Il movimento delle donne è diventato uno dei più significativi a livello globale. L’Argentina non è stata l’eccezione, al contrario, è uno dei suoi centri internazionali. Il calore della lotta è stato un grande stimolo per dibattiti teorici e strategici, di cui il seguente articolo è un esempio particolarmente interessante e utile ad ampliare e approfondire il dibattito nel movimento femminista anche in Italia, e per affrontare alcune questioni teoriche che stanno alla base del femminismo rivoluzionario.


In un precedente articolo su come combattere e sovvertire la violenza patriarcale, abbiamo discusso contro la logica punitivista che, sia per l’aumento del potere coercitivo dello Stato o stabilendo la condanna mediatica contro particolari individui come l’unica strategia del possibile di fronte all’assenza di una giustizia che protegga le vittime, dà forma a proposte politiche con metodi basati sostanzialmente su castigo, controllo e punizione come risposta al sempre più forte problema della violenza machista, nell’illusione di una società riconciliata, senza sfruttamento o oppressione per cui lottiamo.

A questo punto, sono messe in gioco strategie e programmi, ma anche concezioni teoriche più generali che li supportano. A queste ultime, molto meno discusse, vogliamo dedicare questo articolo che, nonostante la sua estensione, è un contributo necessariamente parziale.

Politica e “stato di natura”

Carl Schmitt sottolinea che “ogni idea politica adotta un’attitudine determinata nei confronti della ‘natura dell’uomo’ e presuppone che l’uomo sia ‘buono o cattivo per natura’” (2009). In effetti, tutte le politiche sono basate, più o meno consapevolmente, esplicitamente o implicitamente, in una certa visione del mondo e dell’essere umano. Tuttavia, non ci sono solo due alternative; ce n’è una terza: che l’essere umano non sia né buono né cattivo “per natura”.
Thomas Hobbes è, senza dubbio, l’esponente più illustre dell’antropologia pessimista all’interno della moderna filosofia politica. La sua famosa affermazione che “l’uomo è il lupo dell’uomo” (Homo homini lupus) sintetizza la sua concezione secondo la quale l’essere umano è edonista ed egoista di per sé. Nello “stato della natura” regna la guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Questo pericolo di guerra è ciò che rende gli individui un patto di sicurezza basato sulla paura, da cui deriva il Leviatano, il mostro biblico con cui Hobbes si riferisce, metaforicamente, a uno Stato a cui i soggetti gli danno tutto il loro potere affinché garantisca la conservazione della propria vita.
D’altra parte, John Locke, emblema del liberalismo classico, anche se ritiene che la guerra trasgredisca la “legge morale naturale”, pensa che l’assenza di un giudice che garantisca l’adempimento della legge morale e possa mediare tra i diversi interessi degli individui nello “stato di natura”, porta a un potenziale stato di guerra; da qui la necessità del patto. A differenza di Hobbes, sostiene che le libertà dell’individuo, in particolare il diritto di proprietà (capitalista), sono costitutive del contratto, così come l’ineguaglianza che ne deriva.

Una versione a colori della copertina del Leviathan di Thomas Hobbes del 1651, dove il filosofo inglese esponeva la sua teoria dello Stato.

Contro Hobbes e Locke, possiamo collocare J. J. Rousseau in una posizione antropologica più ottimistica, resa popolare nell’idea del “buon selvaggio”. È un approccio più complesso di quello che possiamo sviluppare brevemente qui, ma possiamo sottolineare che esiste, in Rousseau, una concezione della natura umana come quella di un “essere caduto”, segnato da una sorta di versione laica del peccato originale. È il contratto liberale, con la sua proprietà privata e l’egoismo, che perverte l’essere umano, stabilendo disuguaglianza, pur garantendo un’apparenza di legittimità al dominio di una minoranza sulla grande maggioranza. La corruzione dell’essere umano non è un prodotto naturale ma sociale, quindi l’istituzione di un contratto sociale democratico ed egualitario, alla stregua di una “volontà generale”, è in grado di invertirla.
Da qualche parte tra Locke e Rousseau potremmo localizzare il pensiero di molti dei cosiddetti “padri fondatori” degli Stati Uniti, come James Madison, per il quale, sebbene non sia possibile bandire completamente il male della società umana, si può aspirare ad equilibrarlo aumentando la parte “buona” (un’idea che può essere rintracciata, ad esempio, nelle istituzioni emblematiche successive della filantropia, come il Rotary Club [1] e molti simili, in cui i capitalisti incoraggiano la fornitura di “servizi umanitari”). In versioni antropologiche più ottimistiche come quella di Thomas Jefferson, osserviamo che, sebbene da un lato egli consideri che ogni generazione ha il diritto di avere una propria costituzione ed è necessario mantenere relazioni sociali più o meno eguali, d’altra parte, per raggiungere questo obiettivo propone la difesa dell’economia agraria (“
pastoralismo”) che idealizza un mondo rurale basato nientemeno che sulla schiavitù razziale [2
].

