Per una critica alle nuove teorie borghesi delle relazioni industriali… e per una critica della critica.

A partire dall’analisi della dialettica tra valore d’uso e valore di scambio, si analizzerà in che senso il capitale sia definibile «soggetto automatico» e in che modo possa essere visto come algoritmo sociale (Ricci), cioè come codice regolatore della prassi sociale. Si analizzerà inoltre il processo del feticismo delle merci che per Marx nasce proprio da tale apparente automatismo del sistema capitalistico e come su tale fenomeno si fondi lo sviluppo di alcune tra le più importanti teorie borghesi dell’organizzazione industriale, dal taylorismo al toyotismo, fino ad industria 4.0. Si mostrerà inoltre come il feticismo delle merci infici specularmente anche i critici di tali teorie, da chi (Casilli, Ekbia) intravede una nuova accumulazione capitalistica fondata sulla figura del consumatore-produttore etero-controllato, a chi teorizza un nuovo tipo di capitalismo basato sul controllo. Si vedrà come in entrambi i casi si confondano gli algoritmi delle nuove tecnologie con l’algoritmo sociale entro cui i primi vengono utilizzati e prodotti: l’algoritmo del valore. In tal senso si rende necessaria una critica della critica, per superare il fenomeno della reificazione (Lukàcs) entro cui pure alcuni teorici anticapitalisti à la page sono immersi.


Antonio Gramsci nei Quaderni nota come la teorizzazione dei nuovi metodi di produzione portati avanti dal fordismo sia stata oggetto di una lotta per l’egemonia sulla classe operaia tra marxisti e borghesia ai tempi del biennio rosso: egli ricorda i «tentativi di Agnelli di assorbire il gruppo dell’Ordine Nuovo che sosteneva una forma di americanismo accetta alle masse operaie». Per il rivoluzionario sardo il fordismo ha creato nel suo paese di origine, gli Stati Uniti, «la necessità di elaborare un nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo»: agli albori del management scientifico, pur essendo in atto un «adattamento psico-fisico» della forza lavoro «alla nuova struttura industriale, ricercata attraverso gli alti salari», non si era ancora sviluppata «alcuna fioritura superstrutturale, cioè non è ancora stata posta la quistione fondamentale dell’egemonia» (Gramsci 2007: 2146). Il nuovo modello di vita imposto agli operai sotto il fordismo era quello del sacrificio di ogni passione corporea e spirituale in funzione della produzione, il cui maggior simbolo, per Gramsci, era incarnato dal proibizionismo (per i poveri): tale modello per essere efficace ed autoriprodursi doveva essere imposto come dato normale, naturale e, in quanto tale, a-storico. La digitalizzazione dei processi produttivi, specie con l’arrivo del covid, ha reso ancor più evidente una nuova rivoluzione dei metodi di produzione in atto da tempo e a cui le contingenze del presente hanno impresso un’accelerata: la produzione e la figura storica dell’operaio massa tipica del fordismo nei paesi sviluppati sembra scomparire e nuovi metodi di produzione vengono dispiegati, metodi che richiedono a loro volta una rivoluzione negli stili di vita e della riproduzione sociale in generale. Basti pensare allo smart working. Ora, questa nuova rivoluzione della produzione ad oggi ha già fatto fiorire alcune delle sue impalcature ideologiche, mostrandosi come naturale forma di vita impressa dallo sviluppo tecnologico che, in quanto scientifico, sarebbe asettico e neutrale: si analizzerà come per gli apologeti del capitale tale fenomeno si lascerebbe alle spalle lo sfruttamento capitalistico, creando un luogo di lavoro democratico e di collaborazione uomo-macchina in un network orizzontale comune a tutta la catena della produzione di una merce. Tale network sarebbe mosso solo da esigenze tecniche, misurate dagli algoritmi che legano tra loro i mezzi di produzione tramite la tecnologia IoT, ad esempio, e il cloud. Si nascondono così come fatto tecnico gli obiettivi incentrati su produttività e profitto impressi dal management nell’algoritmo del macchinario: interessi storicamente determinati si celano in un dato tecnico/naturale. 

