Lo sviluppo tecnologico e dell’intelligenza artificiale ci portano verso la “fine del lavoro”? Quali conseguenze politiche ha il dibattito teorico odierno su questi temi? Proponiamo alcune chiavi di lettura a partire dalla lettura “Rivoluzione Globotica” di Richard Baldwin e “Schiavi del Clic” di Roberto Casilli.


Negli ultimi anni, il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale (AI – artificial intelligence) e della digital economy ha imposto al dibattito pubblico il tema della “fine del lavoro”; una preoccupazione che torna ciclicamente fin degli albori del capitalismo industriale, ma che nel contesto della “seconda età della macchina” – o della “quarta rivoluzione industriale” [1] – promette di trasformarsi in una realtà concreta. L’argomento appare particolarmente attuale, oggi, in un momento in cui la pandemia di Sars-Covid 19 ha dato ulteriore slancio ai processi di centralizzazione del capitale nelle mani delle “Big Tech”, anche se, a ben guardare, i vari lockdown messi in campo nei mesi scorsi hanno mostrato quanto la società contemporanea si regga ancora sul lavoro di centinaia di milioni di individui. Mai come nel marzo scorso è sembrato vero il seguente monito di Marx in una lettera a Kugelman:

sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa” [2].

Detto questo, basterebbe la grancassa mediatica ed accademica sulle implicazioni delle nuove tecnologie per rendersi conto di quanto valga la pena affrontare seriamente il problema. A tale scopo, cercheremo alcune chiavi di lettura nelle pagine di due libri usciti negli ultimi mesi: “Rivoluzione Globotica” di Richard Baldwin (ed. Il Mulino, Bologna, 2020) e “Schiavi del Clic” di Roberto Casilli (Feltrinelli, Milano, 2020), del quale sarebbe stato in realtà più suggestivo tradurre letteralmente il titolo in francese: “Aspettando i Robot” (En Attendant les Robots, Seuil, Paris, 2019).

 

Richard Baldwin vs Roberto Casilli: “AI”, sostituzione o degradazion del lavoro?

Il primo testo – opera di un celebre esperto di economia internazionale, ed allievo dell’economista keynesiano Paul Krugman – evidenzia come l’AI sia ormai in grado di rimpiazzare tutta una serie di mansioni tipicamente terziarie, risparmiate dall’ondata di automazione dei decenni scorsi. Le tecniche di “machine learning”, infatti, avrebbero portato al superamento del famoso “paradosso di Moravec”, secondo cui sarebbe più facile automatizzare operazioni umane complesse – come il calcolo matematico – rispetto ad attività apparentemente banali, come riconoscere un volto, guidare, tradurre un testo ecc. In sinergia con le piattaforme digitali, inoltre, l’intelligenza artificiale contribuirebbe a “sostituire” i lavoratori dei paesi occidentali con quelli del terzo mondo anche nell’ambito delle professioni impiegatizie e “liberali”, prima d’ora rimaste più o meno immuni all’aumento della concorrenza internazionale dettato dalla globalizzazione: centrali, in questo solco, gli algoritmi di traduzione automatica, i quali permetterebbero a milioni di laureati asiatici, latinoamericani e africani di superare quelle barriere linguistiche che ancora spingono i datori di lavoro europei e nordamericani a preferire ingegneri, avvocati, informatici ecc. nazionali, nonostante le maggiori pretese economiche. I dati che Baldwin prende per buoni sono quelli dell’istituto McKinsey, secondo cui nei prossimi anni scompariranno attorno al 40% delle tipologie di lavoro. Tuttavia, la sua visione è nel lungo periodo ottimistica: le nuove tecnologie incrementeranno la ricchezza complessiva, riducendo i costi e aumentando la produttività, mentre i crescenti bisogni determinati dallo sviluppo creeranno tutta una serie di lavori in quelle mansioni ad alto contenuto “relazionale” e di “decision making” a cui l’AI non potrà subentrare. L’economista non sottovaluta però l’entità della “crisi di adattamento” e paventa la possibilità che gli operai sostituiti dai robot si uniscano agli impiegati rimpiazzati dall’AI e ai settori di professionisti impoveriti, contro le élite che stanno beneficiando delle trasformazioni in atto; una dinamica reazionaria che Baldwin già intravede nel recente successo delle forze populiste di destra. Tutto starà dunque nella capacità dei governi di implementare e generalizzare politiche di “flessicurezza” (flexsicurity) sul modello danese e favorire la formazione permanente della forza lavoro.

