La Frazione Internazionalista Rivoluzionaria ha tenuto la sua seconda Conferenza statale il 7 e l’8 gennaio, discutendo gli sviluppi più recenti in Italia e a livello internazionale per rilanciare una politica rivoluzionaria e internazionalista nel nostro paese. Proponiamo di seguito il documento sulla situazione nazionale approvato dalla Conferenza.

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La “cura Confindustria” draghiana nella gestione della ripresa post-emergenza Covid, l’attuazione del PNRR e lo scarico dei costi di questa operazione soprattutto sulla classe lavoratrice e sulle classi subalterne in generale ha determinato un’erosione di consenso per il governo. Ciò ha significato un’accelerazione della crisi politica nazionale, fino alla netta vittoria elettorale della coalizione di destra e all’elezione di Giorgia Meloni come prima ministra, formando un governo di destra con forti elementi reazionari e lanciato negli attacchi antipopolari, specie contro la classe lavoratrice e i movimenti sociali.


Il cambio di tappa storica segnato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sta incidendo profondamente nella politica europea, come abbiamo già illustrato. Assistiamo a fenomeni di crisi che si accumulano e si legano fra di loro, mettendo in discussione la pace sociale, anche nei paesi imperialisti relativamente “tranquilli” come l’Italia, che registra un certo ritardo rispetto ai fenomeni di mobilitazione e lotta di classe che si stanno dando nell’Europa occidentale sulla spinta, principalmente, del carovita e della crisi energetica.

Mario Draghi, uno dei massimi esponenti tecnocratici della burocrazia europea profondamente legata al capitale finanziario, ha tentato di promuovere un profilo liberal-progressista, “imperialista democratico” rispetto al quale i partiti legati alla piccola borghesia, ai ceti medi (in particolare FdI e M5S) e a settori non egemonici della borghesia (Lega, Forza Italia e alleati minori democristiani) avrebbero dovuto porsi in coda, accettando un regime bonapartista, per quanto debole e senza una sua base sociale. La contropartita sarebbe stata una politica di elargizione di benefici a pioggia a una moltitudine di parti sociali, e non soltanto al grande capitale, sulla scia della ripresa che si prevedeva con la fine della fase emergenziale della pandemia del Coronavirus. Il tutto, mantenendo al proprio posto la classe lavoratrice e le sue organizzazioni, rielaborando qualsiasi tentativo di concertazione sociale con politiche dall’alto, senza mediazioni formali significative. In questo senso, il governo Draghi (anche per la sua durata limitata) è stato l’ennesimo fallimento di Maurizio Landini (dopo tutte le manovre sin dai tempi di Renzi) nel creare un patto tra l’alta burocrazia sindacale e una figura forte a capo del governo.

La soluzione estrema dell’insediamento di Draghi veniva incontro sia alla debolezza e al carattere fortemente eterogeneo della coalizione che sosteneva il governo Conte II (M5S, PD, LeU, IV), sia alla necessità di un profilo più aderente ai progetti politici di scala europea, così come alle richieste dei capitalisti italiani, a partire da Confindustria, rispetto la quale Conte aveva pure già grandemente ceduto.

Il profilo di Draghi e i suoi grandi piani legati al PNRR si sono scontrati coi limiti di manovra economica a disposizione, così come dalle iniziative ereditate dal governo Conte II (che ha portato a casa l’accordo iniziale sul PNRR in sede europea), che comprendevano misure contraddittorie come il bonus fiscale del 110% per l’aumento dell’efficienza energetica immobiliare, sfociato in una bolla creditizia, in vere e proprie truffe diffuse, e in generale in un rialzo speculativo dei prezzi del settore che ha anticipato, se vogliamo, le speculazioni delle colossali aziende energetiche europee dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, e che ben rappresenta la “transizione ecologica” reale in regime capitalista.

