Cosa rispondere a Bonaccini e a chi come lui ritiene che sia corretto far lavorare nei campi chi percepisce il reddito di cittadinanza?


È di qualche giorno fa la dichiarazione di Bonaccini secondo cui “chi ha il reddito di cittadinanza può lavorare nei campi, così restituisce ciò che prende”.

Quella di Bonaccini non è una voce isolata, posizioni simili erano già state espresse da Gori, sindaco di Bergamo, dalla ministra Bellanova e dalla Coldiretti.

Questo messaggio viene valutato da molti con note positive, una logica soluzione ad un problema pressante: a causa della pandemia Covid -19, infatti, in campagna manca la manodopera per la raccolta di frutta e verdura. Gli agricoltori faticano a trovare manodopera per la stagione dei raccolti essendo andati via la maggior parte dei lavoratori stranieri ed ora le aziende agricole sono in difficoltà nel trovare persone per le raccolte stagionali.

Quel comparto non si è mai fermato e ha continuato a produrre per garantire l’approvvigionamento alimentare: serve gente e serve subito; perché, quindi, non far funzionare i centri per l’impiego per trovare figure di lavoratori che vadano a svolgere questo mestiere? Perché chi prende il reddito di cittadinanza non può cominciare ad andare a lavorare nei campi in modo da restituire un po’ quello che prende?

Dopo tutto il reddito di cittadinanza non doveva essere un dispositivo per l’inserimento nel mondo del lavoro?

Il ragionamento sembra non fare una piega ma l’affermazione del presidente dell’Emilia-Romagna nasconde in realtà presupposti che dovrebbero far inorridire persino la sinistra riformista e liberal-progressista tanto affezionata alla costituzione, come lo stesso Bonaccini o il sindaco Gori.

Se, infatti, sin da subito il RdC nella sua forma attuale ha (da una prospettiva della sinistra rivoluzionaria) suscitato valutazioni molto contrarie -individuando in esso, per dirla in breve, uno strumento utile più agli imprenditori per diminuire il costo del lavoro che ad “abolire la povertà”[1]-, con la proposta di Bonaccini si farebbe un ulteriore passo in avanti, ma in una direzione fortemente reazionaria:

Di fatto, una tale proposta andrebbe non solo contro il decreto “Cura Italia” del 16 marzo, che sospende le condizionalità a cui è soggetto chi percepisce il RdC, ma si derogherebbe anche dalla natura stessa di questo “patto per il lavoro” che prevede “l’adesione ad un percorso personalizzato di accompagnamento all’ inserimento lavorativo” – questo almeno stando a ciò che si legge sul sito del Ministero del Lavoro.

Verrebbe dunque non solo messa a rischio la salute di chi viene cooptato al lavoro ma viene negato il diritto al lavoro così come espresso negli art. 4 e 36 della Costituzione sempre rivendicata dal partito di Bonaccini:

art. 4 (…) “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”

Art. 36 “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro.”

 

Sostituire lo Stato ai caporali?

Se sei povero e ricevi un sussidio dallo Stato il rispetto di questi principi diventa solo una pia illusione: per lo stato capitalista non puoi essere proprio uguale a tutti quelli che un lavoro se lo sono trovati da sé, potresti essere costretto a fare qualsiasi lavoro a qualsiasi costo.

Proprio il settore agricolo, infatti, è già da tempo oggetto di denunce per le terribili condizioni lavorative, dove il ben noto “sistema del caporalato” predilige usare i lavoratori migranti proprio per  le specifiche condizioni di vulnerabilità, andando a costituire un potenziale bacino d’offerta di lavoro sottopagato e dequalificato.

Una crescita esponenziale della componente migrante ha reso, poi, i lavoratori stranieri una componente indispensabile per la tenuta e l’esistenza stessa del settore agricolo (si stima costituiscano circa un quarto del totale della manodopera in agricoltura stando al Dossier statistico immigrazione, Idos – 2018).

Una cospicua parte di questo bacino di manodopera risulta ingaggiata irregolarmente ma anche nel caso di occupati in modo regolare (c.d. “lavoro grigio”) dove cioè il lavoratore agricolo viene formalmente assunto, nei fatti poi accade che il datore di lavoro denuncia all’Istituto Previdenziale un numero di giornate inferiore a quelle realmente svolte.
A quanto pare, Bonaccini ha ben pensato che si potrebbe rimpinguare questo bacino, momentaneamente prosciugato, utilizzando la via istituzionale per reclutare manodopera: sostituire lo Stato ai caporali.

A voler davvero ragionar bene, la conseguenza logica di una tale proposta sembra l’istituzionalizzazione dello sfruttamento, una nuova forma di servitù in cui lo Stato, per una manciata di spiccioli riscatta un essere umano dalla povertà per darlo in concessione ad un datore di lavoro che potrà farne ciò che vuole, anche farlo morire di lavoro nei campi -come è successo già troppe volte- e sollevando persino lo sfruttatore dall’onere di pagare un salario infimo e insufficiente per la sopravvivenza di un qualsiasi essere umano: Ricordiamo, infatti, che il RdC è in media di 400 euro… lo farà lo Stato al suo posto!

