In vista della mobilitazione del 26 novembre, per la giornata internazionale contro la violenza machista e di genere, crediamo sia fondamentale riconfigurare i limiti della 194 ma anche ribadire che l’aborto è un diritto e nessuno ce lo tocca! A fronte delle dichiarazioni delle Meloni, intendiamo organizzarci per rivendicare molto di più della 194 e non permettere manovre che la svuoteranno ancora di più di significato.


Per la prima volta nella storia tutte le più importanti cariche europee sono ricoperte da donne: Roberta Metsola al Parlamento Europeo insieme a Ursula Von Der Layen alla Commissione europea e a Christine Lagarde alla Bce. A queste si aggiungono altre figure tra le più importanti del potere politico europeo, come ad esempio la presidenza del consiglio in Italia a Giorgia Meloni, e a Sanna Marin in Finlandia. Tocchiamo con mano che essere donna non è affatto garanzia di stare dalla parte delle donnə, non è affatto garanzia di progresso per tutte lə altrə donnə e per la società in generale.

Questi sono tempi duri per i diritti dellə donnə, tra gli attacchi ai diritti riproduttivi e all’autodeterminazione fino alla cancellazione da parte della della Corte Suprema degli Usa del diritto all’aborto. In questo clima in cui il corpo delle altre (non certo delle potenti) diviene il terreno di battaglia istituzionale, si inserisce l’agenda politica del nostro presidente del consiglio in fatto di interruzione volontaria di gravidanza. Nella toponomastica dei dicasteri del nuovo governo a guida di Giorgia Meloni, che segna una netta predominanza della destra radicale, spunta quello che è stato rinominato Ministero della Famiglia e della Natalità, con delega alle Pari Opportunità, affidato a Eugenia Maria Roccella. La nomina di Eugenia Roccella al ministero della Natalità assume un valore politico molto chiaro, e non possiamo non considerare i suoi trascorsi come chiave di lettura per quelle che saranno anche i pericoli futuri per il diritto di autodeterminazione delle donne e delle libere soggettività.

Già durante il governo Conte, la Lega aveva creato il Ministero della Famiglia, affidato all’attuale presidente della Camera, Lorenzo Fontana, e adesso ci riprova con un nuovo ministero che esplicita, in maniera ancora più chiara ed evidente, la priorità evidenziata anche nel programma elettorale della destra, che mette al centro proprio “la natalità e la famiglia”: quella tradizionale, s’intende!

Il tema della natalità, nel nostro Paese, sicuramente ha la sua rilevanza: il tasso di fertilità in Italia è di 1,25 figli per donna, ed è uno dei numeri più bassi d’Europa. La questione politica di lungo periodo del rapporto tra generazioni (non solo in termini numerici) è difficilmente trattata dalle sinistre (anche quelle borghesi-istituzionali) e non a caso si è creato un vuoto enorme tra indifferenza politica su una delle questioni esistenziali e sociali più sentite dalla popolazione da una parte, e dall’altra la destra ha gioco facile ad appellarsi a milioni e milioni di famiglie della classe lavoratrice o comunque impoverite, ai giovani, promettendo qualche aiuto in più rispetto a quelli esistenti, tutti caratterizzati da una logica di carità poliziesca e cattolica. Una linea di (avanzi di) carota e bastone che cambia poco rispetto a quella della vecchia social card di Tremonti, del REI del PD di Renzi, del reddito di cittadinanza del M5S. Come è stato già scritto, il problema demografico va posto in diretta relazione con i problemi del mondo del lavoro, in particolare con la lotta al precariato giovanile e alle peggiori condizioni socio-economiche delle donne.

La destra, invece, sapendo di avere in questo un terreno comune con gli altri partiti ‘di governo’, spinge perché vengano sfornati a prescindere tanti figli per la patria, che in termini concreti significa abbastanza nuovi sfruttati per rimpiazzare quelli vecchi. Poco importa della vita che vivranno e come faranno i genitori a sostenere la loro crescita.

