Nonostante il drammatico evento del terremoto che ha fatto emergere tutta la speculazione e il malaffare del sistema clientelare della borghesia attorno a Erdoğan, la Turchia si avvia a riconfermare il “sultano”. Il blocco dell’opposizione, costituito da diverse organizzazioni raccolte attorno al nazionalismo kemalista tradizionale, sembra non poter avere la meglio su Erdoğan. Non basta mettere in rilievo il pericolo degli attacchi nazionalistici e razzisti contro i rifugiati siriani, per battere il regime di Erdoğan centrale deve essere la classe lavoratrice turca la quale, soprattutto negli ultimi due anni, subisce sulle proprie spalle inflazione, carovita e disoccupazione.
Le elezioni presidenziali turche dello scorso 14 maggio hanno confermato, seppur con un margine contenuto, la capacità del blocco attorno al presidente Erdoğan di incassare il consenso della maggioranza relativa nel paese.
Infatti, stando ai risultati ufficiali di questo primo turno delle presidenziali, il presidente uscente ha conquistato il 49,52% contro il 44,88% del suo sfidante Kılıçdaroğlu. Il resto dei voti è andato a Sinan Oğan (5%) altro candidato nazionalista che, proprio in questi giorni, ha espresso la volontà di sostenere Erdoğan al secondo turno.
Le elezioni, svoltesi in un periodo contrassegnato dalla tragedia del terremoto, con molta probabilità vedranno la conferma dell’attuale presidente che, nonostante le mobilitazioni e proteste, davanti a sé ha uno sfidante che non rappresenta alcuna alternativa valida.
Entrambi i candidati, al netto dei discorsi della stampa borghese sulla loro natura “popolare”, rappresentano un potere legato a doppio filo alla borghesia. Ciò che differenzia, tuttavia, i due candidati, sono i blocchi di potere che li sostengono.
Il terremoto e la crisi economica
Le elezioni sono andate di pari passo con l’emergenza umanitaria del terremoto dello scorso febbraio che ha colpito le zone meridionali della Turchia e settentrionali della Siria provocando migliaia di vittime e di sfollati in una regione, quella turca, contrassegnata da forti sacche di povertà (la Banca Mondiale segnala che il 30% dei poveri in Turchia risiede nelle zone terremotate) e da un’attività di speculazione edilizia supportato e appoggiato proprio dalla presidenza.
Come nel più drammatico scherzo del destino, la scalata di Erdoğan in Turchia iniziava nel 1999 proprio all’indomani del terremoto Izmit il quale, dopo la prima vittoria del 2002, diede il via a tutta una serie di riforme e leggi che permisero tutta una serie di progetti di costruzione edilizia.
Non è un caso che molti dei progetti infrastrutturali e di costruzione si siano realizzati proprio all’interno della regione dove più forte è la presenza del blocco storico attorno al presidente.
Condoni, privatizzazioni di terreni ‘strategici’ per la costruzione hanno avvantaggiato un processo di speculazione edilizia che ha portato alla costruzione di 13 milioni di costruzioni non a norma in un Paese che si trova a cavallo di tre faglie. Nel 2007 e nel 2018, il governo aveva concesso due condoni, regolarizzando circa 10 milioni di edifici non a norma che perlopiù sono crollati durante i sismi di inizio anno.
La tragedia del terremoto si inserisce all’interno di una crisi molto più profonda dell’economia turca. Infatti, stando ai dati relativi all’ultimo anno, la crescita economica, seppur segni un incremento del 5,6%, di fatto ha subito una contrazione nel 2022 di circa il 6% (nel 2021 era stata infatti dell’11,4%). Questo, secondo la Banca Mondiale, è dovuto al crollo della manifattura, degli investimenti e a un crollo verticale delle esportazioni. Proprio in termini di bilancia dei pagamenti, lo Stato turco, negli ultimi due anni, sta vivendo un periodo di crisi nera. Questo è dovuto al fatto, come abbiamo scritto anche nell’ultimo numero di Egemonia, che se da un lato il paese ha visto uno sviluppo nel settore produttivo, dall’altro è ancora altamente dipendente dagli input tecnologici occidentali. Questo, giocoforza, influisce sulla quantità delle importazioni e dunque sulla bilancia dei pagamenti, da cui una dipendenza strutturale dagli afflussi finanziari internazionali.
Questa la causa di fondo della vulnerabilità della lira turca, oltre agli aumenti dei tassi d’interesse che hanno generato crescenti fughe di capitale. Proprio nella settimana che anticipa il ballottaggio la valuta turca ha raggiunto i 20 dollari. Un record in negativo che segna il punto più basso in termini di valore.
