Rispondendo agli appelli dei sindacati palestinesi, venerdì 23 febbraio, una data di sciopero nazionale viene rivendicata con forza in Italia dai Giovani Palestinesi. Sabato 24 febbraio ci sarà un corteo nazionale a Milano contro il genocidio in Palestina. Due date che rilanciano il dibattito su quale lotta e programma servono per la liberazione palestinese, sul perchè sia importante che i lavoratori la sostengano in occidente e in Italia e come favorirne la mobilitazione.


Per il prossimo 23 febbraio, sulla scia di un appello internazionale dei sindacati palestinesi, i Giovani Palestinesi d’Italia (GPI), hanno chiamato a partecipare a uno sciopero generale nazionale per la fine del genocidio israeliano a Gaza

Si tratta di un appello importante: per la prima volta, infatti, il ruolo cruciale della classe lavoratrice nella costruzione dei rapporti di forza necessari a vincere contro il sionismo viene chiamato in causa. Alla mobilitazione ha già aderito il sindacato SI Cobas (e, ufficiosamente, l’area di USB e Potere al Popolo), mentre questo giovedì, 1 febbraio, i Giovani Palestinesi pubblicavano una dichiarazione su Instagram per invitare i lavoratori della CGIL a partecipare allo sciopero.

Uno sciopero generale degno di questo nome non può infatti prescindere dalla partecipazione massiccia dei salariati organizzati dai grandi sindacati confederali. Ci uniamo perciò ai Giovani Palestinesi nel fare appello ai lavoratori, e in particolare a quelli iscritti alla CGIL, a incrociare le braccia. Bene fanno i GPI a criticare l’approccio ambiguo, per usare un eufemismo, tenuto dalle burocrazie sindacali nei confronti dell’attacco sionista in corso: l’approccio di Landini è stato infatti quello di “condannare” i bombardamenti, ma al contempo chiamando alla pace in maniera astratta, e arrivando fino a partecipare alla mobilitazione bi-partisan in solidarietà con Israele lo scorso dicembre. 

L’appello dei Giovani Palestinesi ha però, secondo noi, alcuni limiti che vanno discussi fraternamente nell’ottica di sfidare con maggiore efficacia l’egemonia delle burocrazie sindacali su milioni di lavoratori, non necessariamente convinti – come segnalano giustamente gli stessi GPI – da una strategia sindacale che ha contribuito al peggioramento delle nostre condizioni da decenni, anche sul terreno della solidarietà internazionale, tra cui quella alla lotta del popolo palestinese. 

Dal nostro punto di vista, il testo del comunicato, pone questioni decisive, ma tende a non affrontarne altre. Approfittiamo, inoltre, di questo tentativo di confronto per avanzare alcune proposte rivendicative e di costruzione del percorso verso uno sciopero generale per la Palestina, aderendo come FIR e Voce delle Lotte alla chiamata del 23 e alla manifestazione di Milano del 24 febbraio.

 

Con quale prospettiva invitare i lavoratori della CGIL allo sciopero?

Dopo una più che condivisibile critica alle posizioni vergognose di Landini sulla Palestina e un’importante distinzione tra i dirigenti e la base del sindacato, il comunicato dei GPI recita: “continuerete ad accettare l’inaccettabile, a sentirvi addosso non solo il sangue dei vostri compagni assassinati ogni giorno dal lavoro (accolto con ipocrite e false parole dai vostri capi), ma anche il sangue dei palestinesi sterminati ogni giorno dall’occidente? O sceglierete di stare dalla parte giusta della storia?”. 

Comprendiamo bene – perché è anche la nostra – l’indignazione assoluta nei confronti delle politiche di Israele, ma non è facendo leva prioritariamente su motivazioni etiche che è possibile spiegare a vasti settori di lavoratori la necessità di sostenere coerentemente la causa palestinese. L’ideologia dominante non è qualcosa che si può scardinare solo cercando di smuovere le coscienze (se così fosse, i 30.000 morti a Gaza di questi mesi avrebbero già dovuto essere più che sufficienti). Al contrario, è necessario costruire un discorso che, a partire dalle esigenze concrete del conflitto capitale lavoro, sia in grado di sviluppare delle parole d’ordine volte a rafforzare la coscienza di classe e l’organizzazione politica della classe lavoratrice. 