In opposizione agli apologeti del capitale, anche i maggiori teorici anticapitalisti tentano di comprendere le leggi dello sviluppo capitalistico nell’immagine che esso fornisce di sé e tuttavia già Marx spiegava come ciò non possa avvenire attraverso una pura descrizione di ciò che ci si para davanti. La merce ed il suo movimento appaiono non nella loro realtà, bensì in maniera rovesciata, mostrandosi come autonomi fantasmi/merci/cose e confondendo la materialità grezza dei beni fisici con le proprietà sociali realissime ed allo stesso tempo impalpabili che ne fanno delle merci: tale è, appunto, il fenomeno del feticismo delle merci. E così come Proudhon ha confuso la forma storicamente determinata della proprietà privata in un dato naturale, allo stesso modo i critici del capitalismo del controllo confondono i nuovi metodi di sfruttamento con nuove relazioni sociali e con nuove leggi di accumulazione del capitale, scambiando gli effetti con le cause e togliendo di mezzo senza troppo rifletterci il proletariato come soggetto rivoluzionario sostituendolo, ad esempio, con la figura del consumatore-produttore etero-controllato. Tutto ciò non è evidentemente solo una questione teorica, bensì estremamente politica e su cui bisogna sviluppare un confronto e, nel caso, uno scontro: tale è l’obiettivo che in questo breve ed insufficiente articolo si vuole almeno iniziare a raggiungere. Si rende così necessaria una critica della critica come quella che ai tempi fu attuata da Marx contro chi, pur opponendosi alle ingiustizie del capitalismo e ponendosi in maniera non apologetica rispetto ai rapporti sociali dominanti, alla stregua degli ideologi borghesi cadeva vittima del fenomeno del feticismo delle merci. Non si tratta di riflettere l’immagine dello sviluppo capitalistico naturaliter, bensì di raddrizzarne l’immagine rivoltata che prima facie ci si presenta in una pretesa verità empirica, come avviene nella fotografia: questa è l’essenza del metodo dialettico dai tempi di Hegel (Cfr. Garroni 1997: 158-159), questo è il significato marxiano di critica della critica. Si inizierà così di seguito a descrivere come la legge di sviluppo del capitale, il suo algoritmo, produca secondo Marx il fenomeno del feticismo delle merci a partire dalla confusione del corpo della merce, il valore d’uso, col rapporto sociale sottostante che fa della merce la cellula del capitalismo. Successivamente si studierà come tale fenomeno operi in alcune delle più importanti scuole mainstream e critiche delle relazioni industriali e dello sviluppo del capitale.

Produzione e consumo: l’algoritmo sociale del valore

Marx sin dall’inizio de Il Capitale distingue il valore di una merce dal suo valore di scambio che è rappresentato nel denaro, attraverso cui beni qualitativamente diversi possono relazionarsi tra loro nello scambio come merci. Ciò che interessa il Moro e che lo contraddistingue dall’economia politica precedente è mostrare come il denaro non nasca e sparisca contestualmente allo scambio, bensì come esso rientri nella definizione della merce stessa e ne faccia parte: «il processo di scambio dà alla merce che esso trasforma in denaro non il suo valore, bensì la sua forma specifica di valore» (1970a: p. 124). Merce e denaro si oppongono solo apparentemente nel processo di scambio, mentre sono in realtà due facce della stessa medaglia: da un lato c’è il corpo della merce, il suo valore d’uso, dall’altro il lavoro astratto umano alla base della costituzione del suo valore di scambio, proprietà sociale che fa di un oggetto utile una merce, in quanto accomuna ogni prodotto del lavoro umano in generale. Proprietà sociale e fisica, tuttavia, pur essendo due funzioni distinte – la prima storico-sociale, la seconda tecnico-naturale –, costituiscono una medesima realtà che è la merce: per Marx quindi non si deve né confondere questa come mero involucro oggettuale del valore di scambio (Ivi:103), né il denaro come semplice segno di un oggetto fisico. Bisogna capire «come, perché, grazie a cosa la merce è denaro» (Ivi:104). Se è vero che ogni padrone si figura il valore di scambio dei propri prodotti ancor prima di venderli e che è solo nella vendita che il valore di una merce si realizza, ciò tuttavia non consente di dire che il valore si formi nella vendita: è solo mediante il processo di produzione, infatti, che una merce può essere venduta ad un valore superiore rispetto ai fattori usati per produrla. Lo sviluppo della merce «deve avvenire e non avvenire nella circolazione» (Ivi:198-199) in un movimento che leghi produzione e scambio e che è il movimento per cui Marx può parlare di «valore in processo, denaro in processo e come tale capitale» (Ivi:188).  Il capitale è quel soggetto automatico, perché si riproduce automaticamente, per cui «capitale è denaro, capitale è merce», ma che solo in quanto plusvalore modifica la propria grandezza valorizzandosi nella produzione, divenendo sempre quantitativamente diverso da un ciclo all’altro, autoalimentandosi (Ivi:171). 