Diverso il punto di vista complessivo di Casilli, il quale comincia discutendo le debolezze empiriche dei report sulla scomparsa di milioni di posti di lavoro – secondo i suoi calcoli verranno eliminati attorno al 9% delle mansioni – e denuncia le ipotesi più catastrofiste come strumento ideologico per aumentare la percezione di ricattabilità dei lavoratori. Il perno della sua argomentazione è però un’osservazione solo apparentemente banale: il più recente paradigma dell’automazione si basa sull’enorme mole di lavoro necessaria ad addestrare gli algoritmi, la cui efficacia poggia sulla capacità di produrre generalizzazioni statistiche a partire dall’esperienza umana. Inoltre, se per Baldwin – l’abbiamo visto – l’AI favorisce l’espansione delle piattaforme digitali globalizzate, per l’autore italo-francese queste ultime sono invece un freno all’intelligenza artificiale, permettendo di delegare a milioni di lavoratori a basso costo operazioni che potrebbero essere altrimenti automatizzate. Non solo, dunque, il “machine learning” è nutrito con dati frutto del lavoro umano – molte volte prodotti da veri e propri operai pagati a click, collocati nel sud-est asiatico, Romania, Medio-Oriente ecc. – ma alcune soluzioni “tecnologiche” si basano completamente sull’attività umana, magari nascosta dietro il logo sfavillante di un’applicazione, come Amazon Mechanical Turk, ove è possibile assumere a cottimo milioni di proletari digitali, disposti per pochi spiccioli a svolgere micro-operazioni che permettono di risparmiare sullo sviluppo di procedure automatiche. Nodale nella riflessione di Casilli attorno all’AI e al digital labor è dunque la crescente degradazione e subordinazione del lavoro, più che la sua sparizione. Nonostante la struttura a rete delle piattaforme suggerisca democraticità e orizzontalità, in realtà, esse agiscono come “vettori” iper-centralizzati che mediano tra i consumatori e una rete dispersa di “collaboratori” riuscendo così a frammentare e rendere sempre più semplici e routinarie tutta una serie di mansioni. Si pensi al caso del già citato Amazon Mechanical Turk, grazie al quale, ad esempio, un’azienda può far scrivere poche righe di codice ciascuno a centinaia di “turker”, riducendo all’osso il numero di ingegneri che si occupano dello sviluppo. Inoltre, sottolinea il sociologo, la digital economy si regge su rapporti contrattuali che replicano modelli diffusi agli albori del capitalismo – lavoro a domicilio, lavoro solo formalmente autonomo e a cottimo – ma vanno di pari passo con forme di discipline estremamente moderne, come quella ferrea agli algoritmi subita dalla figura ormai emblematica del ciclofattorino.