Il “pastoralismo reale” della schiavitù dei neri impiegati nei campi di cotone negli USA.

Ora, come abbiamo detto, non sono solo due le concezioni antropologiche dell’essere umano, dove è “buono” o “cattivo” (o qualche particolare combinazione di entrambi), ma tre. Marx ed Engels saranno i rappresentanti più radicali della terza. Rifiuteranno la nozione di natura umana fissa. L’essere umano, attraverso il lavoro o l’attività deliberata, trasforma il mondo che lo circonda, trasformandosi simultaneamente: su questo si basa l’idea di “prassi”. Non esiste uno “stato di natura” né esistono istituzioni o diritti “naturali”, ma piuttosto relazioni sociali forgiate dagli stessi esseri umani che a loro volta li condizionano. Nelle parole di Marx: “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione” (1974:44).

Stato e società civile: le donne al di fuori della politica

Le pensatrici femministe, fin dal diciottesimo secolo, sollevarono la differenza sessuale e la subordinazione patriarcale delle donne come elementi centrali per una critica delle teorie del contrattualismo – Hobbes, Locke e Rousseau-, che costituiscono un momento fondante della filosofia politica moderna.
Hobbes, anche se teoricamente sostiene che donne e uomini sono allo stesso livello nello “stato di natura”, ritiene che la famiglia sia una formazione che nasce da un contratto sociale, come la società civile, dove le donne accettano liberamente la sottomissione al potere dell’uomo. Nel caso di Locke, sebbene la sua teoria ponga le fondamenta del liberalismo e del parlamentarismo borghese contro l’assolutismo che si poggiava sul diritto divino, questa fondamentale rottura con il diritto patriarcale dei signori feudali non illumina la moderna vita coniugale, che nel suo pensiero costituisce una sfera separata dalla vita sociale e politica.
Per Locke, il matrimonio è stabilito da un contratto tra uomo e donna ai fini della procreazione e per garantire l’eredità della proprietà; ma, sebbene gli individui si sottomettano volontariamente al patto coniugale, chi detiene l’autorità è il pater familias (specialmente riguardo a chi detiene la piena potestà sulle proprietà familiari), e ciò non è stabilito dal consenso né è adattato alla ragione, ma deriva dalla “natura”. Come sottolinea la filosofa femminista Cristina Molina Petit, “il matrimonio, alla fine, è risolto in un contratto in Locke, non tanto per proteggere l’interesse comune degli sposi, quanto per proteggere il patrimonio del padre” (1994).
Da parte sua, Rousseau, nonostante il carattere democratico che ha la sua teoria, che lo distingue da tutti i contrattualisti, così come la sua critica alla disuguaglianza, lascia “l’economia privata o domestica” al di fuori della “economia generale o politica”. Vale a dire, anche nel suo modello di società, lo Stato o lo spazio del pubblico è costituito come una sfera separata dalla sfera privata a cui le donne sono relegate. Addirittura, egli sostiene che:

Quando la donna si lamenta dell’ingiusta disuguaglianza che gli uomini hanno stabilito su questo punto, ha torto; questa disuguaglianza non è un’istituzione umana, o almeno non è un’opera di pregiudizio ma di ragione: colei che la natura ha incaricato è chi deve rispondere all’altro di tale deposito dei bambini (1990).