Tali determinazioni sono analizzate correttamente dal marxista Andrea Ricci, studioso che ha tentato fruttuosamente di applicare la teoria del valore marxiana nella spiegazione dello scambio ineguale tra paesi imperialisti e periferia. Egli scrive che «il lavoro astratto oggettivato è espresso dalla determinazione del valore di scambio come forma del valore e non dalla sostanza del valore, che è processualità e soggettività in movimento» (Ricci 2021:8, traduzione mia, come tutte quelle dal presente volume).  Il valore è così analizzato come un codice ordinatore della società «che ha origine dall’attività spontanea e scoordinata degli agenti individuali del mercato e che in quanto struttura generante ordine sociale ristabilisce l’unità dalla dualità del lavoro astratto» (Ivi:8). Il lavoro astratto che si oggettiva nella produzione di una merce e che ne determina la grandezza di valore è ad un tempo il prodotto di un lavoro concreto e qualitativamente differente da ogni altro lavoro, come il valore di scambio è opposto al valore d’uso di una stessa merce all’interno del processo di scambio tra equivalenti: tale dualità, che è sostanzialmente la stessa e che si presenta sotto due forme differenti, dal lato della produzione e da quello dello scambio, è ricondotta all’unità dal movimento del valore come soggettività in movimento. Si può così concepire l’esistenza del valore come «un algoritmo sociale, una struttura genetica razionale che rappresenta un processo astratto derivante da una reale prassi sociale che continuamente fa passare il lavoro astratto dalla potenza all’atto, conferendo ad esso […] una forma sociale obiettiva come valore di scambio» (Ivi:71).

Ora, se Ricci coglie appieno il significato del valore come soggetto automatico, tuttavia denotarlo semplicemente come algoritmo socialmente e realmente operante rischia di nascondere il primato della produzione spesso ribadito da Marx. Nei Grundrisse Marx critica da un lato l’economia politica dell’epoca che distingue produzione, scambio e consumo come i termini di un sillogismo, dando priorità al termine universale (la produzione), dall’altro compie la critica dei critici dell’economia politica che, pur rimproverando agli economisti di disarticolare la realtà sociale, ne riproducono gli schemi, ad esempio con la «concezione economica secondo cui la distribuzione si colloca, in quanto sfera autonoma e indipendente, accanto alla produzione» (2012: 43). Per Marx, al contrario, «il risultato a cui perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio e consumo siano identici, bensì che essi sono tutti momenti di una totalità, differenze all’interno di un’unità» (Ivi: 50). Quando il Moro qui parla dell’articolazione di produzione, scambio e consumo non intende trattare delle peculiarità di un sistema storicamente determinato, come quello capitalistico, ma della produzione in generale intesa come un’astrazione concreta (verständliche Abstraktion): «questo generale, ossia l’elemento comune selezionato attraverso il confronto, è esso stesso qualcosa di molteplicemente articolato […]. Parte di esso è comune a tutte le epoche; un’altra parte è comune solo ad alcune» (Ivi: 40). Pur facendo parte di una totalità, per Marx non si può tuttavia negare che sia il momento della produzione quello dominante su distribuzione, scambio e consumo poiché, proprio come «fatto biologico di fondo» (Lukács 1981: 170) «da essa il processo ricomincia sempre di nuovo» (Marx 2012: 50): ciò non toglie che la produzione stessa «nella sua forma unilaterale», cioè presa astrattamente dall’articolazione della totalità di cui fa parte, «è a sua volta determinata dagli altri momenti» (Ivi: 51). Insomma, per Marx la predominanza del momento della produzione è colta solo nel complesso dell’articolazione della struttura sociale, cioè nel movimento di produzione e riproduzione: è proprio per questo che la differenza tra un rapporto di produzione ed un altro qualifica essenzialmente la differenza tra una società e un’altra, almeno dal punto di vista economico, specificando di volta in volta la produzione in generale oggetto dell’utile astrazione sopra citata. Per quanto riguarda il determinato modo di produzione capitalistico, in Teorie sul plusvalore Marx scrive che «ciò che per il capitale costituisce il suo valore d’uso specifico, non è il suo carattere utile determinato» (1954: 388), bensì

[…] Il suo carattere di lavoro astratto, di elemento creativo di valore di scambio, e precisamente non il fatto che esso rappresenta un determinato quantum di questo lavoro generale, ma il fatto che rappresenta un quantum maggiore di quello contenuto nel suo prezzo, cioè nel valore della forza-lavoro. Il processo di produzione capitalistico non è semplicemente la produzione di merci. È un processo che assorbe lavoro non pagato, che fa dei mezzi di produzione mezzi di assorbimento di lavoro non pagato (Ivi).

