Dal 30 maggio, a Campi Bisenzio (FI), i lavoratori in appalto a Mondo Convenienza stanno scioperando e presidiando davanti ai cancelli del magazzino. Nelle scorse settimane la vertenza si è anche estesa ai magazzini di Roma e Bologna. Abbiamo intervistato Luca Toscano, coordinatore del sindacato SI Cobas di Prato e Firenze, con cui i lavoratori stanno portando avanti la lotta.

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State presidiando da settimane. Come state facendo a resistere per tutto questo tempo? Che mezzi vi state mettendo a disposizione per riuscirci?

Gli elementi sono tanti. Di scioperi di questo tipo negli ultimi anni ce ne sono stati molti, soprattutto sul territorio di Prato, e in primis nel settore del tessile. La pratica del picchetto ad oltranza si è affinata e sviluppata. E questo rende possibile il picchetto di questi giorni. Le stesse tende che stiamo usando qui sono quelle che abbiamo utilizzato durante altri scioperi. Il camper in cui dormiamo è il frutto di raccolte economiche tra i lavoratori del sindacato in sostegno alla lotta all’Aerologistik dello scorso autunno. E lo rende possibile anche un altro aspetto, frutto di cinque anni di lotte, soprattutto nel tessile ma anche nella logistica: una comunità in lotta, che qui sostiene quotidianamente lo sciopero. Non sarebbe stato neanche immaginabile arrivare fino ad oggi se non ci fossero tutti i giorni lavoratori della logistica che, dopo aver staccato dal turno di notte, passano qui due, tre, quattro ore. E se non ci fossero i lavoratori delle fabbriche e delle pelletterie qui adiacenti che fanno lo stesso negli orari diurni. Non sarebbe possibile senza gli scioperi di solidarietà, senza le reti di supporto che coinvolgono studenti e altri lavoratori, anche non sindacalizzati, ma che nel tempo libero vengono volentieri a supportare questa battaglia.

Qual è stato il momento in cui avete deciso “ok, da domani scioperiamo”? C’è stata una scintilla che ha generato una reazione spontanea? Oppure i lavoratori hanno raggiunto un livello di sindacalizzazione opportuno per iniziare la lotta?

In questa parte di mondo del lavoro, ovvero nei settori del tessile, della moda e della logistica, non esiste e non può esistere una sindacalizzazione che non passi da questo scontro. Questa lotta non è quindi il frutto di una sindacalizzazione. Questa lotta è per la sindacalizzazione. Perché in queste aziende non è possibile iscriversi al sindacato. In questo caso neanche a quello confederale. In altri appalti di Mondo Convenienza identici a questo ci sono stati più di dieci tentativi di sindacalizzazione con il sindacato confederale, che non sono passati da questo tipo di scontro, e che però sono finiti con licenziamenti di massa.
Questi settori si reggono sull’impossibilità dei lavoratori di organizzarsi, sull’espropriazione di ogni tipo di potere. Per questo qui la sindacalizzazione è iniziata con lo sciopero a oltranza e il picchetto. Perché, dal nostro punto di vista, non c’è un’alternativa. E la storia ci dà ragione, nei successi ottenuti con i picchetti, e nelle sconfitte subite da chi così non ha fatto.
Il momento in cui i lavoratori di Mondo Convenienza hanno deciso di sindacalizzarsi e di scioperare è stato quello in cui hanno visto farlo ai lavoratori della fabbrica di borse adiacente, letteralmente a dieci metri dal loro magazzino. Questo è successo a gennaio di quest’anno, ma a luglio dell’anno scorso lo aveva fatto la fabbrica di fronte, e un mese fa un magazzino sulla strada parallela. Dopo il terzo sciopero di lavoratori accanto alla loro porta, per lo più compaesani (di origine pakistana), hanno deciso di superare la paura e fare quello che forse già volevano fare da tempo, e che probabilmente amici, parenti o coinquilini avevano già fatto nelle fabbriche tessili di Prato: iscriversi al sindacato, necessariamente di nascosto all’azienda, e poi scioperare.

Si sono verificate contro-proteste che volessero ostruire la vostra lotta?