Già dagli anni convulsi della Rivoluzione francese, Mary Wollstonecraft (autrice della classica Rivendicazione dei diritti della donna, del 1792) discuterà con le concezioni dei contrattualisti e contro quelle affermazioni, come quelle di Rousseau, che relegano le donne alla sfera domestica, che sarà identificata come “irrazionale”. “Chi”, si chiede retoricamente Wollstonecraft, “ha reso l’uomo giudice esclusivo, se la donna condivide con lui il dono della ragione?” (2000).
Da allora, molte pensatrici femministe si sono interrogati sul fatto che queste moderne teorie politiche stabiliscano, al di là delle loro differenze, l’idea che la politica sia costitutiva della vita pubblica, trascurando il fatto che l’esistenza delle sfere antagoniste di pubblico e privato è anch’essa una costruzione sociale e politica e che, quindi, la famiglia e la relegazione delle donne a tale ambito sono un fatto storico che porta il marchio dell’oppressione. L’idea che gli uomini nascano liberi e uguali – che è stata molto rivoluzionaria per la borghesia in ascesa nella sua lotta contro il potere feudale che si appoggiava sull’ideologia in cui ci sono esseri scelti e predestinati per dominare gli altri che saranno i loro sudditi – escluse le donne da quell’universalismo.

Marx ed Engels furono grandi critici del falso universalismo della “uguaglianza” e della “libertà” proclamate dal pensiero borghese, così come della mitica separazione liberale tra Stato e società civile. A loro volta, nelle loro elaborazioni integrano un’analisi critica della relazione esistente tra l’aspetto delle classi sociali dallo sviluppo della proprietà privata, con l’emergere della famiglia e dello Stato. Come sottolinea Engels, il matrimonio monogamico (stabilito con questo carattere solo per le donne) era la “grande sconfitta del sesso femminile” e la sua origine è storicamente legata all’esistenza di una classe proprietaria emergente che vive a spese dello sfruttamento dei non-proprietari, ma che ha bisogno del controllo della capacità riproduttiva delle donne per assicurare una prole legittima che, a sua volta, ottiene l’eredità di quelle proprietà.

Vasily Vladimirovich Pukirev, Matrimonio ineguale, 1862, Galleria statale Tretyakov di Mosca.

Due percorsi di critica contro la finzione dell ‘”universalismo”

