrale USA? Molti commentatori mainstream non nascondono infatti l’ ‘irrazionalità’ della traiettoria presa dal più importante istituto finanziario del mondo. Come ha scritto il Financial Times: “è come vedere un asino pazzo che si dimena in un campo rimbalzando su tutte le recinzioni”. È possibile quindi identificare almeno 3 ragioni dietro la stretta monetaria in corso.
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Da un punto di vista teorico generale, l’inflazione erode il tasso d’interesse reale (la differenza tra il tasso d’interesse nominale e il livello dei prezzi), quindi la quota di plusvalore appropriato dal capitale finanziario. Tramite tutta una serie di meccanismi che è impossibile riassumere qui, l’inflazione crea dunque forte volatilità nei mercati borsistici, in un contesto in cui essi sono estremamente vulnerabili a causa dell’enorme quantità di debito su cui poggiano e di un sempre maggiore scollamento dall’economia reale (fenomeno che – sia detto di passata – non riflette una deviazione recente dalla norma capitalistica, ma piuttosto le difficoltà intrinseche dell’accumulazione di capitale collegate alla caduta tendenziale del saggio di profitto). Aumentare politicamente i tassi d’interesse significa perciò accelerare una crisi comunque inevitabile di modo tale da renderla più controllabile, sacrificando i capitali più piccoli per consolidare quelli più grossi, prima che vengano direttamente travolti dal crack. Se è vero infatti che le Big Tech, e in generale le grandi banche, multinazionali ecc., subiranno forti scossoni, tali attori – che rappresentano le frazioni egemoni del capitale – potranno beneficiare di una crescente centralizzazione del controllo finanziario, a scapito di aziende minori, mentre a subire le conseguenze della crisi sarà la gran massa dei risparmiatori e dei lavoratori.
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L’aumento dei tassi d’interesse riduce gli investimenti e peggiora la disoccupazione, indebolendo il lavoro contro il capitale, in un contesto in cui grandi scioperi stanno coinvolgendo gli USA. Ufficialmente, le manovre della FED sono giustificate dalla necessità di evitare una spirale prezzi-salari. Se è vero che le lotte recenti hanno avuto come motivo il contrasto al carovita, quest’ultimo centra poco con la crescita delle delle retribuzioni, ma piuttosto con l’aumento dei prezzi energetici, e forse con tendenze più strutturali. Secondo l’economista marxista britannico Michael Roberts, il fattore che ha contribuito maggiormente al boom dei prezzi, è stato l’incremento dei margini da parte delle grandi imprese, un fenomeno in atto da anni come reazione alla stagnazione del saggio generale di profitto nel periodo post-crisi.
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L’aumento dei tassi d’interesse aggrava le difficoltà economiche dei paesi emergenti e in via di sviluppo, in un quadro in cui la guerra in Ucraina e le tensioni con la Cina impongono di rafforzare la dipendenza del ‘Terzo Mondo’ dai centri imperialisti occidentali. Il quantitative easing della FED (ma anche dalla BCE) aveva infatti generato un deflusso di capitali verso il ‘sud globale’, attratti da tassi d’interesse più favorevoli rispetto a quelli nei mercati finanziari del ‘nord’. La stretta recente sta accelerando un fenomeno inverso, cominciato in effetti già qualche anno fa (prima che un progressivo abbandono del quantitative easing fosse interrotto dalla pandemia) costringendo molti paesi in via di sviluppo a chiedere assistenza alle istituzioni finanziarie internazionali dominate dalla Triade (Washington, UE e Giappone).
Da quanto detto, è chiaro che il tentativo dei commentatori mainstream di individuare il punto della questione nell’opportunità di prendere o meno certe scelte da parte dei ‘tecnici’ non debba abbagliarci. La razionalità del capitalismo è quella della classe che controlla i mezzi di produzione, il capitale finanziario e – in ultima analisi – le istituzioni politiche; una razionalità in contrasto con gli interessi della stra-grande maggioranza della popolazione mondiale (e dell’ecosistema). È allora necessario rendersi conto di come crisi, lotta di classe, e imperialismo si intreccino per costruire una risposta all’altezza della sfida che il capitalismo ci pone: quella del suo superamento, a vantaggio di un sistema economico pianificato collettivamente in base ai bisogni di chi lo fa funzionare, in un rapporto armonico con la natura.
Lorenzo Lodi
Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.