Il movimento del valore nel capitalismo, come si è visto, è anzitutto caratterizzato dal fatto che respinge sé da sé nel processo di autovalorizzazione e ciò avviene anzitutto nella creazione di plusvalore all’interno della produzione. Ecco perché uno dei più grandi meriti di A. Smith, secondo Marx, è quello di aver definito il lavoro produttivo «come lavoro che si scambia contro capitale: scambio in cui i mezzi di produzione del lavoro e il valore in generale, oro e merce, si trasformano in capitale, e il lavoro si trasforma in lavoro salariato nel senso scientifico» (1954: 254). Il lavoro produttivo di capitale è il lavoro produttivo di plusvalore, cioè «è produttivo soltanto l’operaio il cui processo lavorativo equivale al processo di consumo produttivo della forza-lavoro […] da parte del capitale» (1970b: 74).

Date queste precisazioni, determinanti per cogliere la totalità articolata produzione-distribuzione-consumo e quindi l’utilizzo peculiare della dialettica in Marx, è possibile accogliere l’idea del valore come algoritmo e codice regolatore della società proposta da Ricci. Tale concezione del capitale come soggetto automatico dà anzi a Marx la possibilità di parlare della riproduzione ideologico-politica della società capitalistica, inscindibile da quella economica: «la scoperta scientifica tarda, che i prodotti del lavoro, nella misura in cui sono valori, sono espressioni meramente cosali del lavoro umano speso nella loro produzione, fa epoca nella storia dello sviluppo dell’umanità, ma non dissolve in alcun modo la parvenza oggettuale dei caratteri sociali del lavoro» (2011: 85). La confusione tra i rapporti sociali di produzione con i rapporti tra cose sta alla base della reale riproduzione sociale del capitale che, lungi dall’essere un fatto scientifico-accademico, è per Marx anzitutto un dato politico e ideologico, da superare attraverso l’attività rivoluzionaria. Ma da tale confusione, cioè dal fenomeno del feticismo delle merci, non sono esenti alcuni critici degli attuali rapporti di produzione che, come si vedrà, confondono le nuove tecnologie informatiche adoperate nei processi di lavoro con i rapporti sociali stessi, facendo analisi del capitalismo che rendono nuovamente necessaria una critica della critica legata all’analisi dei nuovi metodi di sfruttamento. Si analizzerà come le tecnologie legate all’internet of things e il cloud basate sulla programmazione di algoritmi non cambino alcunché nel modo di accumulazione del capitale né nella determinazione del valore in senso marxista, ma che anzi approfondiscono quell’algoritmo sociale basato sul valore appena tratteggiato, mascherandolo ancor più come rapporto tra oggetti e codici automatici.

I padroni più marxisti dei marxisti: la messa a fuoco toyotista del processo produttivo