Il contratto sociale della moderna borghesia è, nel senso che stiamo sviluppando, un patto tra uomini “liberi” e “uguali” che costituiscono la sfera politica pubblica, in cui le donne rimarranno subordinate, poiché sono “naturalmente” destinate alla procreazione in un campo non illuminato dalla politica: la sfera privata. Ciò è osservabile dal fatto che le donne erano considerate soggette al marito nelle leggi sul matrimonio, che non ebbero accesso all’istruzione fino a diversi secoli dopo gli uomini, che non ebbero il diritto di voto fino a diversi decenni dopo gli uomini (e persino, in molti paesi, fino alla metà del XX secolo), che le leggi impedivano loro di gestire le loro proprietà, e anche il fatto che era considerato un dovere morale sancito dalle leggi che le donne si adattassero alle esigenze sessuali dei loro mariti (“dovere coniugale”), il che ha impedito, fino a pochi anni fa, la punizione penale dello stupro coniugale.
Secondo Carole Pateman, il potere patriarcale della vecchia società non resta immutato nel corso della storia, ma presenta due dimensioni operative: una è generazionale (il potere del padre sui figli e figlie), l’altra si riferisce al potere del marito su sua moglie. E, sebbene il passaggio dalla vecchia società alla costituzione degli Stati moderni implicasse una sconfitta del patriarcato come potere del padre, costituiva, nondimeno, una “società civile patriarcale” in cui le donne (come mogli e madri) rimanevano subordinate al potere maschile, al di fuori del contratto sociale, della sfera pubblica, in sintesi, al di fuori della politica (Pateman 2018).
Ora, ciò ci permette di stabilire, in senso lato, due percorsi teorico-strategici divergenti di fronte al falso universalismo di un contratto sociale fondativo (come un’ideologia della costituzione del moderno Stato borghese) il quale, presentandosi come un accordo tra individui uguali e liberi, nasconde che la sua costituzione include il “lato oscuro” di un regime di esclusione dalla vita pubblica e dall’oppressione per le donne.
Il primo potrebbe essere esemplificato negli sviluppi di Carole Pateman stessa. Come Nancy Fraser sottolinea nella sua critica al The Sexual Contract
della Pateman, seppur riconoscendone il valore come una risorsa per la critica alla teoria classica del contratto sociale, la subordinazione delle donne nella società capitalista appare ridotta a una relazione diadica uomo-donna, a mo’ di servo-padrone, in cui “la subordinazione delle donne è intesa prima di tutto come la condizione di essere soggette agli ordini diretti di un uomo particolare. La dominazione maschile sarebbe, quindi, una relazione di potere diadico, in cui un superiore genere maschile ordina al genere femminile subordinato” (Fraser 1997). Così, la fruttuosa critica femminista al falso universalismo politico borghese tende ad essere ridotta a un’analisi della società di oggi, in cui l’assoggettamento patriarcale viene mostrato come un rapporto tra uomini e donne presi singolarmente, perdendo di vista il funzionamento globale della rete e oppressione capitalista in cui accade [3].
Il secondo modo sarebbe quello di sviluppare la critica femminista della finzione dell’universalismo molto più radicalmente contro le forme attuali del patriarcato e la loro implicazione con lo Stato borghese e il sistema capitalista. Vale a dire, come quel falso universalismo dell’ideologia politica borghese, che nasconde (e naturalizza) l’oppressione delle donne, lo stesso meccanico nasconde (e naturalizza) lo sfruttamento delle grandi masse di produttori (cioè, coloro che possono solo vendere la loro forza-lavoro sul mercato, attraverso il contratto “libero” con il capitalista) da una minoranza che possiede i mezzi di produzione, garantendo, simultaneamente, la riproduzione della forza lavoro – ogni giorno e in generale – attraverso il lavoro libero e invisibile delle donne nella sfera privata.
Questa visione getta luce sulle sfere del privato e del pubblico, mostrando come acquisiscono caratteristiche specifiche all’interno del sistema capitalista patriarcale, diverso dal vecchio patriarcato con cui la borghesia ha rotto. Allo stesso modo, fa luce sulle condizioni materiali che lo sostengono e che sono tutt’altro che naturali, sollevando la prospettiva di porre fine allo sfruttamento capitalista e di conquistare la socializzazione del lavoro riproduttivo e di cura che ricade quasi esclusivamente sulle donne.

Rafforzare lo Stato capitalista-patriarcale?

Con un approccio simile a quello di Pateman, la giurista Catharine MacKinnon sostiene che, se per il marxismo il lavoro è la categoria fondamentale, per il femminismo è la sessualità, intesa come un processo in cui “si creano, organizzano, esprimono e dirigono il relazioni sociali di genere” (1995). Come sottolinea Susan Watkins: “Per lei, ‘la sessualità è disuguaglianza di genere: l’eccitazione maschile nel ridurre un’altra persona a una cosa è la loro forza trainante’. La prova di ciò sta nella consapevolezza femminista dell’esperienza vissuta dalle donne, concretizzata “nello stupro, nell’incesto, nei maltrattamenti, nelle molestie sessuali, nell’aborto, nella prostituzione e nella pornografia” (2018).
La conseguenza logica di questo approccio è un femminismo separatista. In questa visione delle relazioni uomo-donna come un campo polarizzato dall’oppressione primaria della violenza sessuale, la differenza tra il maschile e il femminile sembrerebbe occupare quel posto di homo homini lupus hobbesiano. Ogni visione dell’oppressione delle donne come rapporto diadico servo-signore, tra un uomo e una donna particolari, porta all’impotenza riguardo la trasformazione di quella situazione di subordinazione – a meno che non si cerchi di stabilire una guerra di metà dell’umanità contro l’altra metà, qualcosa che appare solo in elaborate fantasie distopiche. È una sorta di essenzialismo riduzionista, che finisce per lasciare da parte l’interrogativo del sistema sociale, la lotta contro lo sfruttamento, il razzismo, la xenofobia, l’imperialismo e tutta la serie di oppressioni che anche il capitalismo patriarcale usa per dominare.
L’output, per autrici come MacKinnon, punta infine a una strategia incentrata sul requisito dell’intervento statale per la regolamentazione, la limitazione, la punizione e la repressione di questa sottomissione che gli uomini (come individui) impongono alle donne (come individui), nelle loro relazioni interpersonali Lo Stato liberale patriarcale finisce, nel modo hobbesiano, per erigersi a potenziale “salvatore” delle donne di fronte agli uomini che “per natura” esercitano il loro dominio sessuale su di loro. Questa via del punitivismo, tuttavia, si dimostra impotente anche per affrontare un problema che ha una radice profonda, strutturale e sistemica, come dimostrano tutte le statistiche: con o senza leggi che limitano e puniscono la violenza contro le donne, il numero di crimini sessuali e di femminicidi persistono implacabilmente.