La Meloni, durante tutta la sua campagna elettorale, ma anche successivamente, ha detto molto chiaramente di non voler toccare la legge 194. Molto probabilmente sarà così, anche in visione del fatto che questa legge viene difesa dal 70% della popolazione che non vorrebbe mai vedere né compromessa né manomessa. Però la presidente Meloni ha insistito molto anche sul fatto che avrebbe voluto applicare la prima parte della legge nella sua interezza. Quindi l’idea sarebbe quella di giocare la prima parte contro la seconda, contrapporre la prevenzione contro la garanzia all’accesso all’IVG. Questo può succedere in quanto la prevenzione può essere naturalmente interpretata anche come “intromissione all’interno della legge 194” per creare ostacoli sempre maggiori alla sua applicazione. In che modo è possibile inserire tutti questi grimaldelli all’interno della legge? Si può fare finanziando in maniera generosa i movimenti prolife e no choice: misure, queste, che senza andare a toccare la lettera della legge di fatto ne snaturano lo spirito, intervenendo sul terreno amministrativo e ponendo ostacoli insormontabili. Parafrasando Bertolt Brecht, ci sono molti modi per non fare abortire una donna, ed è chiaro che il governo non esiterà ad avvalersi di tutti i modi legali possibili senza dover abrogare formalmente la 194.

Alla luce di questo, si può chiaramente affermare che la destra al governo minaccia la salute sessuale e riproduttiva.

 

I limiti della legge 194 da mettere in discussione

Per quanto riguarda l’Italia, la premessa è che già ora è difficile avere accesso a una Ivg libera, sicura e gratuita, e la legge 194 è lacunosa e inefficace. Questa legge è infatti già parziale e dovrebbe essere messa in discussione da sinistra, cioè per pretendere molto di più.

La legge è impostata in chiave emergenziale e, per quanto sul piano teorico dovrebbe garantire l’accesso all’aborto, sul piano pratico lo rende frequentemente assai complesso. Già in premessa il testo si pone come strumento per riconoscere il valore sociale della maternità e tutelare la vita umana dal suo inizio.

L’aborto è consentito e regolato entro tre mesi dal concepimento. Viene comunque paternalisticamente sottolineata la condizione di «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Si invitano anche i consultori a contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza e, nel caso non vi sia urgenza per verificato immediato pericolo per il soggetto che vuole abortire, è previsto un invito a soprassedere entro sette giorni. È questa stessa legge a prevedere l’obiezione di coscienza, pur negando l’obiezione di struttura sanitaria, nei fatti invece ben presente sul territorio.

Anche lo stigma che riguarda questa pratica della salute (sì, l’aborto è una pratica medica sanitaria che tutela la salute e il benessere della persona che lo sceglie) è ancora molto forte. L’idea generale è che abortire sia sbagliato, quella più specifica è che la persona che sceglie di interrompere una gravidanza sia sprovveduta e disinformata, e che molto probabilmente merita dolore e sofferenza come unica risposta al suo appello. Questo tipo di visione, che nasce da un progetto politico ben preciso, cade a cascata sulle nostre vite e limita inesorabilmente l’autodeterminazione sul nostro corpo.

L’aborto in Italia è silenziato. Sebbene 1 donnə su 4 nella propria vita abbia interrotto la propria gravidanza, sono pochissime quelle che lo dichiarano pubblicamente, ancora meno quelle che parlano apertamente dell’esperienza che hanno vissuto. E credetemi, ce ne sarebbero di cose interessanti da dire.

Anzitutto, è importante capire come l’esistenza di una legge non legittima in nulla quella che è l’estrinsecazione del diritto. Parliamo, in particolare, dell’accesso ai servizi, del rapporto con il personale medico e sanitario, della corretta informazione sul tema.

Basti pensare che, secondo l’ultimo report del Ministero della Salute sull’applicazione della legge 194/78, che risale al 2018, la percentuale di medici obiettori si assesta al 69%. Immaginate, dunque, che 7 medici su 10 vi negheranno quello che sulla carta è un vostro diritto. E anche quando ve lo “concederanno” (sì, purtroppo parliamo ad oggi di concessioni), non sarà certo una passeggiata di salute.

E qui torniamo a “quello che le donne non dicono”; perché quello che avviene all’interno dei Consultori e degli ospedali, in molti casi, ha a che fare con pratiche che nulla hanno a che vedere con l’accompagnamento sanitario, ma che somigliano molto di più a una sorta di flagellazione in piazza della pubblica sanità.

