Metodi censori e linciaggio pubblico: la Svezia affronta la pandemia svelando quanto infondata sia la sua posizione internazionale sulla libertà di stampa.


Il contesto: la strategia svedese come una questione di “orgoglio nazional-socialista”

Abbiamo discusso più volte dell’approccio svedese laissez-faire alla gestione del covid19. Avevamo scritto di come il governo socialdemocratico-liberale avesse affidato pieni poteri all’Agenzia di salute pubblica (Folkhälsomyndigheten) nella gestione dell’emergenza e che questa, interpretando a modo suo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, avesse de facto, optato per l’immunità di gregge, un vero e proprio esperimento di darvinismo sociale di massa ai danni dei più deboli (anziani e malati in primis, ma anche lavoratori di fabbriche e uffici, insegnanti, personale medico, immigrati costretti a vivere in appartamenti sovraffollati et similia). Inoltre, non ha mai chiuso le attività non-essenziali (lasciando pub e ristoranti aperti, con l’unica eccezione, in vigore solo da qualche mese, di imporre la chiusura alle 20.30). Ma soprattutto l’Agenzia di salute pubblica, in un Paese caratterizzato da una coesione sociale probabilmente impensabile in qualsiasi altra società occidentale (Dewan, 2021), è riuscita, attraverso l’apparato mediatico statale, a convincere la maggioranza dei suoi cittadini della giustezza della sua strategia e che il resto del mondo avrebbe invece torto.

Emblematico il caso delle mascherine, la cui efficacia è stata negata dalla Svezia per un anno intero (fino a Dicembre 2020), fino a quando, nel silenzio assordante, e anzi la complicità aperta, di tutte le “sinistre”, il vecchio sovrano Carl Gustav VI si è espresso criticamente contro la strategia. A quel punto, l’uso della mascherina è stato “raccomandato”, ma solo sui mezzi pubblici e solo durante gli orari di punta. Tuttavia, come documentato persino dagli stessi media svedesi, appena il 50% dei cittadini sembra seguire questa raccomandazione.

Del resto, l’Agenzia di salute pubblica continua ufficialmente a considerare il virus come “non trasmissibile per via aerea” [1].

La Svezia continua de facto a lasciare che il virus si diffonda nella scuola, negli uffici, nelle fabbriche, nella movida serale e in altri ambiti della vita sociale. A differenza di quello che alcuni media italiani avevano erroneamente riportato a Dicembre, non c’è stato nessun pentimento né cambio di rotta. I dati, però, parlano chiaro: 12.598 morti in Svezia a fronte dei 2.300 in Danimarca, 725 in Finlandia e 607 in Norvegia -aggiornamento al 17 Febbraio 2021- [2] (questi tre Paesi, a differenza della Svezia, hanno adottato misure simili a quelle del resto de mondo).

Ora, dopo questa breve introduzione alla realtà svedese ed al suo inedito modo affrontare la pandemia, passiamo al raccontare due vicende che fanno comprendere la cifra reale della democrazia svedese e della sua altrimenti decantata libertà di espressione. I metodi censori e le campagne di linciaggio pubblico e mediatico di cui parleremo gettano dubbi sui criteri impiegati dalle statistiche internazionali sulla libertà di espressione (dove la Svezia risulterebbe tra i primissimi posti).

Il primo segnale di censura del dibattito: l’attacco ai 22

Che le decisioni prese dal gruppo di ”esperti” alla guida dell’Agenzia di salute pubblica sarebbero dovute essere viste come incontestabili verità assolute da ogni buon cittadino nonché persino fonte di orgoglio nazionalista dell’eccezionalismo svedese, era risultato chiaro almeno da Aprile scorso, quando un gruppo di 22 scienziati e epidemiologi svedesi (i primi ”autoctoni” critici verso la strategia) osò alzare la voce facendo uscire un documento congiunto [3] dove venivano evidenziate le criticità della strategia. A quel punto i 22 furono ridicolizzati e delegittimati da molti media, alcuni dei quali avrebbero, secondo Gina Gustavsson, sfiorato toni misogini [4].

Altro teatro di odio e delegittimazione contro i 22 è stato Twitter: Cecilia Söderberg-Nauclér, tra i 22 esperti firmatari del documento, fu, per esempio, tempestata di insulti e illazioni che la spinsero a disattivare il suo account.