Il carattere di crociata “in difesa dei valori europei”, che il conflitto ha assunto nella politica europea e italiana, ha moltiplicato la pressione politica sui partiti “periferici” rispetto a quella che si conformava come “agenda Draghi” (cioè tutta la maggioranza tolti il PD e i Italia Viva), facendo risaltare le differenze in termini di politica internazionale e ideologiche, e non soltanto su singole politiche economiche. La somma di questi fattori ha provocato la rottura della disciplina assoluta che Draghi pretendeva, prima da parte del M5S poi, visti i risultati, da parte della destra fino ad allora pienamente governista la quale, sondaggi alla mano, sapeva che poteva finalmente tornare al governo nazionale con le sue sole forze dopo 11 anni, recuperando FdI come socio di governo: un’operazione che, da possibilità, è diventata una scelta obbligata con l’eruzione di FdI nei sondaggi in primavera oltre il 20%. FdI, in questo senso, ha incassato una parte dello scontento di massa contro le multiple coalizioni centrate sul PD (e tra 2018 e 2022 sul M5S), contro la gestione della crisi pandemica e contro l’agenda Draghi. Non solo: coll’inevitabile erosione del largo consenso che aveva guadagnato la Lega tra 2019 e 2020 una volta tornata al governo come socio minore, FdI ha polarizzato molti voti già interni al bacino del vecchio centrodestra; inoltre, ha capitalizzato a partire da quel brodo ideologico nazionalista, appoggiato sul razzismo di Stato di lungo corso della Seconda Repubblica (inaugurato tanto dalla destra della Lega prima maniera quanto dal centrosinistra delle mitragliate alle navi di profughi albanesi nel 1991 e della legge Turco-Napolitano del 1998) che tutti i partiti “di governo” hanno contribuito ad alimentare. Il partito più conseguente su questi terreni ha finito per ingigantire il proprio consenso elettorale approfittando delle contraddizioni degli altri partiti, ed ha ora il problema di costruire una forza politica in grado di consolidarsi, a partire dalla formazione di un gruppo dirigente abbastanza numeroso e preparato, cosa che ancora decisamente manca a FdI, che anche per questo ha dovuto garantire forti posizioni di governo agli alleati che aveva appena sbaragliato nelle urne. Si tratta, per FdI, di evolvere da una forza “post-fascista” marginale a un vero e proprio partito di destra con radicamento su scala statale, nazionalista, con tratti reazionari evidenti, collegato alle destre “trumpiane” internazionali.

Questa situazione in divenire di FdI è il fattore con più peso per caratterizzare la coalizione di governo. Recuperando almeno in parte gli schemi ideologici dei vecchi blocchi centrodestra-centrosinistra, le forze politiche e i mezzi di comunicazioni ostili al governo hanno tutto l’interesse a caratterizzare il governo come fascista o comunque gestito da fascisti. Mentre è chiaro il retroterra ideologico da cui provengono i dirigenti di FdI, la loro politica concreta, e quella del governo, così come il processo che li ha portati al potere, è ben differente dal contesto in cui il fascismo propriamente detto è potuto emergere come forza politica decisiva (uscendo dalla fase di setta marginale) e imporre un regime politico e sociale qualitativamente diverso da quello liberal-democratico, per quanto sempre nel quadro della società della borghesia e della dittatura della borghesia. In particolare, la destra salita al governo non ha dovuto farsi strada mobilitando le riserve della società civile borghese in senso reazionario per scontrarsi militarmente col movimento operaio: questa è una caratteristica fondamentale, collegata alle misure di riorganizzazione della società in senso corporativo, che caratterizza il fascismo, e attualmente non c’è la necessità storica di arrivare a tanto, specie perché l’apparato delle forze armate e di polizia è ancora integro, funzionante e sotto il controllo della borghesia tramite lo Stato, e può esercitare un’opera di repressione “ordinaria”, per quanto con punte via via più acute mano a mano che prosegue l’opera di controriforme, e si sviluppano forme concentrate e radicali di conflitto sociale.

Inoltre, esagerare il pericolo eversivo rappresentato dal nuovo esecutivo spinge l’asse dell’opposizione al governo sul profilo social-liberista del centrosinistra, che può essere ripreso strumentalmente anche da altri attori politici e sociali per piazzare colpi “facili” contro Giorgia Meloni e i suoi: una politica inerziale che ha avuto il suo picco con le elezioni del 2006 e la loro polarizzazione politica del tutto virtuale, e che oggi può contare molto di meno su un’adesione di massa all’ideologia dell’antifascismo democratico, che si scontra da decenni con le politiche del centrosinistra dettate da banchieri e industriali.

Dunque, se è scorretto caratterizzare FdI o tanto più il governo come fascisti, è da rigettare (al netto delle semplificazioni giornalistiche che stabiliscono un parallelo col governo del 2008-2011) la definizione di centro-destra, dove il primo elemento sia equivalente al secondo, e dove si sottovaluti i caratteri di destra estrema che in questi hanno presentato sia la Lega sia FdI. La componente centrista attuale è numericamente minoritaria e, per quanto l’influenza “centrista” liberale esista, questa si esercita perlopiù come pressione esterna di altri “poteri forti” – come la Chiesa, la burocrazia UE, gli USA e la NATO.