 

Digital labour”, valore e sfruttamento. L’attualità dell’analisi di Marx

Come emerge dal nostro breve riassunto, gli echi dell’analisi di Marx sono importanti nello studio di Casilli, il quale tuttavia si distanzia dal marxismo per aspetti fondamentali e include nella categoria di “Digital Labour”, non solo i nuovi operai digitali, ma tutti gli utenti online, in quanto produttori di dati e contenuti che vengono sfruttati dalle piattaforme come lavoro gratuito. Lungi dalla scomparsa del lavoro, le nuove tecnologie segnerebbero quindi il compiuto assorbimento della sfera del consumo in quella della produzione. Anzi, la prima assumerebbe un posto particolarmente rilevante, nella misura in cui il valore non consisterebbe più nella capacità di standardizzare il lavoro tipicamente fordista (“nel trasformare la qualità in quantità”), ma nella produzione di conoscenza in generale, un tema ripreso dalla tradizione post-operaista. Così la teoria del valore-lavoro di Marx perderebbe di significato, nella misura in cui entra in crisi l’impresa come organizzazione volta a ridurre i costi eliminando la necessità di negoziare costantemente il prezzo della manodopera, tramite relazioni contrattuali e gerarchie interne stabili. In questo senso, allora, il valore non sta più nella capacità di irregimentare direttamente il lavoro, ma in quei processi informatizzati reticolari che permettono di esternalizzarlo e in tutte quelle attività di creazione di dati e contenuti – come scrivere un post su Facebook, effettuare una ricerca su Google, ordinare su Just Eat ecc. – del cui valore si appropriano le piattaforme. La definizione del valore fornita dal sociologo oscilla dunque tra un circolo vizioso – il valore sono quei processi che aumentano i profitti – e una piatta tautologia – il valore è il valore del lavoro.

Se allora è chiaro come il lavoro concreto degli utenti contribuisca a creare il valore d’uso degli algoritmi, dei servizi e degli “ads” targettizzati ai quali fornisce i dati, non lo è in che modo esso ne determini il valore di scambio. Per rispondere a questa domanda l’analisi marxiana rimane valida e attuale: il lavoro che crea valore di scambio non è un particolare tipo di lavoro utile, ma quello inserito in specifici rapporti di produzione di merci. Si tratta insomma di lavoro astratto, tempo di lavoro socialmente necessario a cui gli agenti economici privati devono adeguare la propria produzione per poter partecipare alla distribuzione della ricchezza sociale tramite lo scambio monetario (il denaro è lavoro astratto nella sua forma universale oggettiva) [3]. Un discorso del genere sembra avere poche implicazioni pratiche, ma a ben guardare – pur essendo innegabile che l’attività ludica e di consumo online sia condizionata dal sistema di incentivi delle piattaforme – è difficile sostenere che il lavoro di selezione delle pietanze di un cliente Deliveroo sia subordinato alla legge del tempo di lavoro socialmente necessario, come quello di un ciclo-fattorino. In realtà, ciò che quest’ultimo scambia sul mercato non è il suo lavoro, ma la sua forza lavoro, costretto a venderla contro un salario (seppure a cottimo) non disponendo dei mezzi di produzione; categoria nella quale giustamente Casilli include i mezzi di comunicazione e gli algoritmi, anche se non ne trae le estreme conseguenze. È infatti solo in virtù di questo rapporto di dipendenza che il capitale – poco importa se impersonato dalle piattaforme – riesce a imporre al lavoro la legge del valore; ma soprattutto ad estrarre un plusvalore, la differenza tra il valore della forza-lavoro e quello dei beni necessari per reintegrarla incorporato nel salario [4].