Si potrebbe forse speculare che il motivo di tanto odio nei confronti di questi esperti possa essere spiegato dal fatto che il loro documento avesse costituito la prima voce fuori dal coro proveniente dall’interno del Paese e per questo motivo potenzialmente più letale e destabilizzante in termini di fiducia per la strategia e, più in generale, per le istituzioni svedesi e l’Agenzia di salute pubblica. Le critiche provenienti dall’estero, invece (seguendo le conferenze stampa ufficiali si noterà che la stragrande maggioranza dei giornalisti proni a porre domande critiche sono stranieri) sono state significativamente più numerose. Tuttavia, dal punto di vista svedese, esse vengono percepite come meno destabilizzanti dal momento che un elemento chiave dell’“eccezionalismo” svedese soprammenzionato è che gli svedesi si fidano meno di ciò che viene detto all’estero, soprattutto se proveniente dal di fuori della Scandinavia o, ancora peggio, dal sud Europa.

Una ulteriore considerazione che potrebbe essere fatta concerne la natura della democrazia borghese stessa. L’elaborazione di un simile tema meriterebbe certamente un articolo e probabilmente uno studio a sé. Tuttavia, in questa sede ci limiteremo a osservare almeno un aspetto che non va sottovalutato e che andrebbe forse incluso nel dibattito marxista sul rapporto tra capitalismo e democrazia: la Svezia sembrerebbe mostrare che lo sviluppo del capitalismo moderno, col suo sempre più elevato grado di specializzazione delle competenze e divisione del lavoro, oltre ad accentrare i capitali in poche mani creando oligarchie economiche, rende le conoscenze sempre più specifiche, generando oligarchie ”epistemologiche” che incrementano l’incomunicabilità e la distanza tra diversi settori (di lavoratori), ma anche tra diverse aree di ricerca, rami di conoscenza e, non per ultimo, tra Stato e società.

La repressione “psicologica” del dissenso: il caso del gruppo Mewas

L’ultima vicenda legata al clima di discussione sulla strategia svedese è stata quella di Mewas, un gruppo Facebook di circa 200 iscritti, la maggioranza dei quali accademici stranieri con contatti internazionali. Nelle ultime settimane si è parlato molto delle attività di questo gruppo, le quali, secondo la radio svedese avrebbero “danneggiato gli interessi della Svezia all’estero”. Come osservato un nostro contatto su FB, «i media svedesi hanno ripetutamente sottolineato che gli iscritti a quel gruppo sono in buona parte stranieri e che le discussioni sono in inglese. Vista l’aria che tira da queste parti, il fatto che immigrati critichino le istituzioni svedesi, usando oltretutto un’altra lingua, sembrerebbe aver aggiunto offesa ad offesa». A rendere più grave l’offesa ha probabilmente contribuito il fatto che i ricercatori iscritti a Mewas sono riusciti a pubblicare articoli su testate internazionali (come Science, Time, Washington Post, Der Spiegel) (quest’ultimo in un articolo ha dato voce alle preoccupazioni di un medico secondo cui in Svezia ci sarebbe «un’aria da DDR»[5]).

In un’altra puntata alla radio svedese è stato chiesto se fosse tollerabile che ricercatori che non si occupano di temi epidemiologici intervengano pubblicamente nel dibattito sulla Strategia Svedese. Sott’intendendo una risposta negativa, i partecipanti alla trasmissione hanno discusso dell’eventuale introduzione di linee guida che “regolino” la partecipazione degli accademici in dibattiti pubblici in cui non abbiano dimostrate competenze scientifiche.

Come denunciato da un nostro contatto «in Svezia è già proibito ai ricercatori accademici di svolgere attività lavorative extra-universitarie che possano in qualche modo compromettere il rapporto di fiducia con l’ateneo di appartenenza. L’idea è di estendere questo vincolo anche alla partecipazione a dibattiti pubblici in cui i ricercatori non hanno appunto ’competenze’. La giornalista della radio ha esplicitamente proposto di estendere questo vincolo alle discussioni sui social network e sui gruppi su Facebook».