Per Marx nel capitalismo «lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha lo scopo di abbreviare la parte della giornata lavorativa nella quale il lavoratore deve lavorare per sé stesso» (Ivi: 151), aumentando il plusvalore assoluto e relativo prodotti in una giornata. L’evoluzione dei macchinari e le continue rivoluzioni tecniche che il capitale compie nell’ammodernare i processi di produzione hanno come propria legge l’aumento di estrazione di plusvalore, al punto che il mezzo di lavoro di proprietà del capitalista e opposto all’operaio «diviene subito concorrente del lavoratore stesso» (Ivi: 470). Il macchinario serve al capitale per aumentare il plusvalore: tale è la legge che ne determina lo sviluppo nel capitalismo, il che non necessariamente coincide con un aumento di produttività che si traduce in un maggior quantum di merci prodotte nell’unità di tempo a minor costo. Tale meccanismo a base della concorrenza è quello analizzato da Marx e proprio, ad esempio, dell’azienda fordista, che lega l’aumento dei ritmi e la velocità dei lavoratori ad un incremento della quantità dell’output. Come spiega Ohno, il padre del toyotismo, «nel campo dell’industria automobilistica è innegabile che ci si è tradizionalmente mossi mirando all’efficienza e considerando la velocità e la quantità come i due principali fattori» (Ohno 2004: 149): tale sistema è fruttifero, secondo Ohno, nella misura in cui il mercato di riferimento è in espansione, non in un periodo di crisi. Avere eccedenze di scorte (Ivi: 25) o l’investimento in nuovi macchinari ipertecnologici, che magari richiedono l’assunzione di nuova forza lavoro per incrementare la produzione e che sono rigidi nel loro utilizzo in quanto pensati per produrre una maggior quantità di pezzi nell’unità di tempo, è alternativo al sistema Toyota, per cui «ci sono due modi per aumentare l’efficienza, o aumentare la quantità della produzione, o ridurre il numero dei lavoratori» (Ivi: 89). Questo naturalmente è giusto dal punto di vista del capitalista individuale: è noto che per Marx lo sviluppo tecnologico porta in generale alla caduta tendenziale del saggio di profitto e ad una maggior sovrappopolazione operaia, proporzionale ad una minor estrazione di plusvalore. Ciò che tuttavia qui interessa notare è come Ohno si svincoli da una crescita aziendale basata sull’aumento del quantum di merci, concentrando la propria attenzione sulla flessibilità dei processi lavorativi, in modo da produrre sempre «in accordo con la domanda reale», e sull’efficienza intesa puramente come riduzione della manodopera, che può essere realizzata «solo con l’eliminazione degli sprechi dal takt-time calcolato sulla quantità richiesta» (ibidem) e programmata addirittura giornalmente dalla direzione aziendale, sulla base delle informazioni provenienti dai venditori. Insomma, se l’aumento delle merci prodotte e la loro svalorizzazione dovuta allo sviluppo tecnologico induceva il fordismo ad autoassolversi in senso, per così dire, smithiano, in quanto ad un aumento dei ritmi comunque corrispondeva un incremento di ricchezza in termini di beni posseduti dai lavoratori (Ivi: 149) così non è per Ohno, che smette di considerare in maniera feticistica la quantità di merce prodotta, concentrandosi sulla diminuzione degli sprechi intesi come ottimizzazione del tempo di lavoro degli operai sulla base di una domanda flessibile e che non implica necessariamente un aumento della produzione materiale di beni.

Ohno si approssima così maggiormente rispetto al fordismo all’algoritmo sociale del valore come unica determinante del processo lavorativo, in un continuo monitoraggio della relazione tra domanda di mercato e produzione basato sull’aumento dei ritmi e alla riduzione del lavoro in eccesso. Il controllo degli sprechi in termini di tempo di lavoro diviene fondamentale sia nella forma di lavoro passato oggettivato nelle scorte, sia in quella dell’ottimizzazione dei singoli movimenti degli operai, che devono essere sempre produttivi: il just-in-time ed il calcolo del takt-time vanno continuamente monitorati e il flusso continuo e regolare della produzione basato su di essi diviene fondamentale, in quanto la riduzione delle scorte allo stretto necessario per la produzione programmata implica una perfetta sincronia nel processo produttivo. In questo senso è proprio nel toyotismo che si avverano le analisi marxiane, per cui «il codice della fabbrica, in cui il capitale formula come privato legislatore e a suo arbitrio la propria autocrazia sui lavoratori […] non è che la caricatura capitalistica della regolazione sociale del processo lavorativo» (Marx 2011: 463). Tale codice prevede una totale trasparenza del processo lavorativo rispetto al management: ciò è possibile attuarlo in maniera automatica, attraverso tecnologie e macchinari adeguati, facendo apparire agli occhi dei lavoratori il codice della fabbrica non come quell’autocrazia storicamente determinata del capitale descritta da Marx, ma come un fatto tecnico e naturale. L’attività lavorativa «viene concettualizzata dalla direzione e dagli staff della progettazione […] in anticipo» (Braverman 1980: 179) e tale previsione è realizzata in special modo dal controllo dei codici di funzionamento dei macchinari prodotti dalla direzione ed ottemperanti gli interessi della valorizzazione: questi sono ormai totalmente sconosciuti al lavoratore, che si deve adattare alla macchina e al rapporto sociale capitalistico inerente al codice come ad un fattore puramente materiale e tecnico. La concentrazione del sapere tecnologico in mano a progettisti e al management2 e la possibilità di quest’ultimo di influire sulla produzione implementando valori sociali mascherati da fattori tecnici, fa sì che la direzione divenga «amministrazione, che è un processo lavorativo a fini di controllo all’interno dell’impresa, e per giunta gestito in modo esattamente analogo al processo produttivo» (Ivi: 268).