L’intervento del movimento operaio nella lotta pro-palestinese non crediamo sia “solo” (e questo solo è molto, sia chiaro) questione di solidarietà internazionalista, ma un’esigenza molto precisa per perseguire gli interessi della classe lavoratrice anche in Italia e in occidente contro chi la sfrutta e i propri governi. Infatti, il sostegno indistruttibile dei paesi occidentali nei confronti del sionismo si aggancia a una campagna di attacco ideologico ai lavoratori mulsulmani e arabi nei paesi Europei. Tale campagna a sua volta ha l’obiettivo di sostenere le politiche di criminalizzazione dell’immigrazione che dividono la classe lavoratrice e la rendono così più debole

La partecipazione dei lavoratori allo sciopero del 23 febbraio per la Palestina, quindi, deve essere un segnale che i lavoratori italiani sono a fianco di quelli stranieri e li appoggiano contro la propaganda filo-sionista e islamofoba, quindi contro le leggi repressive che li rendono più ricattabili sul posto di lavoro. Detto questo, va dato atto ai Giovani Palestinesi di aver sviluppato in un altro comunicato un collegamento forte tra le questioni materiali dei lavoratori in Italia e il sostegno alla Palestina, aspetto che andrebbe dunque secondo noi evidenziato maggiormente: “il prezzo della guerra in Medioriente, come della guerra in Ucraina e delle altre “missioni di pace” in giro per il mondo lo pagheranno i lavoratori e i disoccupati […] la guerra è una catastrofe che ci ritroveremo nell’aumento della bolletta, nel carrello della spesa, nei ricatti degli affitti e dei trasporti”.

Un altro tema che va a nostro avviso potenziato nel discorso politico, per convincere i lavoratori a mobilitarsi il 23 febbraio, è quello di quale strategia per la liberazione della Palestina. La propaganda dominante ci bombarda mediaticamente dicendo che chi critica Israele è anti-semita, islamista pro-Hamas o filo-Iran. Condannare la risposta armata alle politiche genocide di Tel Aviv vuol dire accettare che i popoli oppressi debbano rassegnarsi semplicemente a subire. Rispediamo al mittente i tentativi di mettere sullo stesso piano la resistenza palestinese e l’oppressore genocida sionista. Tuttavia, va detto chiaro e forte, e spiegato in maniera articolata, che la liberazione della Palestina non può passare per le strategie di Hamas, di Hezbollah e dell’Iran, i quali non sono realmente interessati a una guerra fino alla vittoria contro Israele, ma cercano piuttosto di rafforzare la propria posizione nella regione.

Nonostante un aumento della radicalità della sua retorica, Hamas non ha ancora rivisto la sua linea programmatica del 2017 che accetta una coesistenza con il sionismo, mentre la sua leadership risiede in Qatar, il cui emiro è in prima linea nelle trattative volte a chiudere la questione palestinese con uno stato fantoccio, insieme agli altri Stati Arabi complici di Washington, come l’Egitto. Hezbollah è invece pienamente inserito nel sistema politico ed economico del Libano, uno stato completamente dipendente dai petrodollari dei Sauditi (il secondo principale alleato degli USA, dopo Israele nella regione). L’Iran, invece, è da oltre un decennio che si spartisce – certo, non senza conflitti –l’influenza sull’Iraq con gli Stati uniti. L’unica vera soluzione per la questione palestinese è una mobilitazione delle masse diseredate e lavoratrici della regione araba e mediorientale, in grado di rompere il sistema di alleanze e complicità all’imperialismo che sostiene Israele, fino a disarticolare lo stesso blocco sociale dominante sionista. Questo nella prospettiva di una Palestina democratica e socialista nel quadro di una federazione socialista del Medio Oriente (vedi qui, qui e qui per approfondire questa prospettiva).

La strategia del cosiddetto “asse della resistenza” va in questa direzione? Proprio il contrario: Hezbollah ha difeso il regime libanese quando le masse impoverite e i giovani si sono rivoltati contro la crisi finanziaria degli ultimi anni. Allo stesso modo, le milizie filo-iraniane sono state in prima fila nella repressione delle enormi mobilitazioni di massa contro il saccheggio delle risorse e la corruzione del governo in Iraq tra il 2019 e il 2021. Sono state le mobilitazioni di massa nei paesi arabi dopo il 7 ottobre – almeno quanto, se non più, del pericolo di un conflitto regionale – in sinergia con quelle negli USA e in occidente a spingere Washington a moderare (certo in modo ipocrita) il suo sostegno a Israele. 

