L’organizzazione Internazionale sul Lavoro (agenzia delle Nazioni Unite che riunisce varie organizzazioni da 187 paesi diversi, d’ora in avanti “ILO”) la scorsa settimana ha reso pubblico un proprio report sulle conseguenze della crisi post pandemia sull’occupazione a livello mondiale. Mentre le prime cifre uscite a marzo già parlavano di venticinque milioni di disoccupati in più nel 2020, che già ponevano queste conseguenze su un piano più drammatico di quello scatenato dalla crisi economica del 2008, nella prima settimana di aprile ha rivisto le previsioni arrivando a prevedere 195 milioni di disoccupati.

Guy Ryder, direttore generale dell’ILO dal 2012, non ha utilizzato mezze misure nel descrivere la situazione a cui, stando ai dati, il mondo del lavoro sta andando incontro alla “peggiore crisi globale da dopo la seconda guerra mondiale” e che “circa 1,25 miliardi di lavoratori sono occupati nei settori identificati come ad alto rischio di incremento drastico e devastante dei licenziamenti e delle riduzioni dei salari e dell’orario di lavoro”, tra questi settori appaiono quello alberghiero e della ristorazione, l’industria manifatturiera e le vendite al dettaglio e le attività commerciali.

Tutto questo ovviamente senza tener conto del lavoro nero e del lavoro “autonomo” solo di nome, che sta già scatenando i primi visibili segni di insofferenza negli strati più poveri dei paesi, come l’Italia, dove queste forme di lavoro sono più utilizzate. Si è quindi arrivati al punto per cui il lockdown, che interessa miliardi di persone a livello globale, sta da una parte attenuando i contagi e i decessi in maniera comunque meno incisiva di quanto ci si potesse aspettare (incisività depotenziata dal continuo martellamento di tutta la borghesia sulla necessità di far “girare l’economia” e tenere aperti più servizi possibili) e dall’altra sta impoverendo già ora ampi settori sociali vulnerabili.

A fronte di questi dati persino l’ILO, che non è certo una federazione di organizzazioni rivoluzionarie, ammette che “Dobbiamo trovare delle soluzioni che aiutino tutti i segmenti della nostra società livello globale e in particolare quelli che sono maggiormente vulnerabili o meno in grado di aiutare se stessi”, tra l’altro distruggendo decenni di vulgata capitalista sul mercato che si autoregola e sull’assoluta assenza dello Stato dall’economica (vulgata capitalista che si è presentata nei fatti con la sistematica distruzione di ogni servizio pubblico a favore di servizi privati). Già, ma come si aiutano i milioni di lavoratori, lavoratrici e disoccupati che usciranno della crisi sensibilmente peggio di come ci sono entrati? Di certo nel breve medio termine gli Stati tenteranno di rientrare delle risorse investite per evitare la catastrofe come sempre hanno fatto: facendo pagare i lavoratori e la maggioranza della società in misura preponderante rispetto alla minoranza che questa crisi l’ha aggravata e ha contribuito a crearla tenendo aperte le fabbriche per il proprio profitto personale, distruggendo l’ambiente oltre a devastare ogni tipo di servizio essenziale.

Le risorse per attenuare la caduta di centinaia di milioni di lavoratori e disoccupati nel baratro della povertà più assoluta ci sono, basterebbe una vera patrimoniale per i patrimoni più alti (si parla di centinaia di miliardi di euro in un paese come l’Italia), l’azzeramento delle spese militari e il blocco dei mutui e affitti delle case di grandi proprietari e banche. Quello che manca è la volontà politica. Come si può pensare che un programma simile lo portino avanti governi che, da decenni, hanno dimostrato di voler difendere i profitti di industriali e banchieri anche quando questo significava miseria per tutto il resto della società?

Un programma simile hanno interesse a portarlo avanti solo i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo e sono loro che possono e devono combattere per la propria vita e per la vita delle generazioni future. Chi non ha mai pagato deve iniziare a pagarlo, chi ha sempre pagato non deve più farlo.

 

CM