Il 25 gennaio 2021 si celebra il decimo anniversario dal primo giorno della discesa in piazza delle masse egiziane, che portò al successivo processo rivoluzionario nel paese, dentro il quadro dei movimenti di massa nel Medio Oriente e nell’Africa del Nord passati alla storia come “Primavera Araba”. Per analizzare e contestualizzare uno dei grandi processi politici che stanno definendo il nostro secolo, proponiamo un opuscolo composto da tre saggi. che presentiamo in diretta sulla nostra pagina facebook lunedì 25 gennaio dalle 20.45 (qui l’evento). Questo saggio in particolare riflette sulle radici storico-economiche della Primavera araba.


I processi rivoluzionari che hanno animato il Medio Oriente e la sponda sud del Mediterraneo nel corso degli ultimi 10 anni sono da inquadrare nel contesto della ristrutturazione neoliberale del capitalismo e della più specifica traiettoria di decomposizione dei blocchi sociali emersi con la decolonizzazione.

Scriveva Trotsky ne La rivoluzione permanente: “per i paesi coloniali e semicoloniali, la teoria della rivoluzione permanente significa che la soluzione vera e compiuta dei loro problemi di democrazia e di liberazione nazionale non è concepibile se non per opera di una dittatura del proletariato che assuma la guida della nazione oppressa e, prima di tutto delle sue masse contadine […] l’alleanza tra queste due classi non si realizzerà se non in una lotta implacabile con la borghesia nazionale e liberale.

Quest’ultima non poteva infatti rompere con l’imperialismo poiché legata a doppio filo al capitale straniero e alla grande proprietà terriera; da cui l’impossibilità di porre seriamente la questione della riforma agraria e dunque dirigere con successo un blocco sociale anti-coloniale, impensabile senza la mobilitazione della maggioranza contadina. Tuttavia, nel mondo arabo come nel resto di quello extraeuropeo, l’indirizzo politico della III internazionale stalinizzata spinse i Partiti Comunisti locali ad allearsi con le forze nazionaliste borghesi, nel nome di una concezione gradualista e meccanicista: come i paesi occidentali, anche quelli asiatici, africani ecc. dovevano compiere la rivoluzione democratico-borghese, prima di poter pensare alla rivoluzione socialista, in barba a un’analisi concreta dello sviluppo capitalistico e dei rapporti di forza tra classi su scala mondiale. Oltre alla già segnalata impotenza delle forze borghesi nelle colonie, in molti paesi dominati esisteva infatti un proletariato industriale, minoritario, ma fortemente concentrato in settori come quello dell’industria di trasformazione e dei trasporti, decisivi in paesi integrati nel mercato mondiale tramite l’esportazione di materie prime e alcuni semilavorati di base. Peraltro, quando nella seconda metà degli anni 30 anche in Europa la strategia della Terza Internazionale venne subordinata all’alleanza con le formazioni politiche socialdemocratiche e borghesi nel nome del contrasto al nazi-fascismo (politica dei “fronti popolari”), la questione dell’indipendenza delle colonie venne addirittura ritenuta non più prioritaria, con effetti devastanti sull’influenza del movimento operaio in paesi come l’Algeria.

Così, a fronte dell’inettitudine dei partiti nazionalisti-liberali e dello screditamento dei comunisti, la guida dei processi di liberazione nazionale concretizzatisi nel secondo dopoguerra, venne presa da forze dirette dalla piccola borghesia professionale urbana (Neo-Destour Tunisino, FLN Algerino, Baath in Irak e Siria); oppure da settori dell’esercito, per origine e ideologia anch’essi riconducibili alla piccola-borghesia. È il caso, quest’ultimo, dell’Egitto, ove la fase di intensa lotta di classe inaugurata dalla sconfitta dei paesi arabi contro Israele nel 1948, venne risolto dal colpo di Stato degli “ufficiali liberi” del luglio 1952 ai danni della monarchia, puntellata fino a pochi mesi prima dal Wafd, il partito nazionalista-liberale, con il supporto esterno del Partito Comunista Egiziano. Seguiva un periodo convulso in cui emergeva la figura carismatica del tenente colonnello Nasser il quale, una volta cooptato il movimento sindacale ed assicuratosi l’appoggio dei contadini grazie alla parcellizzazione delle grandi proprietà semi-feudali, riuscì a far evacuare le truppe britanniche e a nazionalizzare il canale di Suez (1956). Tali misure permisero a loro volta di consolidare un nuovo blocco sociale fondato sull’inclusione subalterna del proletariato industriale e delle masse contadine in un’alleanza diretta da militari e burocrazie, volta costruire un capitalismo nazionale, tramite un progetto di industrializzazione trainato dallo Stato.