Per convincere i lavoratori della CGIL a partecipare a una mobilitazione di massa per la Palestina va quindi chiarito che riconoscere il diritto alla resistenza e mobilitarsi a fianco della Palestina non significa accodarsi ad Hamas ecc., bensì vada nell’ottica di favorire la mobilitazione delle masse diseredate, dei lavoratori e dei giovani della cosiddetta “sponda sud” del Mediterraneo. In questo quadro, lo stesso impatto della mobilitazione internazionale per la Palestina è un ottimo argomento per convincere la classe lavoratrice a mobilitarsi il 23 ottobre: mentre Landini anche questo autunno ha provato a vendere ai lavoratori che sarebbero bastati 3 scioperi regionali isolati tra di loro e di una sola giornata per opporsi alla finanziaria, le manifestazioni in atto da mesi contro il genocidio sionista mostrano che è necessario dare continuità e cercare costantemente di allargare la lotta per ottenere risultati concreti.

 

Favorire forme di coordinamento tra settori di lavoratori e sindacati come asse per costruire la mobilitazione

Nell’ultima facciata del loro comunicato i Giovani Palestinesi invitano i lavoratori a disobbedire al “centralismo democratico”, nell’ottica di invitarli a partecipare allo sciopero del 23 febbraio. Ci si lasci dire di passata che il centralismo democratico, quello dei consigli-soviet e dei bolscevichi di Lenin e Trotsky, non ha nulla a che vedere con la struttura gerarchica e burocratica dei sindacati confederali, a cui sembra si riferiscano i compagni. Quello che importa qui sottolineare è però che non è il rispetto della disciplina interna il motivo per cui milioni di lavoratori a non contestano apertamente la leadership della CGIL e vi rimangono iscritti. I sindacati non sono organizzazioni politiche, ma strutture a cui i lavoratori aderiscono per vedere tutelate le proprie esigenze economiche basilari. È vero che la burocrazia della CGIL non è in grado di fornire una seria prospettiva lotta, dal livello settoriale a quello nazionale; tuttavia, le sue dimensioni e la sua organizzazione le permettono di venire incontro a molte istanze di routine (informazione, assistenza legale, negoziazione con i padroni su questioni di organizzazione del lavoro quotidiane, ecc.) in maniera incomparabilmente più efficace rispetto ai sindacati di base. Si aggiunga che le leggi borghesi anti-democratiche sulla rappresentanza sindacale (fortemente volute e appoggiate dai burocrati), ma anche il monopolio sulla gestione dei servizi di welfare garantito dallo Stato, rendono difficile l’emergere di alternative ai grandi sindacati in molti posti di lavoro.

Va inoltre considerato che, proprio per continuare a giocare un ruolo di mediazione nel conflitto capitale-lavoro, la burocrazia sindacale è costretta a organizzare e assecondare la mobilitazione dei lavoratori quando necessario. Certo, l’obiettivo è quello di depotenziarla e incanalarla, tuttavia, occasioni come gli scioperi generali della CGIL, grazie alla capacità organizzativa e all’influenza del sindacato, mostrano plasticamente quale potrebbe essere l’impatto di una lotta della classe lavoratrice unita. Per sfidare la burocrazia CGIL non basta quindi denunciare i dirigenti – la cui influenza nei confronti di vasti settori è radicata per via di serie questioni materiali – invitando i lavoratori a disobbedire alla linea come individui. Al contrario è necessario impegnarsi nella proposta di una strategia alternativa a quella dei vertici sindacali, fondata sull’auto-organizzazione, su forme assembleari per decidere i piani di lotta, e coordinamenti tra diversi posti di lavoro, ma anche tra lavoratori iscritti a diversi sindacati, visto che in alcuni settori come la logistica i sindacati di base hanno un buon radicamento.

Certo, la critica dei Giovani Palestinesi coglie nel segno quando rivolta ai gruppi politici che cercano di costruire un’opposizione di sinistra alla maggioranza in CGIL: questi ultimi tendono a mobilitarsi solo quando vengono indette date dalla dirigenza (questo con la significativa eccezione del Collettivo GKN che, pur rimanendo in CGIL, ha sempre promosso e partecipato a occasioni di sciopero indipendenti dalla burocrazia). Proporre una strategia alternativa a quella dei vertici del sindacato vuol dire metterla in campo nella pratica, e lo sciopero del 23 ottobre può essere un’occasione in questo senso, impegnandosi nella costruzione di un coordinamento di lavoratori per la Palestina, in sinergia con le organizzazioni della diaspora, degli studenti e degli immigrati.