Ciò che definisce la funzione dell’impresa, non è dunque la riduzione dei costi in astratto, ma l’aumento del plusvalore che avviene – storicamente – perfezionando la separazione dell’operaio dai mezzi di produzione, quindi oggettivandone le conoscenze nelle macchine, di cui il processo lavorativo è reso sempre più una funzione semplificata, frammentata e disciplinata. Si tratta della “sussunzione reale del lavoro al capitale” [5] – un altro concetto il cui utilizzo segnala come i capisaldi teorici di Marx siano ancora attuali. In quest’ottica, la digitalizzazione e la datificazione dei processi produttivi, ovvero l’attacco all’ “opacità operaia” che le accompagnano, rappresentano una forte continuità con il fordismo-taylorismo [6]. Solo: il lavoratore digitale è oggi in forma ancora più accentuata “an information-creator” per il capitale [7]. Un rider connesso a Uber, Deliveroo ecc. produce infatti immediatamente con la sua attività lavorativa i dati che la piattaforma utilizza contro di lui, obbligandolo a seguire e ad ottimizzare le istruzioni dell’algoritmo, che in questo modo sostituisce il sistema di gerarchie e sanzioni formalizzate tipiche del fordismo con una vera e propria “interiorizzazione delle norme”, come evidenzia lo stesso Casilli. La vera novità del paradigma tecnologico attuale che è possibile approfondire integrando un’analisi marxista con quella di “Schiavi del Click” ci sembra, d’altro canto, la seguente: se un tempo erano per la maggior parte “i saperi” che si producevano all’interno della fabbrica a interessare al capitale e ad essere assorbiti dal capitale-macchina, oggi, le piattaforme e l’AI permettono di mobilitare direttamente tutta la conoscenza prodotta dall’interazione sociale in funzione dell’estrazione di plusvalore: si pensi ad esempio a come il rating dei clienti di Uber venga elaborato dall’algoritmo per spingere a una maggiore produttività i taxisti, o come i dati di milioni di ricerche su google-maps siano utilizzati per addestrare i veicoli a guida autonoma.

A mo’ di conclusione: la teoria è politica

Il tecno-ottimismo social-liberista velato di catastrofismo che emerge dal libro di Baldwin trova un interessante antidoto nello studio di Casilli, il quale mostra però alcune importanti debolezze che abbiamo cercato di mettere in luce. Non si tratta tuttavia di una questione accademica, come si può comprendere guardando al rapporto tra i presupposti teorici dell’autore e la sua proposta politica. In questo solco, “En Attendant les Robots” critica l’approccio economicista volto semplicemente a contrattualizzare i finti-autonomi che lavorano per le piattaforme, non considerando il lavoro gratuito svolto dalla globalità dei “prosumers”. L’obiettivo però non dovrebbe nemmeno essere quello di perseguire la remunerazione del “digital labour” gratuito: il punto infatti non è tanto l’equità, ma il controllo dei dati, da cui deriva l’immenso potere, anche economico, delle piattaforme. Così, riders, taxisti di Uber ecc. dovrebbero unirsi ai comitati degli utenti per chiedere un maggior intervento dello Stato nella tassazione e nella regolamentazione delle Big Tech, di modo tale da incentivarle a mettere a disposizione i dati come “bene comune”. Interessante, come la necessità di un’azione regolatrice dello Stato sia chiamata in causa da Casilli a seguito di una valutazione delle forti difficoltà di coordinamento, e dunque di costruire rapporti di forza reali, incontrate dall’iper-frammentato mondo dei lavoratori e degli utenti delle piattaforme.