Le informazioni su ogni dettaglio della produzione vengono passate da una postazione lavorativa all’altra in maniera automatica trasparente per la direzione – il sistema kanban inventato da Ohno – e i dispositivi auto-attivanti delle macchine permettono di concepire l’operaio in maniera totalmente differente. Se nel sistema taylorista il lavoratore ha un’unica e monotona mansione, nell’industria 4.0 – i cui principi sono mutuati dal toyotismo – l’operaio tiene dietro a più macchine intelligenti, sollecitato dai loro meccanismi automatici di auto-attivazione. Si può così parlare del lavoratore come di un soggetto attivo e multi-skilled: l’operaio non è più visto come mero esecutore di ordini (un trasmettitore di informazioni date), ma come un soggetto con adeguate capacità di problem solving in grado di gestire all’unisono una o più macchine, «un creatore di informazioni che accumula continuamente e riorganizza conoscenze e capacità produttive» (Fujimoto 1999: 98-99, traduzione mia). Insomma, da questo punto di vista il lavoratore non è più visto come un soggetto scimmiesco che vende la sua forza lavoro al capitalista eseguendo ordini non suoi in senso taylorista, ma diviene egli stesso una funzione del capitale: mascherando il rapporto di sfruttamento in fattore tecnico, l’operaio è portato a collaborare attivamente al processo di sfruttamento, tanto che «la lean production richiede la cooperazione della forza lavoro» per la trasmissioni di informazioni e la contestuale riduzione degli sprechi. Apparentemente, per gli apologeti, «in questa maniera l’alienazione del lavoro è superata» (Smith 2000: 71, traduzione mia).

Il lavoro aumentato e il consumatore/lavoratore: un nuovo sistema di accumulazione?

Si è visto come il macchinario sia utilizzato in funzione dell’aumento del plusvalore e come nella grande industria in senso marxista il controllo sul flusso della produzione diviene fondamentale e, storicamente, ciò è stato portato chiaramente alla luce nel campo borghese dal toyotismo. Ora, nella misura in cui l’internet of things (IoT) e la produzione di macchine intelligenti serve nell’industria 4.0 a sviluppare «metodi e standard per l’automazione e integrazione di sistemi produttivi complessi in grado di gestire produzioni on demand e just in time» (Viticoli 2017:76-77) e tecnologie IoT per collegare in tempo reale i processi produttivi di una filiera con le informazioni derivanti dal mercato afferenti alla domanda dei prodotti, è chiaro che non vi è alcuno scostamento rispetto all’analisi del toyotismo. Tale implementazione è organica allo sviluppo di filiere produttive orizzontali (Ivi: 44) afferenti indirettamente alle capofila tecnologicamente avanzata, in modo da sincronizzare il flusso della produzione in ogni punto della catena del valore a tutto beneficio della centralizzazione del capitale della capofila stessa sul modello Toyota. L’analisi svolta fino ad ora non cambia: gli algoritmi utilizzati nello sviluppo delle macchine utilizzate in tal modo sono immediatamente impiegati per l’estrazione di plusvalore e l’aumento dello sfruttamento, costituendo un sistema kanban più tecnologico e avanzato.