Nuovi servi del sussidio, vincolati ad esso e per mezzo di esso sottoposti a lavoro coattivo in completa balia del mercato, tappabuchi al giogo della legge di domanda e offerta: oggi mancano braccianti domani potrebbe essere necessaria manodopera in un altro settore, di certo sempre a condizioni di ipersfruttamento.

 

L’autodeterminazione è un lusso raramente concesso in questa società e men che mai a chi è povero!

Facendo perno sulla falsa ideologia che la povertà sia una colpa da attribuire al singolo, alla sua poca volontà, che sussidi come il reddito di cittadinanza siano un “disincentivo al lavoro” e favoriscano “condizioni di dipendenza assistenzialistica” – così si esprime il Fondo monetario internazionale nel suo rapporto sull’ Italia – vengono nascoste e ribaltate le reali responsabilità di un sistema economico che solo in Italia, dati Istat alla mano, fa contare nel 2017 ben 5 milioni di persone in povertà assoluta, 261.000 in più dell’anno precedente, di cui 1.2 milioni minorenni, segnando un nuovo record dal 2005.

Il rapporto Istat rivela, inoltre, sensibili differenze rispetto al livello di istruzione: vive in povertà assoluta il 10.2% (8.6% nel 2016) dei nuclei familiari in cui il componente col titolo di studio più elevato possiede la licenza elementare, rispetto al 3.6% delle famiglie con almeno un diplomato. Più del 10% delle famiglie e degli individui residenti nel Sud vive in povertà assoluta. Un dato analogo di povertà assoluta (10.1% nel 2017) si riscontra da nord a sud nei Comuni città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo, Catania, Cagliari), quasi raddoppiato rispetto al 5.8% del 2016.

A questi dati vanno affiancati anche quelli sulla mobilità sociale che aiutano a comprendere anche lo stigma verso la condizione in cui versa il meridione. Secondo le stime riportate nel primo rapporto annuale sulla mobilità sociale dal titolo The global social mobility report 2020. Equality, opportunity and a new economic imperative del World Economic Forum (Wef), l’Italia si rivela ultima tra i principali Paesi industrializzati, tra le cause le scarse opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani tra cui abbondano i Neet (acronimo inglese per Neither in Employment nor in Education or Training, le persone non impegnate nello studio, né nel lavoro né nella formazione, ndr), una scuola dove «manca la diversità sociale» e limitate possibilità di formazione continua.  

L’economista canadese Miles Corak ha inoltre dimostrato, nel 2013, l’esistenza di un preciso legame tra disuguaglianza e scarsa mobilità sociale: i paesi a più alta disuguaglianza, come l’Italia e gli Stati Uniti, sono anche quelli in cui si registra una minore mobilità sociale. È un dato di fatto, quindi, che le chance di una persona nella vita sono sempre più determinate dal punto di partenza, cioè dallo stato socio-economico di partenza e dal luogo di nascita.   

Per far ripartire l’ascensore sociale, il rapporto del Wef consiglia, tra le altre misure, di rafforzare la progressività delle tasse sui redditi. E poi riequilibrare le fonti di tassazione. Introdurre politiche che contrastino la concentrazione di ricchezza. Sarebbe poi necessario offrire una protezione a tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro stato occupazionale.

Come non concordare con queste misure che sembrano ora più che mai necessarie e sottolineando che in Italia, a metà del 2017, il 5% più ricco possedeva ben il 40% della ricchezza nazionale netta!

Ma siamo sicuri che quello che serva sia far ripartire un ascensore rotto e non piuttosto una propaganda funzionale all’accettazione delle disuguaglianze?

Molti scienziati sociali usano il termine “mito” per indicare la mobilità sociale ascendente perché conoscono la grande stabilità intergenerazionale che caratterizza le classi sociali (come insegnano, per esempio, le ricerche di Gregory Clark, storico inglese, che ha effettuato delle analisi sullo status socio-economico in otto paesi: Cile, Cina, Corea del Sud, Giappone, Inghilterra, India, Stati Uniti, Svezia; trovando che la mobilità sociale è ovunque più bassa di quanto comunemente creduto).

I cognomi delle famiglie dominanti secoli fa risultano ancora associati alle élite in modo statisticamente significativo, anche nei paesi più “egualitari” come la Svezia. Risultati simili sono reperibili in Italia; due economisti, Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, hanno confrontato, per esempio, i dati del catasto di Firenze del 1427 con i redditi dichiarati dai contribuenti fiorentini nel 2011, trovando che le posizioni sociali delle 807 famiglie i cui cognomi sono ancora presenti in città (sui 1885 del 1427) risultano molto simili nelle due rilevazioni. Per parlare in termini di ricchezza: i patrimoni di 2/3 dei più facoltosi miliardari del mondo sono ereditati o frutto di rendita monopolistica, ovvero risultato di rapporti clientelari.[2]