In primo luogo, se è perfettamente condivisibile l’accento sull’esigenza di porre sotto controllo sociale l’enorme infrastruttura digitale, non si capisce, tuttavia, come un risultato del genere possa essere ottenuto senza statalizzare Google, Facebook ecc., un’ipotesi presa seriamente in considerazione anche dai settori più lungimiranti del mondo degli affari. Certo, una proposta progressiva non potrebbe essere il mero controllo governativo avanzato da personaggi come Soros, ma una nazionalizzazione basata sul controllo democratico delle piattaforme da parte dei lavoratori e degli utenti, qualcosa che evidentemente presuppone un altro tipo di Stato rispetto a quello vigente, burocratico e dominato dal grande capitale. A questo punto si pone evidentemente il problema di quale sia la forza sociale in grado di promuovere un cambiamento del genere ed è qui che l’abbandono della teoria del valore e dello sfruttamento di Marx, quindi l’incapacità di identificare quali siano i rapporti di classe fondamentali, mostra tutti i suoi limiti. Se è vero che l’amorfa massa degli utenti non può esercitare nessun ruolo sociale e politico, i lavoratori salariati dal cui sfruttamento dipende l’accumulazione del capitale, rappresentano ancora l’unica classe rivoluzionaria. Le lotte dei ciclofattorini e dei taxisti di Uber non sono dunque rilevanti perché chiamano in causa la questione della creazione di un indistinto “digital labour” come soggetto politico, ma nella misura in cui mettono all’ordine del giorno la mobilitazione indipendente della classe operaia – di cui essi fanno parte a pieno titolo. La stessa digital economy, che per Casilli avrebbe ridotto l’importanza della categoria di lavoratori in senso stretto, ha in realtà creato nuove e potenzialmente fortissime concentrazioni “operaie”, dove effettivamente i colossi digitali estraggono plusvalore: si pensi ad esempio al fatto che gran parte dei 90.000 dipendenti di Google siano radunati in enormi città-azienda, ove non tutti sono ingegneri di alto livello, ma anche moderatori di contenuti, tecnici dal lavoro estremamente routinizzato, autisti, camerieri ecc., categorie che sembra abbiano pure cominciato ad organizzarsi, come si evince navigando sul sito della Tech Workers Coalition. Il focus su Amazon Mechanical Turk, peraltro, fa perdere di vista a Casilli gli enormi magazzini di Amazon, con il loro mix di piattaformizzazione e controllo diretto del lavoro vivo, al centro di importanti processi di lotta. Più in generale, In “Schiavi del Clic” l’enfasi sulle recenti forme di rapporti lavorativi legate alle piattaforme, oscura quanto la logica della “digitalizzazione” dei processi produttivi non stia semplicemente sostituendo l’impresa tradizionale, ma la stia destrutturando dal suo interno, sia nel settore industriale che in quello dei servizi. Si pensi allo Smart Working o ai progetti di “Fabbrica 4.0” che – pur facendo salvi rapporti contrattuali dipendenti– mirano alla crescente individualizzazione dei lavoratori tramite la datificazione, e all’instaurazione di un rapporto sempre più stretto tra remunerazione e produttività [8]. Sembra allora più perspicace Baldwin di Casilli, almeno dal punto di vista dell’individuazione della posta in gioco politica contemporanea: l’unione della rabbia degli operai e degli impiegati minacciati dalle macchine (i.e. dal loro uso capitalistico). Per l’autore – che assume il punto di vista dei settori “illuminati” della classe dominante – si tratta di una “reazione contro il progresso”; per chi invece mira realmente all’emancipazione dell’umanità si tratta invece di un’opportunità che – e qui ha di nuovo ragione Baldwin – non può essere lasciata in mano alla destra più retriva.

Lorenzo Lodi

Note

[1] Erik Brynjolfsson & Andrew McAfee, The Second Machine Age, W. W. Norton & Company, New York, 2014

[2] dalla lettera di Karl Marx a Ludwig Kugelmann, 11 luglio 1868 (in) Karl Marx, Lettere a Kugelmann, Roma, Rinascita, 1950

[3] K. Marx, Il Capitale. Libro I, Editori Riuniti, Roma, 1974, capitolo I

[4] Ivi, capitolo IV. Su questi temi si veda anche: G. Carchedi, Lavoro mentale e classe operaia: per un’analisi materialista di Internet, 2017, disponibile qui.

[5] K. Marx, ibid., capitolo XIII.

[6] Si veda H. Braverman, Lavoro e capitale monopolistico: la degradazione del lavoro nel XXI secolo, Einaudi, Torino, 1980, e B. Settis, Fordismi, Il Mulino, Bologna, 2016.

[7] T. Fujimoto, The Evolution of Manufacturing System in Toyota, Oxford University Press, Oxford, 1999.

[8] M. Gaddi, Industria 4.0 e lavoro operaio, Officina Primo Maggio, 2020, disponibile su sinistrainrete.info.

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.