Ciò che interessa ora analizzare è la concezione portata avanti da alcuni studiosi secondo cui gli algoritmi regolatori delle piattaforme online, come Facebook, sarebbero non solo produttori di plusvalore, ma persino la base di un nuovo tipo di accumulazione fondata su manodopera neo-schiavile. Secondo Casilli i consumatori/utenti delle piattaforme digitali, producendo informazione utilizzate per la profilazione dei consumatori, rientrerebbero all’interno del ciclo produttivo di plusvalore creando la figura dell’utente-lavoratore e dell’unpaid labour (Casilli 2019:11) in modo che «il consumo si integra a questo punto in maniera strettissima con la produzione e diventa un ambito di accumulazione capitalistica» (Ivi: 48). È tuttavia interessante notare come Casilli spieghi che «contrariamente alle strutture produttive precedenti, le piattaforme privilegino l’estrazione di plusvalore rispetto alla produzione di valore»: nella monetizzazione e la profilazione dei dati estratti dall’attività degli utenti consiste «la captazione di valore» (Ivi: 18), basata sull’analisi delle attività psichiche e fisiche degli utenti-lavoratori non pagati. Ora, contrapporre l’estrazione alla produzione di plusvalore non significa nulla in termini marxisti: il lavoro produttivo è un’attività prodotta dal lavoratore in rapporto col capitale, non estratta da un soggetto passivo. A Casilli si possono obiettare le stesse critiche che Marx faceva ai fisiocratici, i quali pensavano che fosse la terra da cui sono estratti i vegetali a formare il valore delle merci agricole e non i contadini: ora, la terra produce ortaggi con o senza braccianti, come la gente si scambia informazioni su internet con o senza le piattaforme digitali come Facebook. La socializzazione, pur mutando storicamente, è essenziale alla società umana in quanto tale, non può caratterizzare direttamente un rapporto di produzione storicamente determinato, seguendo la verständliche Abstraktion marxiana: certo, come la terra può essere concimata, così la socializzazione può essere manipolata attraverso tecniche sociologiche e pubblicitarie in funzione di attività industriali e commerciali, tuttavia non si può dire che producano valore né la terra in una piantagione intensiva, né gli utenti che scambiano informazioni in un ambiente sociale più o meno manipolato. È il lavoro dei contadini a produrre merci agricole, come è il lavoro di profilazione a produrre valore, se proprio di valore si può parlare, come si vedrà. Ha quindi ragione Casilli, nel suo libro, a denunciare lo sfruttamento dei lavoratori sottopagati dalle aziende per educare gli algoritmi delle piattaforme e coadiuvarli nella profilazione dei dati, ma ciò va ben distinto dall’attività degli utenti.

Pur riconoscendo la legge del valore in senso marxista, altri autori hanno coniato il termine heteromation per indagare come lo sviluppo di internet e degli algoritmi produca, accanto ai metodi classici, nuovi modi di accumulazione del capitale. Oltre alla produzione di informazione sulle piattaforme (Ekbia, Nardi 2017: 176), come Casilli, Ekbia parla del rapporto tra influencers e produttori di contenuti digitali con le loro nicchie di utenti, ma il contenuto teorico-politico non cambia: «una fonte importante di heteromated labour attraverso i robot è che gli utenti siano coinvolti nel lavoro fisico che permette agli stessi robot di funzionare correttamente» (Ivi: 130, traduzione mia: si è scelto di lasciare il termine heteromated labour in originale). In definitiva che si parli come Casilli di un nuovo modo di accumulazione o che si ammetta, come Ekbia, un modo parallelo a quello tradizionale di accumulazione di capitale, la confusione tra categorie è tanta e pare che derivi dal confondere la tecnologia e il suo funzionamento con il vero algoritmo che la regola, quello del valore, anche negli autori eterodossi. Il concetto del lavoratore come creatore di informazioni, come nodo di messaggi infinitamente malleabile e sempre legato al capitale, si è visto essere un prodotto del feticismo delle merci e alla base del concetto di capitale umano. Tutte queste problematiche istanze critiche sono fondamentalmente formalizzate da Zuboff in un nuovo tipo di capitalismo, il capitalismo della sorveglianza, concetto che tanta fortuna ha avuto negli ultimi anni anche tra compagni e che «si pone in discontinuità col capitalismo del passato anche perché abbandona il rapporto di reciprocità alla base della sua adattabilità» (Zuboff 2019: 263-64). Tale rapporto di reciprocità verrebbe a mancare perché i capitalisti della sorveglianza non incontrerebbero le libere scelte dei consumatori, ma attraverso la manipolazione sociale creerebbero le loro preferenze, costituendo un capitalismo parassitario e totalitario in cui i comportamenti degli utenti sono messi a profitto e predetti dagli stessi capitalisti, riproducendo la logica dell’utente/lavoratore appena esposta. Zuboff può parlare così in senso economico di surplus comportamentale, cioè dell’immagazzinamento delle informazioni riguardo i comportamenti degli utenti da parte dell’algoritmo di piattaforme come Facebook o Google: «l’intelligenza delle macchine processa il surplus comportamentale creando dei prodotti predittivi pensati per intuire cosa sentiremo, penseremo e faremo» (Ivi:63-64).

Il ruolo dei consumatori: nuovo soggetto rivoluzionario?