Capire gli elementi di continuità e discontinuità dell’esecutivo Meloni rispetto al governo precedente è quindi fondamentale per pensare alla lotta politica contro di esso. Da un lato, essendo un partito emerso dalla riconfigurazione della destra, nato appena dieci anni fa e cresciuto esponenzialmente sul versante elettorale negli ultimi 2/3 anni, Fratelli d’Italia non è la pura espressione di nessuno dei settori rilevanti della classe capitalista italiana. Al contrario, il suo principale referente sociale è un pulviscolo di mezze classi composto da albergatori, ristoratori, balneari, tassisti, proprietari di piccole attività, commercianti e alcuni settori di classi medie professionali. La manovra economica in via d’approvazione si rivolge politicamente a questi settori

Il fatto che Meloni non sia riuscita a reclutare diversi esponenti notevoli dei “tecnici” come ministri testimonia l’incertezza della burocrazia di Stato italiana ed europea, oltre che del grande capitale, della possibile stabilizzazione di questo governo e della sua durata lungo tutta la legislatura: non si vuole “investire troppo” su questo governo, che è oggettivamente eccentrico rispetto al consenso tradizionale UE. Il punto è, infatti, quanto si riuscirà a imporre al governo Meloni di essere “in continuità” con l’assetto politico che Draghi tentava di instaurare in una visione quanto meno di medio periodo. Si può dire che finora le differenze più marcate si consumano sul piano ideologico attorno ai temi identitari di questa variante italiana della nuova destra “trumpiana”: posizioni reazionarie clericali, lotta alla “teoria del gender” e in generale alla comunità lgbt+, discorsi che legano concetti “patriottici” a un modello “tradizionale” di famiglia patriarcale, collegato al rilancio della natalità (per ora senza misure economiche conseguenti agli obiettivi da campagna elettorale).

Non ci sono attualmente segnali seri di possibili rotture rispetto al profilo generale del precedente governo, anche in relazione alle minori fratture interne alla classe dominante rispetto al periodo del governo Lega-5Stelle, in cui l’austerità e la ristrutturazione dell’industria europea a vantaggio della borghesia tedesca rendevano scontenti settori non irrilevanti del grande capitale italiano. Ve tenuto in conto, però, che Meloni raccoglie settori storicamente “scettici” o comunque meno centrali rispetto al cuore dell’imperialismo italiano e della linea ufficiale recente sia dell’UE sia della NATO: una pressione centrifuga latente sulla quale, insieme agli sviluppi della lotta di classe, si gioca l’effettiva stabilità del governo lungo questa legislatura.

Mentre la destra al potere può contare su una opposizione di centrosinistra che non rappresenta un’alternativa netta e complessiva al suo programma e al suo profilo politico (a partire dalla questione della guerra e del riarmo imperialista), la difficile congiuntura economica e sociale lo mette alla prova sin da subito. Questa è, d’altronde, la contropartita di aver voluto salire al governo prima del termine naturale della legislatura, in un periodo in cui la congiuntura economica non è ancora favorevole ad una attività di governo che non consumi rapidamente il proprio consenso sociale, dinamica che è diventata una costante della politica italiana, approfondendo diversi tratti da crisi organica già presenti da tempo, come indicavamo tre anni fa nel nostro I Congresso.

In particolare, la necessità di seguire alcune della parole d’ordine centrali della campagna elettorale, di continuare la “cura Confindustria” della guerra ai poveri e al movimento operaio, e di rispettare il perimetro economico ristretto del PNRR (in una tappa di aumento della spesa militare!), hanno portato il governo ad attaccare immediatamente il RdC proponendone l’eliminazione nell’arco di un anno, senza annunciare misure alternative significative. Ciò alza oggettivamente il livello dello scontro di classe in Italia, e aumenta la probabilità di un salto del conflitto sociale nel prossimo anno, a partire dagli strati bassi della classe lavoratrice. Mentre il sindacalismo di base e le sinistre radicali sono tuttora marginali in questo scenario, e le varie ali riformiste governiste non trovano ancora una via d’uscita espansiva alla propria crisi, è evidente che nuovi settori giovani o attualmente passivi della classe operaia e della popolazione povera si attiveranno e si radicalizzeranno, con dei numeri che non possiamo prevedere in questo momento. Ma è certo che dovranno darsi nuove forme di organizzazione, oppure confluire in quelle già esistenti: quelle più “di base” e “radicali” o, perlopiù, le grandi centrali sindacali burocratizzate, a partire dalla CGIL. Proprio la CGIL rimane la variante più importante dello sviluppo della lotta di classe nel prossimo anno: la sua capacità reale (per quanto in via di erosione) di colpire profondamente il governo e i padroni, incomparabile con quella delle altre organizzazioni (specie quando riesce a coordinarsi almeno con la UIL), e contemporaneamente di frenare e normalizzare ondate di conflitto, sarà un fattore determinante degli eventi del prossimo anno.

È rispetto a questo scenario che dovrà confrontarsi anche la possibile continuazione del percorso di GKN-Insorgiamo, non solo e non tanto riguardo la questione in sé del futuro della fabbrica, o della continuità del percorso “di movimento” che in realtà sostanzialmente non è mai evoluto, ma riguardo il bilancio e la possibile evoluzione politica a sinistra a partire dalle lezioni strategiche di questo percorso, che è stato centrale per oltre un anno nella dinamica complessiva di ripresa dell’opposizione sociale.

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.