Intanto il fondatore del gruppo Mewas, dopo aver ricevuto un certo numero di lettere minatorie alla sua abitazione, e come risultato delle pressioni subite dai media e dagli attacchi su Twitter, ha deciso di lasciare il Paese. Ma le discussioni su Mewas (e su Twitter), in assenza di un vero e proprio dibattito pubblico, continuano. Alcuni membri di Mewas avvertono la propria posizione accademica come compromessa o addirittura minacciata da questa vicenda. Mewas, infatti è stato persino definito da alcuni come un gruppo “terroristico”. Alle trasmissioni radiofoniche sovra-citate l’esperta invitata a parlare, Hanna Linderstål è ufficialmente una “freelance digital analyst” che lavora per il governo al fine di procurare informazioni circa le “interferenze negli interessi nazionali e le minacce virtuali”. Una ricerca più accurata, rivela che Linderstål è una delle responsabili del “Consiglio della difesa psicologica”, un’iniziativa governativa apparentemente legata al Ministero della difesa (e forse, ma questa è solo una speculazione, ai servizi segreti) [6].

L’obiettivo ufficiale del consiglio è quello di combattere le fake news e le teorie del complotto. Tuttavia, specialmente in un contesto come quello svedese (dove la fiducia nelle istituzioni borghesi e nel razionalismo scientifico di stampo positivista rasenta il fanatismo religioso), è facile immaginare come sotto il termine ombrello di “fake news” e “teorie del complotto” possano essere comprese non solo le fantasie dei terra-piattisti o degli anti G5, ma anche qualsiasi critica al governo, inclusa, come in questo caso, la critica alla strategia svedese, persino quando questa è mossa da altri esperti (come nel caso di molti dei membri di Mewas) e non da troll o leoni da tastiera semi-analfabeti. Da notare come gli epiteti attribuiti a molti membri di Mewas su Twitter siano quelli di “estremisti di destra”, “nazisti”, “fascisti” e “cospirazionisti”. Come osservato da un nostro contatto, non c’è nulla di nuovo nell’uso strumentale di queste accuse: già a Marzo scorso «chi si opponeva alla Strategia Svedese, auspicando l’introduzione di misure più restrittive contro la pandemia, era stato spesso descritto dai media svedesi (e in particolare da quelli di sinistra) come “populista” o, addirittura, come “estremista di destra”. Anche nelle conversazioni di tutti i giorni mi è capitato di ascoltare conoscenti descrivere i paesi dove c’è l’obbligo di mascherina (o restrizioni di altro tipo) come “stati di polizia autoritari”». Tuttavia, l’incoerenza e l’assurdità di questa narrazione sta nel fatto che i movimenti di estrema destra di tutto il mondo hanno piuttosto preso la Svezia (e non altri paesi) come modello. Paradigmatica è stata la menzione della Svezia all’interno delle manifestazioni anti-lockdown della destra americana, dove si inneggiava esplicitamente alla Svezia e alla sua “libertà” («be like Sweden» campeggiava su un cartello). La Svezia, dunque, rimane l’unico Paese al mondo in cui chi ritiene che dovrebbero essere introdotte misure più restrittive, come l’uso delle mascherine nei luoghi chiusi dal momento che la loro efficacia è scientificamente provata, è accusato di “cospirazionismo” e “fascismo”, mentre nel resto del mondo è esattamente l’opposto. È interessante notare come il fanatismo sciovinista (per non dire esplicitamente nazionalista) che alimenta la strategia svedese solo apparentemente basata sulla scienza e sul razionalismo, arrivi al paradosso di creare una teoria cospirazionista ad hoc per allontanare da sé l’accusa stessa di cospirazionismo: si potrebbe chiedere infatti cosa ci sia di più “cospirazionista” che essere riusciti a convincere un intero popolo (o quasi) che la propria via è l’unica giusta e che tutte le misure restrittive adottate da tutti gli altri Paesi siano inutili contro il virus, non abbiano base scientifica e siano piuttosto il prodotto di un’assenza di ”cultura democratica”? È questo, infatti, il messaggio che è implicitamente (e, a volte, esplicitamente) passato in Svezia sin dall’inizio della pandemia in merito al perché gli altri Paesi abbiano agito diversamente.