Contraddizioni e crisi dei progetti post-coloniali

Il modello nasseriano verrà seguito dai regimi post-coloniali nel resto della regione nordafricana e medio-orientale (fatta eccezione per le monarchie del Golfo), con diverse sfumature e gradi di radicalità. Tuttavia, anche nelle situazioni in cui lo scontro sociale condusse ad espropriare non solo il latifondo e il capitale imperialista, ma la stessa borghesia industriale nazionale (come avvenne non solo in Egitto, ma anche in Siria nel 1967), non si trattò di fenomeni di “bonapartismo proletario”, come Trotsky caratterizzò la contraddittoria fase di ascesa della burocrazia stalinista in URSS. La traiettoria era quella definita dal “Socialismo Arabo”, ove il primo termine non rimandava a un superamento del capitalismo basato sull’egemonia della classe operaia, ma a una visione interclassista di “giustizia sociale”. Le misure redistributive a vantaggio dei settori subalterni facevano dunque il paio con l’irreggimentazione del proletariato industriale in organismi corporativi controllati dallo Stato, le cui strutture e quadri rimanevano borghesi, in un involucro peraltro autoritario. Di conseguenza, il contenuto concreto delle politiche dei regimi post-coloniali del mondo arabo, fu il tentativo di creare le premesse per lo sviluppo di nuovi centri di accumulazione capitalistica, destinato tuttavia a fallire per via delle sue contraddizioni interne. Limitate all’espropriazione dei ricchi coloni europei, o in generale volte a favorire l’espansione di una borghesia rurale, infatti, le controriforme agrarie non permettevano un controllo del surplus agricolo sufficiente per investire in maniera massiccia nell’industria pesante. La situazione era poi aggravata dal fatto che gli appetiti consumisti della piccola borghesia e dei crescenti strati burocratici, nonché l’esigenza di tenere insieme un blocco sociale contraddittorio, dirottavano le risorse verso impieghi improduttivi o nell’industria dei beni di consumo. Così, la crescita rimaneva dipendente dall’importazione di beni capitali dai centri imperialisti, scambiati con prodotti agricoli e\o minerali. Quando l’adozione di un modello di sviluppo analogo da parte di una buona fetta dei paesi del terzo mondo dettò un calo del prezzo delle materie prime, la possibilità di continuare a percorrere la via dell’industrializzazione dipese perciò sempre più dall’indebitamento estero. Inoltre, l’opzione di concentrare le risorse dell’intero mondo nord-africano e mediorientale tramite un progetto di unificazione panaraba – idea-forza cruciale per la legittimità dei regimi dell’area – era impossibile su basi capitalistiche: la spartizione coloniale del Mediterraneo meridionale aveva tarpato il consolidamento di una mercato regionale e di una borghesia araba indipendente, mentre le fasce borghesi e burocratiche emerse dalla decolonizzazione erano inestricabilmente legate agli Stati che ne avevano decretato la genesi. Nel frattempo, tuttavia, la presenza ingombrante del colonialismo israeliano permetteva ai regimi di presentare il problema dell’unità araba come una questione meramente diplomatico-militare, e dunque di continuare a far leva sui sentimenti panarabi per mantenere il consenso. Un gioco in realtà pericoloso, dato che ogni cedimento e\o sconfitta su questo fronte minacciava di erodere la stabilità interna, come dimostrò l’ondata di lotta di classe e colpi di Stato bonapartisti che coinvolse molti paesi in seguito alla sconfitta di El Cairo ed altri governi della regione contro Tel Aviv nella guerra del 1967.