Violenza patriarcale e dominio

Tra altre, l’antropologa Rita Segato, che analizza come la guerra opera contro le donne, afferma che:

Una parte del movimento, seguendo soprattutto Catharine MacKinnon, parla della continuità dei crimini di guerra e dei crimini di pace, […] afferma che la pratica dello stupro nelle guerre contemporanee, nelle nuove forme di guerra, è un prolungamento e un’espansione dell’esperienza domestica, di ciò che accade nelle case. […] La mia posizione non è che in queste situazioni le forme della guerra siano una continuazione della vita domestica, ma al contrario, che è la stessa forma di guerra che si fa forza sulla distruzione dei corpi delle donne e quindi distrugge la fiducia comunitaria (2016).

Con questo approccio, Segato mette in campo il ruolo fondamentale svolto dalla violenza patriarcale per il dominio del sistema nel suo insieme. Alla domanda sul perché le donne vengono attaccate, risponde: “Ci sono opere che mostrano che, attaccando le donne, si attacca quel punto di gravità, come qualcuno che fa implodere un edificio: lo si distrugge a partire da lì” (2016). Allo stesso tempo, ciò che è concettualizzato come la “pedagogia della crudeltà” ha l’obiettivo di “promuovere e abituare lo spettacolo del saccheggio della vita allo spreco, lasciando solo resti” (2016).
A differenza delle prospettive fondate sulla polarizzazione uomo-donna basata sull’oppressione primaria della violenza sessuale, Segato apre la discussione su come affrontare la violenza patriarcale nella sua realtà sistemica, proponendo allo stesso modo che: “non possiamo essere un femminismo del nemico, dove una vittima sacrificale viene usata come erano trattate prima le donne, non vogliamo gli stessi metodi, vogliamo un mondo di amici e amiche” (Segato 2018).
Così specifica la sua proposta di raggiungere questo “mondo riconciliato”: “ripensare la comunità significa arruolarsi in un progetto storico che affronta obiettivi divergenti in relazione al progetto storico del capitale” (Segato 2016). Tuttavia, non stabilisce quale sia la strategia per “ri-tessere una comunità” che è, in realtà, una società divisa in classi, legittimata e sostenuta da uno Stato della classe dominante capitalista. Stabilire comunità riconciliate divergenti con il progetto storico del capitale senza considerare di distruggere il sistema capitalista alla base, attaccando il potere centrale dello Stato, diventa un obiettivo utopico che, nel presente, finisce col piegarsi al progetto riformista (e anche utopico) di limare, attraverso l’azione pedagogica, i più brutali confini della crudeltà sistemica.
Sognare una società riconciliata “di amici e amiche” è un desiderio condiviso di realizzare i nostri sogni nell’attuale definizione di una strategia per conquistarla. Se separiamo i mezzi dal fine, la società futura ci appare come un’utopia e nel presente, saremo limitati a formare con una prospettiva di genere giudici, polizia e altri funzionari delle istituzioni di questo regime sociale appestato. Non c’è nessuna pedagogia che valga per gli sfruttatori e le istituzioni dello Stato capitalista patriarcale e l’imperialismo, per i beneficiari e i garanti dell’ordine esistente.