Per concludere è lecito domandarsi: posto che confondere gli utenti coi lavoratori produttivi di plusvalore significa ricadere nel feticismo della merce, confondendo l’algoritmo delle macchine con l’algoritmo sociale dei rapporti di produzione in cui esse sono inserite – quello del valore -, è lecito affermare che i lavoratori che profilano gli utenti producono valore? Si è visto che il capitalismo, dalla fabbrica alla riproduzione sociale, impone un codice di comportamento che conforma la popolazione operaia agli interessi del capitale: questo, si noti, è uno dei principi del Capitale di Marx e del concetto di feticismo, non si scopre nulla di nuovo nel ripeterlo. Lo si ripete poi sin dalla nascita del toyotismo e dalla maggior integrazione tra distribuzione e produzione tipica della lean production, in cui «le aziende cercano di smuovere l’auto-definizione e dichiarazione dei propri bisogni da parte dei consumatori» (Smith 200:86), addirittura già Braverman parla di «fabbricazione di clienti» (Braverman 1980:266) per rendere meno incerto il mercato, pur ammettendo, seguendo il pensiero di Marx sul capitale commerciale, che il lavoro di marketing è improduttivo. Braverman spiega, anzi, che il comparto pubblicitario più assorbe valore, più drena risorse dall’accumulazione del capitale nel suo complesso: l’ipertrofia del marketing è infatti propria del capitale monopolistico e, si può aggiungere, in crisi. I servizi costosi di profilazione offerti dalle piattaforme digitali non creano valore per il capitalismo in generale, semmai riducono l’incertezza del mercato per poche e grandi aziende che si possono permettere di acquistarli. Lungi dall’essere produttori di plusvalore, quindi, i lavoratori sfruttati dalle piattaforme per profilare ed elaborare i dati degli utenti vengono pagati con redditi derivanti dal profitto delle grandi aziende produttive, che si rivolgono alle piattaforme per poter realizzare più agevolmente il valore delle proprie merci sottraendo quote di mercato ad altre aziende, facendo così decrescere, piuttosto che incrementare, il valore prodotto a livello sociale in funzione dell’accumulazione del capitale. Confondere il consumatore sfruttato ad libitum col lavoratore salariato e produttivo anzitutto non fa comprendere l’origine della crisi economica dovuta principalmente alla caduta del saggio di profitto, esplosa nel 2008 e in cui siamo ancora dentro (Cfr. ad es. Carchedi 2011; Carchedi 2013): avere una quantità enorme di lavoratori da cui poter estrarre plusvalore all’infinito non dovrebbe rialzare automaticamente le sorti dell’accumulazione capitalistica? Ma al di là di queste banalità, che comunque evidentemente già provano di non rendere conto dello sviluppo capitalistico, il confondere il proletariato col consumatore nel modo suddetto non consente politicamente di individuare il soggetto rivoluzionario, facendo perdere la bussola a chiunque tenti di cambiare in senso progressivo la società, come anticipato all’inizio. Ciò è causato da quel processo per cui si confondono i meri dati oggettuali, gli effetti del processo capitalistico, con le cause, sia che si voglia incensare i primi, sia che li si voglia criticare. Non vedere le contraddizioni tra il dato economico e l’elaborazione teorica del consumatore-produttore riflette dal punto di vista intellettuale quell’incremento «mostruoso dell’unilaterale specializzazione nella divisione del lavoro» (Lukàcs 2021:128) che non permette di guardare alla realtà nella sua complessa totalità, sostituendo alle connessione reali  legalità del tutto esteriori e ideologiche. Tale è fondamentalmente, per Lukàcs, il fenomeno della reificazione, che rappresenta il prolungamento sociale e politico prodotto geneticamente dal feticismo della merce.

Questo articolo fa parte del numero 2, primavera 2022, della rivista Egemonia.

Note

1. Per la svalorizzazione delle merci, acquistare più beni è ben diverso da un possesso di maggior valore nel fondo salari, anzi spesso il valore del salario e i beni materiali posseduti sono inversamente proporzionali: l’acquisizione di più beni va di pari passo con la svalorizzazione della forza-lavoro e di un divario maggiore tra il valore accumulato nella quota profitti rispetto a quello destinato alla quota salari.

2. Negli anni ’70 Braverman stima che solo un 3% della popolazione lavorativa negli Usa sappia come far funzionare le tecnologie in una fabbrica (Braverman 1980:241).

Riferimenti bibliografici

Braverman H (1980) Lavoro e capitale monopolistico: la degradazione del lavoro nel XX secolo. Einaudi: Torino.

Carchedi G (2011) Behind and beyond the crisis, International socialism n. 2, autunno 2011

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Nato nelle terre dei Pico nel 1989, ha studiato economia a Modena e filosofia a Bologna. Attualmente è dottorando in storia della filosofia alla fondazione San Carlo di Modena.