In quest’ottica anche i sindacati di base potrebbero cercare di giocare un ruolo più incisivo: come abbiamo segnalato, il SI Cobas ha aderito allo sciopero già da dicembre, mentre in questi giorni è emersa anche la volontà di partecipare di USB, che ha organizzato un incontro pubblico sul tema il 10 febbraio a Genova. Queste adesioni sono però avvenute in ordine sparso, mentre sarebbe necessario un percorso unitario tra queste sigle – che con le loro posizioni nella logistica e nei porti possono giocare un ruolo importante contro l’economia di guerra – e i settori di sinistra/combattivi in CGIL. In questo modo, inoltre, si potrebbe cercare di aggregare e includere in un piano di lotta e organizzazione credibile strati più ampi di lavoratori, in primis quelli che si sono già mobilitati per la Palestina senza particolari affiliazioni sindacali combattive, come ad esempio i sanitari del Mayer che hanno chiesto le dimissioni del console di Israele Carrai dalla fondazione che controlla l’ospedale fiorentino. Vanno inclusi in questo discorso anche i lavoratori della ricerca; settori che, pur posizionandosi in una situazione intermedia tra la classe lavoratrice e la piccola borghesia (a causa della componente ideologica del loro ruolo, più che delle condizioni economiche spesso disastrose), possono operare fianco a fianco agli operai, e degli stessi tecnici, impiegati ecc. delle istituzioni accademiche, contro l’economia di guerra israeliana, contrastando le partnership tra le università italiane e quelle dell’entità sionista.

 

Alcune rivendicazioni e proposte per un percorso verso – e oltre – lo sciopero generale per la Palestina del 23 febbraio

La nostra proposta al dibattito sullo sciopero del 23 ottobre si articola quindi attorno ai seguenti punti:

  1.  È necessario collegare la chiamata in solidarietà alla Palestina con la lotta all’islamofobia, e al tentativo del governo e della classe dominante di legittimare in questo modo le politiche anti-immigrati che dividono la classe lavoratrice. Scendere in piazza per la Palestina significa unire la classe lavoratrice per l’eliminazione della Bossi-Fini e e delle norme d’accoglienza via via più repressive, promosse anche e soprattutto dal governo Meloni.
  2. Si deve enfatizzare e sviluppare un discorso per collegare l’opposizione all’imperialismo in Medio Oriente, ma anche in Europa dell’Est, con la lotta alle conseguenze economiche delle guerre che vengono scaricate sui lavoratori, in termini di inflazione e taglio della spesa sanitaria per finanziare le spese belliche. Non sono gli attacchi degli Houthi alle navi israeliane il motivo dei rischi al commercio mondiale e a una nuova ondata di inflazione, ma l’appoggio al sionismo e i piani di destabilizzazione e guerra dell’imperialismo. La lotta alle politiche militariste e di riarmo di UE e Stati Uniti va collegata a rivendicazioni come un aumento generalizzato dei salari, una scala mobile dei salari agganciata all’inflazione e un aumento drastico della spesa sanitaria, contro la privatizzazione della salute.
  3. Va rivendicato il diritto dei palestinesi a difendersi con le armi, ma va anche chiarito come l’unica soluzione progressiva per la questione palestinese, passi per una mobilitazione rivoluzionaria delle masse lavoratrici della regione araba e medioorientale (rispetto alla quale forze reazionarie come Hamas, Hezbollah e l’Iran rappresentano un freno). L’invito ai lavoratori a scendere in piazza il 23 deve essere quindi un appello a lottare a fianco dei giovani e dei lavoratori palestinesi e delle masse arabe e mediorientali, per una soluzione veramente democratica al problema dello Stato palestinese, come Stato laico, fondato sul rispetto delle minoranze e retto da un governo operaio-contadino, all’interno di una federazione socialista del Medio Oriente.
  4. Perché lo sciopero generale sia veramente tale, è necessario che i lavoratori e in particolare i settori di sinistra della CGIL aderiscano allo sciopero, come hanno chiesto i Giovani Palestinesi. In questo solco, i sindacati di base – con le loro importanti posizioni nei porti e nella logistica – e gli stessi settori di sinistra della CGIL, non possono permettersi di aderire in ordine sparso, ma devono favorire, insieme alle organizzazioni della diaspora palestinese e del movimento studentesco, un coordinamento dei lavoratori per la Palestina, per discutere un programma e un piano di lotta. Solo in questo modo sarà possibile rendere credibile la mobilitazione e coinvolgere settori più ampi della classe lavoratrice (contendendoli alla burocrazie dei grandi sindacati) e includere i lavoratori della ricerca che hanno la potenzialità di minare l’economia di guerra contrastando le partnership con le università israeliane.

 

Frazione Internazionalista Rivoluzionaria

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.