Manifestazione della destra americana in cui si inneggia alla strategia svedese

Il tentativo di contattare “Reporters senza frontiere”

Un membro di Mewas con cui siamo in contatto ha segnalato la vicenda all’organizzazione non-governativa con sede a Parigi  ”Reporters senza frontiere”, la quale, come riportato dalla Radio svedese [7] si sarebbe limitata a contattare il suo ufficio a Stoccolma per sentirsi rispondere che le accuse di Mewas all’apparato mediatico svedese sarebbero infondate dal momento che il supporto statale ai media è normale (nella misura in cui non inficia la libertà di informazione) e che le critiche contro la strategia di gestione del virus non farebbero parte dell’area di competenza di Repoters senza frontiere [8]. In particolare, quest’ultima giustificazione appare incomprensibile. Non è chiaro, infatti, per quale ragione un’organizzazione che si occupa di monitorare la libertà di stampa e informazione dovrebbe sospendere la sua funzione di vigilanza quando a essere minacciata è la libertà di informazione su un tema specifico nel contesto di un’emergenza (come, appunto, il dibattito sulla gestione del virus). L’impressione è che “Repoters senza frontiere” non possa o non voglia immischiarsi in una questione così complicata, e presumibilmente dalle intricate implicazioni politiche, come quella dell’immagine di cui gode la Svezia in Occidente. Dal momento che in Svezia le minacce fisiche verso i giornalisti sono estremamente rare e che un fattore come il lavaggio del cervello di un intero popolo è difficile da misurare con i metodi di Reporters senza frontiere, l’opinione pubblica mondiale può continuare a credere che il paese scandinavo goda davvero di una maggiore libertà di stampa.

E se fosse accaduto altrove?

Come sarebbero andate le cose se il teatro di questa storia non fosse stata la Svezia, enclave “immutabile” delle fantasie riformiste di un capitalismo dal volto umano, ma, supponiamo, la Russia di Putin o il Brasile di Bolsonaro? Quale tipo di risonanza avrebbe avuto questa vicenda se fosse accaduta in uno di questi Paesi che, a differenza della Svezia, non godono, per motivi storici, politici e geo-politici, di un’immagine positiva agli occhi dell’Occidente né possono considerarsi suoi stretti alleati? L’organizzazione non-governativa “Reporters senza frontiere” con sede a Parigi, si sarebbe limitata a una telefonata al suo ufficio locale se oggetto della segnalazione degli attivisti Mewas fossero stati i media polacchi o ungheresi o russi o brasiliani? Va notato, che, se Russia, Polonia e Ungheria sono qui menzionate solo a scopo “illustrativo” (essendo le loro politiche di gestione del Covid non certo semi-negazioniste come quella svedese). Nel caso del Brasile, invece, l’esempio non è solo illustrativo o casuale, ma associativo: Bolsonaro, infatti, soprattutto all’inizio della prima ondata ha espresso sul coronavirus posizioni simili a quelle delle autorità svedesi, e cioè prima esplicitamente inneggianti all’immunità di gregge e, poi in un secondo momento, “semi-negazioniste”. Raccontando questa storia ai lettori italo-parlanti, speriamo di aver contribuito alla demolizione meritata e annunciata di un mito di cui le sinistre riformiste (e recentemente la parte di sinistra americana legata a Bernie Sanders) si sono alimentate per troppi decenni: quello della Svezia come enclave di una terza via tra capitalismo e socialismo reale. I nostri articoli di critica politica e reportage dove abbiamo denunciato, tra le altre cose, la crisi degli alloggi, le privatizzazioni, il carattere “liberale”, identitario e post-moderno di tutte le sinistre del paese, il razzismo delle periferie e la gestione scellerata dell’emergenza Covid puntano tutti a sfatare il mito del “paradiso socialista” svedese.

Matteo Iammarrone

Fonti

[1] https://www.folkhalsomyndigheten.se/smittskydd-beredskap/utbrott/aktuella-utbrott/covid-19/om-sjukdomen-och-smittspridning/smittspridning/

[2] https://www.statista.com/statistics/1113834/cumulative-coronavirus-deaths-in-the-nordics/

[3] https://www.dn.se/debatt/folkhalsomyndigheten-har-misslyckats-nu-maste-politikerna-gripa-in/

[4]https://www.theguardian.com/world/commentisfree/2020/may/01/sweden-coronavirus-strategy-nationalists-britain

[5]https://www.spiegel.de/politik/ausland/schweden-sind-kritiker-der-corona-politik-feinde-der-demokratie-a-addd3b27-2417-49be-9962-43cbc9239a72

[6]https://totalforsvar.org/totalforsvar/radet-for-psykologiskt-forsvar-2/

[7] https://sverigesradio.se/artikel/reportrar-utan-granser-reagerar-pa-mewas-patryckningar

[8] https://sverigesradio.se/artikel/reportrar-utan-granser-reagerar-pa-mewas-patryckningar

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.