Questo va ad influenzare due elementi cruciali come l’inflazione, che oggi ha raggiunto il 43% e ha fatto balzare i prezzi dei beni di prima necessità alle stelle.
L’incremento della povertà assoluta nel paese, soprattutto in questo periodo contrassegnato dal post-pandemia e guerra in Ucraina, è arrivato a toccare il 20%, fino a picchi del 30% proprio nelle zone terremotate (dati World Bank).
Gli effetti politici della crisi e le ‘mancette elettorali’
Gli effetti della crisi economica e sociale in Turchia si sono trasformati in un aumento generalizzato della repressione governativa, soprattutto contro gli attivisti e i giornalisti.
Tuttavia, sono da registrarsi diverse mobilitazioni da parte dei lavoratori, che più di tutti stanno subendo gli effetti della crisi. Nel gennaio del 2023 circa 400 lavoratori dell’azienda Bekaert (azienda metallurgica) hanno scioperato per un mese consecutivo per rivendicare gli aumenti dei salari proprio per far fronte alla crisi inflazionistica. Dopo una lunga lotta, i lavoratori, supportati dai sindacati, sono riusciti ad ottenere dall’azienda un aumento salariale medio dell’84,83% per una durata di sei mesi.
Nonostante il successo dei lavoratori, proprio questa mobilitazione ha spinto il governo a varare una serie di misure di emergenza con l’obiettivo di limitare le mobilitazioni che, secondo quanto riportato dallo stesso presidente, potevano rappresentare un pericolo per la stabilità nazionale.
Lo sciopero dello scorso gennaio era, tuttavia, l’ultimo capitolo di una stagione di grande mobilitazione. Infatti, gli scioperi contro l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità sono iniziati nei primi mesi del 2022. I settori più precari del mercato del lavoro, come quelli del delivery, hanno iniziato una lunga serie di mobilitazioni che hanno coinvolto un’ampia fetta di lavoratori. Anche in questo caso, l’aumento del salario dell’11% ha portato con sé una galvanizzazione di altri lavoratori del delivery. Qui un ruolo centrale è stato giocato dalle organizzazioni sindacali indipendenti come Umut-Sen che grazie alla loro mobilitazione hanno portato ad aumenti e vittorie centinaia di migliaia di lavoratori.
In questo contesto è giusto ricordare, inoltre, che la maggior parte di queste aziende sono multinazionali europee come la Yemeksepeti e Delivery Hero (entrambe delivery). Quest’ultima, come riporta l’osservatorio Balcani-Caucaso, è stata messa sotto accusa anche per le sue pratiche di lavoro in America Latina ed è stata citata in giudizio in Canada e Norvegia.
Tali mobilitazioni, seppur frenate dal dramma del terremoto e dal clima di repressione portato avanti dal governo turco, hanno di fatto spinto lo stesso Erdoğan a promettere una serie di sussidi e di aumenti salariali proprio alla vigilia delle elezioni.
Infatti, a due giorni dal primo turno di voto, il presidente ha deciso di aumentare del 45% il salario dei lavoratori impiegati nel settore pubblico, una decisione che ha interessato circa 700.000 lavoratori e lavoratrici, con un aumento dello stipendio a 700 euro mensili (15.000 lire turche).
Kılıçdaroğlu: l’oppositore razzista che piace alla sinistra italiana
Ad oggi, avendo a disposizione margini di manovra ristretti per affrontare la situazione socio-economica, i due candidati cercano di accaparrarsi i voti dei turchi attraverso la retorica nazionalista puntando il dito contro i rifugiati siriani.
Colpiti anch’essi dal dramma del terremoto e, soprattutto, da un decennio di repressione e guerra civile, i siriani sembrano essere il bersaglio preferito dei due candidati.
L’obiettivo è quello di ‘liberare’ la Turchia dal problema siriano, soprattutto in questo momento dove le tensioni regionali e i rapporti con la Siria di Bashar al-Asad sembrano essere migliorati.
Nel paese sono sempre più presenti manifesti che riportano scritte che promuovono il rimpatrio dei siriani e, in questi ultimi giorni, sono comparsi addirittura giochi e applicazioni per la simulare la cacciata degli stessi, con il giocatore che diventa autista di camion che li riporta in ‘patria’.
Protagonista della propaganda anti-siriana non è solo il presidente uscente (che con i siriani si è arricchito con i miliardi di euro europei), ma anche l’oppositore Kılıçdaroğlu che tanto piace al Partito Democratico e alla sinistra riformista italiana.
