Per quanto ancora potremo far finta che all’Interporto di Bologna, come in decine di migliaia di stabilimenti in Italia, ai padroni interessi realmente della salute di chi lavora? La testimonianza di un lavoratore sulla mancata protezione dei dipendenti ai tempi del COVID-19.
Non è certo una novità che le aziende concorrano tra loro, e che questa corsa spietata e senza pause metta a rischio la salute dei lavoratori; ne è un caso lampante quanto accaduto all’interporto di Bologna: un lavoratore che ha accettato di raccontarci la situazione per come la vive in prima persona, ha descritto chiaramente una situazione grave per i lavoratori impiegati lì.
Ha lavorato da gennaio ad aprile impiegando agenti chimici cancerogeni, quali vernici e diluenti in assenza di ventole per il ricambio d’aria. Questa è una chiara violazione normativa della sicurezza sul lavoro ed un attacco ai diritti di tutti i lavoratori. È tristemente noto come questo tipo di comportamenti da parte delle aziende, in passato, abbia già portato a patologie gravi come asma, cancro, bronchite, allergia.
Nello stesso periodo, l’impianto industriale avrebbe dovuto chiudere in rispetto alle indicazioni emesse dal governo per gestire la pandemia e preservare la salute dei lavoratori, ma a quanto pare il direttore, in accordo col prefetto di Bologna, ha preferito aggirare l’ordinanza e obbligare i dipendenti a proseguire con l’attività lavorativa, ma non solo: non è nemmeno stato rispettato il distanziamento professionale tra lavoratori, dato che le attività in questione spesso si trattavano di mansioni non eseguibili individualmente, come la sezione officina, ma anche la squadra mobile, ad esempio, pur non essendo strettamente necessaria alla funzionalità dell’impianto tutto, è stata in ogni caso tenuta attiva. Veniva poi consigliato l’uso continuato delle stesse mascherine per vari giorni consecutivi (nonostante sotto richiesta non venisse negato il ricambio), malgrado le normative precisassero chiaramente ed obbligatoriamente la necessità da parte dell’azienda responsabile di dispensare una mascherina nuova ogni turno di lavoro per preservare l’efficienza dei dispositivi di protezione individuale.
Al netto di tutto, quindi, risulterebbe palese come il non aver chiuso l’interporto durante quei mesi di necessaria quarantena sia stata una decisione noncurante della salute dei dipendenti e irrispettosa verso coloro che, realmente, tutti i giorni, producono il reale valore delle aziende che, dell’interporto, usano i servizi fondamentali per lo spostamento di merci. Posta, poi, la questione sanitaria, è necessario fare tutta una serie di ulteriori specifiche sulle pratiche ai limiti della legalità (quando non in totale violazione di essa) commessi dai gestori dell’interporto, a cominciare dagli orari di lavoro stabiliti da contratto, i quali non venivano mai rispettati (laddove, ad esempio, si parlava di inizio turno alle otto e un quarto, e fine turno alle quattro e tre quarti, si riscontrava poi uno slittamento a ritroso con inizio reale dell’orario lavorativo alle sette e termine alle sedici, con una mezz’ora quasi sempre di straordinari ordinarizzati). Se uno volesse, poi, giustamente, indagare più a fondo, fioccano segnalazioni di riparazione di vagoni ferroviari danneggiati, con revisioni segnalate ad un anno prima. Strano, quando si considera che la revisione è ogni 6 anni, ed i vagoni, come dimostrato dai lavoratori stessi, non mostrano quasi mai segni di cedimento prima di 5 anni. In sostanza, oltre al lavoratore, per queste scelte scellerate si trova a rischio anche chi usufruisce del servizio ferroviario.
Per concludere, dunque, se non bastasse sottolineare la questione della ventola non funzionante in presenza di composti chimici cancerogeni (un fatto davvero inaccettabile sotto ogni standard, ma una realtà purtroppo ormai eccessivamente normalizzata in questo e migliaia di altri stabilimenti in Italia e nel mondo), forse alla luce di tutte queste segnalazioni sarebbe ora di andare veramente a scavare nella situazione viscida dell’interporto bolognese, una situazione che i lavoratori da anni ormai lamentano e che i padroni, sempre da anni, continuano ad ignorare, sacrificando il benestare di chi tutti i giorni si alza per permettere alla propria famiglia di sopravvivere in un’economia spietata, sull’altare di quella stessa economia capitalistica, che non ha mai avuto a cuore il benestare di nessuno, ma solo della costante accumulazione di profitti.
Andrea Selmi
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