Il tuo aborto è una vergogna per il nostro lavoro”, “non potevi pensarci prima?”, “vedi che quando lo vorrai, poi, magari potresti non averlo”, e così via. Badate bene, non tutti i medici sono orchi cattivi e non tutti i presidi della sanità pubblica sono la Guantanamo della salute riproduttiva. Tuttavia, il silenzio che si cela dietro questi episodi, di cui sentiamo tutto il portato e la violenza, non è altro che una forma di potere e assoggettamento sul nostro corpo e sulla nostra esperienza.

I nostri aborti non hanno nulla a che vedere con l’autodeterminazione del nostro corpo, perché è in quella pratica che il nostro corpo ci viene forzatamente sottratto, non ci appartiene più. Nessuno ci spiega come avverrà il nostro aborto, nessuno ci spiega le differenze tra l’aborto farmacologico e quello chirurgico, nessuno ci permette di sentirci compartecipi di quella pratica della salute che abbiamo scelto per la nostra vita.

Da geografia degli organi, di emozioni ed esperienze, il nostro corpo diventa una bomba a orologeria, con un tempo estremamente breve per provare a capire se riceveremo la famosa “concessione”, quanti obiettori troveremo sul nostro percorso e quale sarà il primo ospedale utile a darci almeno una data. Noi non esistiamo più, i nostri dubbi non esistono più, esiste solo l’istinto di sopravvivenza, quello per cui l’unica cosa che conta è riuscire a rientrare nei tempi, poco conta se mi fanno sentire sbagliata, sola, colpevole, se il mio corpo non mi appartiene.

Se la questione è già di per sé complessa, il tema diventa un triplo carpiato a occhi chiusi su un filo a strapiombo, quando parliamo di corpi non conformi.

Le donne abortiscono”. Frase sgradevole, indigesta, ma tanto è, fino a quando non cercheranno di smantellare una legge che già di per sé è, come dicevamo, abbastanza fallata. Ma cosa succede quando diciamo: “non solo le donne abortiscono?”. Perché è proprio quello che accade. L’aborto, è più in generale tutti i temi della salute riproduttiva, non riguardano soltanto le donne, ma investono anche le soggettività trans* e le persone non binarie.

Lesa maestà. Doppio affronto, che nella nostra cultura sessuofobica, misogina e omotransfobica, significa annientamento totale del diritto a esistere.

I nuovi traguardi per provare a trasformare una bella bugia in una radicata verità, ovvero che l’aborto è una pratica di autodeterminazione dei corpi, devono assolutamente passare attraverso l’incorporazione della realtà LGBT+, secondo istanze, rivendicazioni ed esigenze.

Parliamo di un corretto uso dei pronomi, di bisogni differenti che andrebbero inseriti in precisi protocolli clinici e sanitari, centrati non solo su quello che biologia insegna, ma su quello che cultura e identità richiedono.

Parliamo di una lotta per la vita, la nostra, che non può escludere, ma che ha il dovere preciso di aprire gli argini, valicare i limiti e fare dell’eccesso alla pratica a tuttə la propria ragione d’esistere.

Solo così, forse, riusciremo a determinarci a partire dai nostri corpi, a incarnarci nei nostri desideri e soprattutto a fuoriuscire dalla violenza comune della colpa semplicemente perché abbiamo scelto una vita, la nostra.

Si respirano venti reazionari e l’avvento di questo nuovo governo ci chiama a una responsabilità che non abbiamo mai smesso di assumere su di noi, che è quella della lotta, della resistenza e dell’affermazione dei nostri diritti e delle nostre scelte riproduttive. Il nostro è un corpo politico così come politici sono i nostri aborti. Non smetteremo di abortire, lo abbiamo sempre fatto come pratica del nostro benessere e della nostra autodeterminazione e non smetteremo di farlo. Se nel mondo non c’è posto per i nostri aborti, ce lo prenderemo da solə, insiemə! 

     

                                        Ylenia Gironella 

Laureata in psicologia clinica e di comunità, con specializzazione nel metodo Montessori, educatrice, attivista di Non Una di Meno transterritoriale Marche. Vive a Recanati (MC).