Sì, ci sono state, come ci sono sempre state in tutti gli scontri duri che il sindacato ha affrontato in questi anni. L’azienda prova ad arruolare e a schierare dalla sua parte chi semplicemente non ha il coraggio di lottare, nel tentativo di rappresentare uno scontro tra lavoratori che in realtà non c’è. Qui, alla sera, quando il magazzino è chiuso e capi, responsabili, caporali sono a casa, molti dei lavoratori non scioperanti, anche alcuni di quelli che nei primi giorni hanno partecipato a queste sceneggiate, sono al presidio con le famiglie, con i bambini. Portano cibo, acqua, bottiglie di caffè. Al crowdfunding hanno partecipato anche alcuni dei lavoratori che i primi giorni hanno urlato “vogliamo lavorare”. Quello che sta accadendo – e questo è più insolito, ma molto positivo – è che giorno dopo giorno l’azienda è sempre più sola. E quindi anche la capacità dell’azienda di rappresentare questo scontro di facciata tra lavoratori è sempre più difficile. Era stata programmata anche una manifestazione antisciopero che però è stata dovuta annullare, perché non c’era sufficiente adesione, nonostante fossero stati offerti 250€ per chi avesse partecipato.

Qual è il rapporto numerico tra gli scioperanti e chi ha continuato a lavorare?

Oggi è difficile portare dei numeri precisi, perché lo sciopero è stato iniziato da una trentina di lavoratori iscritti al SI Cobas (che sono quelli che ancora tutti i giorni picchettano), su un totale di 120 lavoratori, quindi una minoranza. Ma la presenza al lavoro nei giorni sta progressivamente diminuendo. Possiamo dire che si sta verificando un’adesione “spuria” allo sciopero, fatta cioè di assenteismo, di “rimango a casa”, di “oggi ho un problema”. Quindi non si può dire che il rapporto sia di trenta a novanta. Se il primo giorno dall’altra parte del cancello erano novanta, ora quando sono tutti non arrivano a cinquanta, sessanta.
Si sono poi verificate dimissioni, aspetto molto interessante. E molti degli ex lavoratori partecipano la sera al presidio, dopo il turno al nuovo lavoro. Appeso a un albero davanti al cancello del magazzino c’è uno striscione che recita, in lingua romena: “Dio non ci ha creato per essere schiavi”. È stato scritto da lavoratori che si sono dimessi. La dinamica infatti è molto etnicizzata, come in tutte queste aziende. A scioperare e presidiare sono tutti i lavoratori di origine pakistana. Invece i lavoratori provenienti dall’est Europa sono in una situazione un po’ diversa. I caporali loro connazionali godono di una forma di potere sulle loro vite, per quanto riguarda per esempio gli alloggi. Alcuni di questi lavoratori sono stati portati in Italia proprio dai caporali, che dunque talvolta hanno potere anche sulle loro famiglie nel paese di origine. Per questo molti di loro stanno scegliendo le dimissioni, non partecipando al conflitto esplicito, ma aderendo comunque allo sciopero e alla lotta. Per un’azienda che non trova lavoratori (tutti i furgoni hanno un adesivo con l’annuncio di lavoro), dieci-quindici dimissioni sono tanta roba.

In casi di lotta come questo, in cui sono i corpi stessi dei lavoratori ad essere strumento di rivendicazione – si veda lo sbarramento per impedire l’uscita degli automezzi – c’è il rischio che la legge venga impugnata a difesa degli interessi dello sfruttatore. Che rischi legali state correndo e quanto questi rischi possono disincentivare la lotta?

Nella nostra esperienza non c’è stata lotta che non abbia avuto delle implicazioni giuridiche, in termini di denunce e di processi. Sicuramente anche per questa lotta andrà così. Ma in nessuno dei casi questo elemento ha portato la lotta a terminare o a deprimersi. Non crediamo che sia una variabile per cui una lotta va avanti, vince o perde. Anzi, riteniamo che quello giuridico sia un altro campo di battaglia. Noi rivendichiamo la legittimità di quello che facciamo. Crediamo che questo sciopero sia un passaggio importante per affermare la legittimità, anche dal punto di vista giuridico formale, di praticare lo sciopero in questi termini. C’è quindi una battaglia che si fa anche all’interno dei tribunali, e che produce dei risultati. In questi stessi giorni ci sono state delle sentenze importanti di assoluzione verso i lavoratori del Penny Market di Desenzano del Garda (Brescia), che stanno sempre più bocciando l’ipotesi di utilizzare il reato di violenza privata rispetto a picchetti che non praticano alcuna forma di violenza verso cose o persone. Ed è chiaro che tutto si basa sulla legittimità sociale prima ancora che politica di queste lotte. Questa è la vera difesa su cui devono contare, che si riflette poi anche sugli esiti giudiziari.