Mezzi e fini

Proprio come non ci sono fini indipendenti dai mezzi, non esistono metodi indipendenti dallo scopo. Ora, questo significa non prestare cura, e/o pretendere una riposta dallo Stato quando siamo di fronte a un caso specifico di violenza sessista? Certo che no. La lotta per la giustizia in un caso particolare in modo che non rimanga impunita è una lotta difensiva che, se non è combinata con elementi “offensivi”, ci limita a una resistenza perpetua.
Da qui l’importanza di collegare queste particolari battaglie alla lotta più generale rivolta contro lo Stato, il cui sistema penale ha un carattere di classe rigoroso (come si vede nelle carceri popolate dai poveri mentre il grande crimine rimane impunito), le cui forze di sicurezza gestiscono le reti della tratta e il traffico di droga, e sono impiegate per reprimere le lotte dei lavoratori e contro un sistema capitalista che, mentre viene alimentato dal lavoro riproduttivo non pagato delle donne per aumentare i propri profitti, le concentra tra le fasce più povere, precarie e informali del lavoro.
È anche essenziale la relazione tra mezzi e fini per affrontare il dibattito sugli escraches [4]. Non è la stessa discussione sul metodo dell’escrache contro un sacerdote pedofilo coperto dalla gerarchia ecclesiastica o un manager che molesta le dipendenti, eccetera [5], e quella contro, come succede ad esempio in molte scuole, tra pari, adolescenti che dicono un’oscenità o infastidiscono con insistenza una compagna. Da qui la necessità di implementare protocolli che tengano conto delle differenze nelle relazioni di potere e del livello di violenza e promuovano fortemente l’organizzazione di commissioni di donne.
Separati da queste considerazioni, i mezzi finiscono per contrapporsi ai fini.

Un esempio di escrache contro l’attore Juan Darthés, attualmente sotto processo dopo una denuncia per violenza sessuale da parte dell’attrice Thelma Fardin.

Comunità e lotta di classe

Non siamo condannati e condannate a resistere eternamente. Nessuna istituzione, né contratto sociale o sessuale nasce da una supposta essenza o “natura” umana. Il patriarcato e il capitalismo possono veramente cadere. La prima condizione è di articolare la forza sociale e politica per farlo, all’insegna di una strategia e obiettivi rivoluzionari, e non per riformare questo sistema e questo Stato capitalista-patriarcale.
Per questa prospettiva è necessario, parafrasando Rita Segato, ritessere i legami tra i vari frammenti esistenti in cui è stata divisa la classe operaia, tra essa e il movimento delle donne, il movimento studentesco e l’insieme della popolazione sfruttata e oppressa. La violenza patriarcale e il maschilismo in generale attaccano il cuore dell’unità di una classe lavoratrice quasi equamente divisa tra donne e uomini. Qui infatti c’è un enorme “lavoro pedagogico” che non è una lotta politica ed ideologica solo contro le istituzioni che aderiscono all’arretramento delle classi sfruttate (come ad esempio la burocrazia sindacale stessa [6], tra gli altri), ma anche contro gli stessi compagni. E quel “lavoro pedagogico” è fatto non solo attraverso classi di insegnamento ma soprattutto attraverso l’organizzazione della forza sociale delle lavoratrici, sviluppando la loro capacità di lottare per i propri diritti, “convincendo” – in questa maniera – i propri compagni della necessità di unirsi a questa lotta. Ciò vale pure per il movimento studentesco e certamente nelle organizzazioni politiche rivoluzionarie stesse.
È in queste battaglie, nella stessa lotta contro il capitalismo patriarcale, e all’interno dei sindacati contro la burocrazia – che cerca di perpetuare una struttura sindacale machista che è configurata per sottorappresentare, fino ad escludere direttamente le lavoratrici -, dove nascono nuovi elementi di “fraternità” e “sorellanza” di classe, presente nell’idea di comunità (e brutalmente negato dalla divisione in classi della società), così come le forze per combattere il machismo senza dipendere dallo stesso Stato capitalista patriarcale, che lo promuove e legittima, così come le forze per l’autodifesa delle donne di fronte alla violenza di genere.