Infatti, il candidato si è contraddistinto in questi ultimi giorni di campagna elettorale per aver avuto un linguaggio molto aggressivo contro i siriani, promettendo la loro cacciata dal paese.
Inoltre, al di là del razzismo che lo contraddistingue, la sua coalizione con la quale si è presentato a queste elezioni non brilla per posizioni progressiste, considerata la presenza della formazione islamista di Saadet e il partito DEVA animato dall’ex ministro dell’economia di Erdoğan. La sfida del candidato oppositore non è opporre un programma alternativo, ma di presentarsi come una copia abbellita dello stesso presidente. Non è un caso che nessuno dei due candidati si sia fatto problemi nel cercare i voti degli ultra-nazionalisti di Sinan Oğan.
Erdoğan e Kılıçdaroğlu: due blocchi borghesi al ballottaggio
Sin da quando è salito al potere Erdoğan si è appoggiato a frazioni di borghesia che si è sviluppata sulle ceneri della grande crisi economica degli anni ‘90 e della crescente integrazione della Turchia nella globalizzazione capitalista. Si tratta di quella che molti definiscono borghesia pia, sviluppatasi a partire dalla metà degli anni ‘90, nella regione dell’Anatolia. Non si trattava della borghesia monopolistica e finanziaria, concentrata soprattutto nei grandi centri urbani e cresciuta all’ombra del capitalismo di Stato Kemalista e delle privatizzazioni, ma era quella frazione di classe borghese, in buona parte esportatrice, che stava emergendo grazie al crescente inserimento del paese nel mercato mondiale, quindi nelle catene globali del valore, in particolare tessile (secondo i dati di Turkstat, le esportazioni nel primo decennio del 2000 sono cresciute dal 5% al 15%). Le Tigri dell’Anatolia: così vengono definite le aziende legate a questa frazione borghese attorno al governo, che con gli anni hanno rappresentato una base sociale forte per Erdoğan. Già dalla metà degli anni ‘90 la borghesia anatolica si faceva sostenitrice di una nuova Turchia, proponendo una riforma politica dello stato che volgeva verso una svolta più convinta verso il liberalismo e l’economia di mercato.
Dall’altro lato, il candidato Kılıçdaroğlu è supportato da frazioni della borghesia monopolistico-finanziaria delle grandi città che ha visto nel ventennio di Erdoğan rafforzarsi attorno al suo blocco. I ripetuti incontri con i grandi gruppi bancari per favorire investimenti e ricostruire l’economia del paese attraverso misure ‘ortodosse’ che puntino a investimenti, ma anche alla revisione della spesa pubblica. Dunque una figura che farebbe comodo alla borghesia delle grandi città, che in questi anni, seppur mantenendo ben saldi i propri interessi, ha dovuto cedere quote di potere a nuovi settori capitalisti.
In più, la linea della coalizione ha un forte supporto esterno da parte del blocco imperialista occidentale, che vede nel candidato dell’opposizione un alleato più affidabile e più schiacciato su posizioni ‘occidentali’ soprattutto in relazione alla guerra in Ucraina.
Oltre il ballottaggio
Al di là dell’esito del ballottaggio, ciò che è evidente è che nessuno dei due sfidanti al ballottaggio esprime gli interessi della classe lavoratrice e della popolazione subalterna in Turchia, e non ci saranno per loro reali cambiamenti in positivo: un cambiamento radicale delle condizioni sociali ed economiche della Turchia può avere luogo solo attraverso la mobilitazione della classe lavoratrice, la sua organizzazione, una sua lotta comune con le minoranze brutalmente oppresse dal regime turco.
Lo sanno bene le borghesie europee che, nonostante le scaramucce diplomatiche, vedono ancora di buon occhio il “sultano” Erdoğan.
In questo senso, il fiorire in questo ultimo biennio di formazioni indipendenti sindacali non può che essere visto di buon occhio, tuttavia, considerando la forza repressiva a disposizione dello Stato turci, ciò non è sufficiente, soprattutto in un contesto dove la crisi economica, l’inflazione e il carovita mordono il collo della classe.
Seppur la ricostruzione post-sisma farà aumentare nel breve periodo la crescita e la produttività all’interno del paese, questa nel lungo periodo avrà effetti devastanti.
Per questo motivo, oggi più che mai la classe lavoratrice deve saldare le relazioni con tutte le componenti subalterne della società: dai siriani, ai curdi fino ad arrivare alle altre minoranze oppresse all’interno delle zone periferiche del paese. Non per partecipare al potere nel quadro di questo regime, ma per ribaltarlo e per rompere la cappa reazionaria che incatena i popoli della regione.
Mattia Giampaolo
Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.