Studi recenti hanno inoltre osservato e confermato la percezione distorta che si ha di questo fenomeno con una sovrastima della mobilità sociale ascendente e la sottostima della mobilità sociale discendente da un lato e, dall’altro, evidenziato una relazione tra le credenze relative alla mobilità sociale e le tendenze alla giustificazione del sistema: pensare che esista un’elevata mobilità sociale va infatti di pari passo con la fiducia nella meritocrazia e la credenza che il mondo nel quale si vive sia un mondo giusto, in cui ciascuno ottiene ciò che merita.[3]

Ma la pandemia Covid-19 ha ormai mostrato chiaramente le contraddizioni del sistema capitalistico e, con buona pace di chi crede ancora alla favola raccontata dall’ideologia dominante dell’uguaglianza, che a tutti è concessa la possibilità di diventare ciò che si vuole e che le classi sociali siano ormai cosa vecchia, un lessico superato non più adatto a descrivere una realtà superata, l’evidenza è ben altra: la nostra società è organizzata e si regge sulla divisione in classi.

Le idee per le quali la ricchezza derivi dall’impegno e dalle capacità individuali e la povertà dalla loro mancanza, servono solo a rafforzare il sistema, a sviluppare un profondo e condiviso, quanto illusorio, desiderio di credere nella sua legittimità.

La mobilità sociale continua a essere invocata come un valore centrale delle società occidentali e proprio lì dove sono più forti le disuguaglianze sociali, come ad esempio negli USA, è perché risulta funzionale all’accettazione delle disuguaglianze, a tutti gli effetti un’arma ideologica per la difesa dei privilegi della classe borghese.[4]

Non si tratta, quindi, né di difendere dei principi astratti sanciti da una Costituzione che è il frutto di un compromesso e di rapporti di forza gestiti dall’alto né di far ripartire un ascensore rotto.

Per liberare l’uomo dal ricatto del lavoro, abolire la povertà, permettere a ciascuno di godere del proprio tempo libero e di sviluppare le proprie potenzialità, bisogna risolvere il problema alla radice: abolire una società fondata sulle classi sociali ovvero sulla ricchezza e le proprietà private di pochi e la povertà e le miserie di molti.

Non si tratta di uno slogan ma del riappropriarsi delle proprie condizioni di vita e farlo adesso prima che la scure di una nuova crisi economica peggiore di quella del 2008 si abbatta di nuovo sui lavoratori e sulle fasce più deboli della società.

Piuttosto che schiavizzare i poveri bisognerebbe erogare un reddito di quarantena di 1200 euro netti a tutti i disoccupati, ai precari e ai lavoratori autonomi, finanziandolo attraverso una patrimoniale progressiva sui grandi patrimoni; Piuttosto che obbligare al lavoro a 50 cent/l’ora, occorre ridurre l’orario di lavoro a 6 ore giornaliere a salario minimo netto di 1.500 euro, con conseguente assunzione di lavoratori necessari al mantenimento delle soglie di produzione essenziale, nonché, soprattutto alla soglia della fase 2, con la formazione di comitati sicurezza e igiene composti da lavoratori e specialisti in tutti i posti di lavoro per controllare e dirigere la ripresa dell’attività economica da un punto di vista di classe, ossia di necessario per il benessere di tutti e tutte.

Queste sono le rivendicazioni per cui battersi oggi, le rivendicazioni di una sinistra rivoluzionaria al fianco degli operai e delle operaie, degli infermieri e delle infermiere, dei disoccupati, dei lavoratori precari che già ora stanno pagando un prezzo altissimo per una pandemia causata dal sistema capitalistico e dal suo uso sfrenato delle risorse.

La povertà non è una colpa. La povertà è creata dal sistema capitalistico, necessaria al suo funzionamento.
Se vogliamo davvero abolire la povertà, aboliamo il capitalismo!

Lisa Di Pietro

Note
[1].
Per ulteriori approfondimenti, vedi i seguenti articoli già pubblicati dalla Voce delle Lotte:

_RdC: Reddito di Cittadinanza… o Ricatto del Capitale?

_Reddito di cittadinanza: una critica marxista – Parte prima

_Reddito di cittadinanza: una critica marxista – Parte seconda

[2]. Ultimo rapporto Oxfam.

[3]. Nella narrazione della mobilità sociale dell’ideologia capitalistica inoltre vengono omessi gli effetti negativi. Se si tiene conto ad esempio degli studi di P. Sorokin la mobilità sociale favorisce la superficialità, riduce l’intimità e fa aumentare l’isolamento sociopsicologico degli individui.

[4]. Un’indagine condotta nel 2015 negli Stati Uniti da Shai Davidai e Thomas Gilovich, con l’ausilio di un campione rappresentativo della popolazione, ha posto in luce l’esistenza di una diffusa sovrastima dell’entità della mobilità sociale ascendente, accompagnata da una parallela sottostima dell’entità della mobilità sociale discendente.

Nata a Napoli nel 1988, consegue la Laurea magistrale in Scienze Filosofiche presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" e la Laurea di primo livello in Pianoforte al Conservatorio di San Pietro a Majella.