Verso la fine degli anni 60 – quando il breve periodo di “distensione” tra USA e URSS raggiunse il culmine – la possibilità di ottenere crediti internazionali a basso costo giocando sulla rivalità tra superpotenze si ridusse sensibilmente, peggiorando i problemi strutturali dei sistemi produttivi della regione a cui si è già fatto cenno. La crisi economica e sociale che ne derivò trovò tuttavia una ricomposizione nel decennio successivo con l’aumento dei prezzi del petrolio, a cui contribuì nel 1973 l’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries – Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) tagliando la produzione di greggio a sostegno del tentativo siro-egiziano di riprendersi il Golan e il Sinai occupati da Israele sei anni prima. Gli stati arabi persero ancora una volta la guerra, ma il “boom petrolifero” gli permise di migliorare la bilancia dei pagamenti, grazie alle crescenti rimesse degli emigranti nei paesi del Golfo, e di beneficiare direttamente degli aiuti sauditi, tramite ricuciture diplomatiche con gli USA. È il caso dell’Egitto di Sadat, principale alleato sovietico in Medio Oriente, prima di firmare uno storico accordo di pace con Stati Uniti e Israele nel 1979. Un cambio di rotta del genere esprimeva in realtà anche nuovi equilibri di classe che con varie temporalità si andavano affermando nella gran parte dei paesi arabi. Settori dell’alta burocrazia legati alle vecchie classi possidenti, o a nuovi elementi borghesi emersi dalla serra del capitalismo di stato come concessionari di appalti pubblici e licenze di import-export, insieme alla media borghesia rurale rafforzata dalle controriforme agrarie, premevano infatti affinché dall’impasse del modello di sviluppo post-coloniale si uscisse garantendo una maggiore autonomia per i gruppi sociali proprietari. Pertanto, gli anni 70 e 80 sono quelli che preparano la contro-offensiva neoliberale degli anni 90-2000, tramite le prime aperture al commercio e ai capitali internazionali e il ritiro di quelle misure, come le cooperative e le quote di prodotti agricoli acquistate dallo Stato, che limitavano i processi di centralizzazione della proprietà terriera nelle campagne. Un esito del genere fu favorito in maniera decisiva dalla sconfitta di grandi movimenti di massa (Egitto 1977, Tunisia e Marocco 1984), i quali tuttavia riuscirono in molti casi a rallentare i processi di privatizzazione vera e propria.

Verso le sollevazioni del 2010-2011: la ristrutturazione neoliberale e il ruolo dell’imperialismo