Marxismo e comunismo

Di fronte alla teoria punitivista di Catharine MacKinnon e alla sua critica al marxismo, Watkins sottolinea: “un punto forte del marxismo come teoria sociale è la sua capacità di vedere aspetti positivi, negativi, creazione e distruzione, all’interno di un unico quadro. Se abbiamo bisogno di una “teoria epica” femminista, essa dovrà fare lo stesso, comprendere sia i piaceri che i pericoli” (Watkins 2018).
Non esiste un movimento veramente radicale per mettere in discussione il sistema capitalista patriarcale che non ponga una sorta di “rivoluzione sessuale” che sfidi le tradizioni della moralità conservatrice. Ciò accadde, ad esempio, durante la rivoluzione russa del 1917 (fino alla reazione della burocrazia stalinista) (Goldman 2012); o negli anni ’60, quando i settori del femminismo e del movimento di liberazione sessuale mettevano in discussione le regole che governavano il comportamento sessuale e le relazioni sessuali-affettive. Successivamente, come sottoprodotto di sconfitte sociali, politiche e culturali, il capitalismo ha riconfigurato la “liberazione sessuale” in termini di “libertà di mercato”; l’identità sessuale, il desiderio e la fantasia sono diventati oggetti di profitto a livello industriale. Il puritanesimo di certe correnti femministe, generalmente associate al punitivismo, finisce per essere la controparte di questo processo [7].
Spinoza nella sua “Etica” già denunciava come l’ideale ascetico e la promozione politica di quelle che lui chiamava le “passioni tristi” costituiscano uno strumento molto efficace di dominio. Una teoria che non ha spazio per i piaceri, che separa i corpi dalle loro capacità e la possibilità di coltivare “passioni gioiose” non può mai essere utile per la liberazione delle donne, né dell’uomo naturalmente. Quella “gioia” non può nascere dall’indifferenza alla miseria del mondo, ma al contrario ribellarsi alla dominazione e quindi non cedere a quelle “passioni tristi” che sono sempre funzionali.
Il capitalismo ha portato alla sua massima espressione l’idea di Hobbes del bellum omnium contra omnes (la guerra di tutti contro tutti), non come uno “stato di natura”, ma come una realtà storica sociale. È alimentato dall’esaurimento delle energie sociali, dalla miseria e dall’alienazione delle grandi maggioranze di donne e uomini con l’obiettivo principale di aumentare i profitti di una manciata di capitalisti, minando costantemente lo sviluppo delle capacità umane, persino la sessualità e l’amicizia, fino alla cultura, l’arte e la scienza. Non combattiamo per la riforma di questo sistema e di questo Stato capitalista-patriarcale.
Come sottolinea Terry Eagleton:

Il modello liberale della società vuole che gli individui crescano ciascuno nel proprio spazio, senza interferenze reciproche. Lo spazio politico in questione è, quindi, uno spazio neutrale: è davvero lì per tenere separate le persone in modo che la realizzazione personale di uno non costringa quella dell’altro (2005).

Partendo, giustamente, dal concetto che questo modello di società capitalista non è né eterno né naturale, Marx ed Engels hanno sollevato la prospettiva del comunismo, una società senza Stato e senza classi sociali, libera dallo sfruttamento e da ogni oppressione. La loro lotta – e la nostra – è per una società in cui ognuno conquista la propria libertà e autonomia  insieme e attraverso la realizzazione personale degli altri. Un mondo di “amici e amiche”? Qualcosa del genere … noi lo chiamiamo comunismo.

Andrea D’Atri, Matías Maiello

Traduzione da Ideas de Izquierda

Note
[1] Sul tema si veda, per esempio, l’interessante serie di analisi di Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal Carcere, come “Rotary Club”, “Rotary Club e massoneria”, o “Il codice morale rotariano”.
[2] Come sottolinea Toni Negri: “negli Stati Uniti la rottura radicale, che poi divenne inerziale, dello spirito costituente con la Costituzione è segnata da un fatto originale: il mantenimento della schiavitù e in generale la questione degli “afro-americani” Questa frattura del colore è anche una frattura concettuale: è la rottura dell’universalità del concetto di libertà e uguaglianza” (2015). Qui come altrove, se non diversamente segnalato, la traduzione è nostra (ndr).
[3] Fraser ha sottolineato acutamente che “anche quando il contratto di lavoro rende il lavoratore soggetto agli ordini del capo sul posto di lavoro, costituisce allo stesso tempo quella sfera come una sfera limitata. Il datore di lavoro non ha alcun diritto di dare ordini al di fuori di essa”. E riferendosi al contratto coniugale, avverte: “Sebbene il matrimonio assomigli molto spesso ad una relazione di tipo servo-signore, ciò è in gran parte dovuto al fatto che è socialmente immerso nei mercati del lavoro divisi in base al sesso, ai regimi amministrativi di sicurezza sociale strutturata in base al genere e alla divisione sessuale del lavoro non retribuito”(1997).