Terminata la bonaccia petrolifera e diventato ormai insostenibile il debito estero, dalla seconda metà degli anni 80 cominciano i piani di aggiustamento strutturale promossi dall’FMI (Fondo Monetario Internazionale), in cui i crediti internazionali sono concessi solo in cambio del rispetto di precise condizionalità che vanno incontro alle esigenze di espansione del capitale straniero e degli strati borghesi nazionali sempre più coscienti dei propri interessi. Si comincia dunque eliminando i vincoli alla proprietà privata della terra, come in Egitto, con l’abrogazione della norma nasseriana che rendeva permanenti i contratti di affittanza; da cui l’evizione forzata di oltre mezzo milione di contadini quando la (contro)riforma entra effettivamente in vigore nel 1997. La piena liberalizzazione della terra approfondisce inoltre la distorsione delle agricolture locali verso i prodotti da esportazione, obbligando a crescenti acquisti di grano dai centri imperialisti. Questo, anche nella misura in cui i processi di centralizzazione della proprietà terriera approfondiscono la povertà rurale, quindi l’urbanizzazione e la domanda di merci alimentari. Il risultato è una costante pressione sulla bilancia dei pagamenti che viene scaricata sulle masse popolari con politiche fiscali restrittive e frequenti svalutazioni. I redditi reali sono quindi erosi da tasse indirette e dall’inflazione, che a causa della dipendenza dal grano estero colpisce in particolare il cibo (2/3 dei consumi dell’egiziano e del tunisino medio). La situazione peggiora con l’accesso della maggior parte dei paesi nordafricani e mediorientali al WTO (World Trade Organization – Organizzazione Mondiale del Commercio) nel 1995 e al mercato comune euromediterraneo (1997-2001). Grazie all’abbattimento delle barriere doganali che ne consegue, le multinazionali statunitensi ed europee possono spazzare via l’industria locale, fatta eccezione per i conglomerati in mano agli oligarchi emersi con le privatizzazioni, in virtù del loro potere economico e di speciali protezioni statali. Si tratta spesso, infatti, di grandi borghesi ben connessi al capitale straniero e agli apparati di stato, ex burocrati, o direttamente vertici del regime, come Ben Alì in Tunisia, il quale – insediato nel 1987 da un golpe appoggiato da Craxi e Andreotti – diventa il primo capitalista del paese grazie alla cessione di molte aziende pubbliche ai suoi famigliari. Certo, con la liberalizzazione commerciale aumentano anche gli scambi verso l’estero, ma senza miglioramenti significativi delle bilance dei pagamenti. L’aumento delle esportazioni si concentra infatti in prodotti a basso valore aggiunto (tessile, assemblaggio, prodotti ortofrutticoli), e dipende fortemente dalle fluttuazioni della domanda in Unione Europea (il 30-40% del commercio estero dei paesi arabi); così come la crescita, a causa del peso sempre più rilevante dell’export sul PIL. C’è poi da aggiungere che il settore da esportazione è in gran parte dominato dal capitale internazionale, grazie al coinvolgimento del capitale locale nelle filiere globali e agli investimenti esteri. Tale situazione ha effetti perversi sullo sviluppo, spezzando i legami di fornitura con le imprese nazionali, a vantaggio dell’importazione di componenti dai paesi imperialisti, i quali in realtà, più che investire in nuovi impianti, si limitano ad appropriarsi delle ex aziende pubbliche. In questo solco ricordiamo il ruolo del capitale italiano nelle privatizzazioni in Egitto: nei primi anni 2000 Mubarak ‘regala’ la principale impresa di pneumatici (Alexandria Tyre) alla Pirelli, la più importante fabbrica di laterizi (Suez Cement) all’Italcementi e la quarta banca del paese (Bank of Alexandria) ad Intesa San Paolo. Ecco che gli investimenti diretti esteri di capitale non compensano la riduzione del tasso di investimento complessivo dettata dallo smantellamento del settore statale. Il risultato sono crescenti difficoltà ad assorbire la nuova manodopera che entra nel mercato del lavoro, quindi i tassi più alti al mondo di disoccupazione giovanile e l’espansione del settore informale. Inoltre, la crisi del 2008 eroderà ulteriormente i redditi degli strati popolari segnando l’aumento dei prezzi del cibo a causa della speculazione sulle materie prime con cui la finanza internazionale cerca di recuperare dal crack di Lehman Brothers (il valore delle ‘commodities’, diversamente da quello di mutui e azioni, era spinto verso l’alto dal boom della domanda cinese). Sul piano politico, le dinamiche fin qui descritte segnano uno svuotamento ormai sostanziale del compromesso sociale post-coloniale, mentre la legittimità dei regimi è scossa dall’inerzia con cui essi reagiscono all’invasione USA dell’Iraq (2003) e alla violenta reazione israeliana alla seconda Intifada (2000). In un contesto di feroce repressione e disorientamento dell’attivismo di classe dopo le sconfitte degli anni 70-80, saranno le linee di frattura tradizionali, l’opposizione all’imperialismo e la questione palestinese – insieme alla questione democratica – quelle da cui scaturiscono i primi movimenti che preparano il terreno per i processi rivoluzionari, in cui – almeno in Tunisia ed Egitto – l’elemento distintivo sarà l’intervento del proletariato e delle masse impoverite con le proprie istanze.

Lorenzo Lodi

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.