[4] Termine tipico dell’America Latina che non ha una traduzione esatta, anche se per significato e tono si avvicina al nostro “sputtanamento”. Ci si riferisce in particolare ai fenomeni di denuncia pubblica o semi-pubblica, in forma anonima o no, delle violenze maschiliste subite dalle donne.
[5] Anche nel caso della denuncia fatta da Actrices Argentina, immaginiamo cosa sarebbe successo se, a partire dalla stessa denuncia contro la precarietà del lavoro nel mondo dello spettacolo, si fossero convocati tutti le giovani e le lavoratrici a mobilitarsi per denunciare queste aziende (come quelle di Tinelli o Suar, che sono tra le principali divulgatrici della reificazione delle donne in Argentina) e contro l’insicurezza del posto di lavoro in tutti i luoghi di lavoro.
[6] Arrivando fino a casi come quello della burocrazia del sindacato argentino dei saponai, che aveva avviato nei propri spazi ricreativi un giro di sfruttamento della prostituzione, anche minorile.
[7] “La giurisprudenza femminista radicale, sconfitta sul fronte culturale, si è assicurata una nicchia più solida nei campus americani. Durante gli anni ’80 e ’90, l’attivismo in materia di controversie, le decisioni gradualiste dei tribunali e l’intervento del potere esecutivo si sono combinati per espandere le definizioni del Titolo IX di molestie e aggressioni, per alleggerire l’onere della prova della denunciante e per aumentare la responsabilità dell’università” (Watkins 2018). Nello stesso articolo, l’autrice statunitense sottolinea che questa prospettiva ha guadagnato nuovo slancio durante la campagna elettorale di Obama nel 2012, quando ha scelto le molestie nei campus universitari come uno dei suoi assi polemici, e il Dipartimento dell’Educazione degli Stati Uniti ha poi emesso una direttiva che riprendeva questa agenda. Invece dei protocolli per intervenire nei casi di violenza sessista, tenendo conto se si trattava di una situazione di potere o tra pari, stabilendo il diritto di difesa dell’accusato, ecc, si è scatenata quella che alcuni hanno chiamato una seconda edizione delle “guerre del sesso” della fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, portando alla ribalta una strategia punitiva e l’ultra-regolamentazione di una sessualità presunta “legale”.

Questo articolo fa parte del numero 2, primavera 2022, della rivista Egemonia.

Bibliografia

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Molina Petit C (1994) Dialéctica feminista de la Ilustración. Barcellona:Anthropos.

Negri A (2015) El Poder Constituyente. Madrid: Traficantes de Sueños.

Pateman C (2018)[1989] El desorden de las mujeres. Democracia, feminismo y teoría política. Buenos Aires: Prometeo Libros.

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Wollstonecraft M (2000)[1792], Vindicación de los derechos de la mujer. Madrid: Ed. Càtedra.

Nata nel 1967 a Buenos Aires, dove tuttora vive. Laureata in Piscologia alla UBA, specializzata in Studi sulla Donna, ha lavorato come ricercatrice, docente e nel campo della comunicazione. È dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS). Militante di lungo corso del movimento delle donne, nel 2003 ha fondato la corrente Pan y Rosas in Argentina, che ha una presenza anche in Cile, Brasile, Messico, Bolivia, Uruguay, Perù, Costa Rica, Venezuela, Germania, Spagna, Francia, Italia.
Ha tenuto conferenze e seminari in America Latina ed Europa.
Autrice di "Pan y Rosas", pubblicato e tradotto in più paesi e lingue. Ha curato il volume "Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia" (2006), pubblicato in Argentina, Brasile, Venezuela e Spagna (2006).

Nato a Buenos Aires nel 1979. Laureato in Sociologia, docente di Sociologia dei Processi Rivoluzionari (Università di Buenos Aires - UBA) dal 2004. Militante del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) e membro della redazione della rivista Estrategia Internacional. Autore, insieme a Emilio Albamonte, del libro "Estrategia Socialista y Arte Militar" (2017).