In seguito alla vertenza GKN, nella piana di Prato e Firenze la tensione riguardo alle lotte dei lavoratori è piuttosto elevata. Non a caso abbiamo visto collettivi di studenti e altre realtà associative partecipare a manifestazioni e presidi al fianco degli stessi lavoratori che forse adesso, in contesti di lotta come questo, si sentono le spalle più coperte. Quanto conta questo?

Conta tanto, e nei termini in cui dicevo prima: tutto ciò che si è costruito e che è ancora in piedi intorno alla lotta GKN, è un’altra risorsa per questa lotta. Un’altra comunità, altre reti. Altre energie che sono state e sono tuttora fondamentali. Perché danno la base, anche materiale, per permettere ad altre lotte di esistere. Sono le tende e il camper a cui accennavo prima, ma sono anche i pranzi cucinati, le persone disponibili quotidianamente per rifornire logisticamente il presidio. E quindi conta tantissimo in questi termini.
È così che si arriva al discorso della convergenza, che noi vediamo proprio come qualcosa di concreto, da costruire all’interno dei passaggi di lotta. Considerato poi che viviamo in un sistema in cui un lavoratore di Mondo Convenienza avrebbe potuto passare una vita in Italia senza conoscere uno studente italiano, senza conoscere un lavoratore della GKN, una professoressa di scuola, un impiegato delle poste, a causa di una forma di segregazione di classe nelle sue stratificazioni, ma anche esplicitamente razziale. Non è un caso che la composizione di questo magazzino di Mondo Convenienza sia completamente diversa da quella della GKN. E non è un caso che qui, durante questo picchetto, si siano ritrovati due ex-compagni di classe delle medie, sistemicamente separati alla scuola dell’obbligo, l’uno che probabilmente ha proseguito gli studi fino all’università, l’altro che a diciotto anni era qui a lavorare quattordici ore al giorno.

Che collegamento c’è tra la vostra realtà di lotta e quella GKN?

Lotte come quella GKN e lotte dei lavoratori immigrati nel settore del tessile e della logistica, descrivono le due facce dell’attuale realtà lavorativa. Da una parte ci sono le fabbriche tradizionali in via di chiusura, dismissione e delocalizzazione. Fabbriche che hanno una storia di forte sindacalizzazione. Dall’altra invece c’è una parte di mondo del lavoro che fino a pochi anni fa veniva chiamata “non sindacalizzabile” (e purtroppo c’è ancora chi lo dice), che invece è in enorme espansione. Quando eravamo a Texprint, a venti minuti di bici dalla GKN, dicevamo sempre che una è un’area enorme destinata, secondo i padroni, a diventare un ecomostro; l’altra è nel mezzo del Macrolotto 2, in cui spuntano – non è un’esagerazione – centinaia di capannoni all’anno. Se si potesse andare su Google Maps a due anni prima dello sciopero nella zona della Texprint, si vedrebbe che non c’era nient’altro che la Texprint. Oggi tra quella via e le parallele ci sono almeno quattro-cinquecento aziende di tessile.
Questo dimostra che la classe operaia non sta scomparendo. Stanno cambiando le cose. E così come GKN e le aziende del settore tessile e della logistica sono le due facce della globalizzazione e del neoliberismo, possono diventare anche le due facce della lotta, della ricomposizione, dell’unità. Di una comunità di lotta, diversa dalle comunità che costruisce il capitalismo: segregate, spesso anche in conflitto tra di loro (ad esempio tra italiani e stranieri), in funzione della competizione, ma anche dell’ignorarsi. Senza la lotta, i lavoratori Texprint non saprebbero neanche che esiste la GKN, e viceversa.

Che significato ha per voi il motto “tocca uno, tocca tutti”?

È il motto fondante, il principio etico del sindacato. Cioè che non si pensa solo per sé, ma per tutti. Ed è anche la consapevolezza che solo in questo modo si può esprimere una forza. E non solo in termini strumentali. È una tensione etica che diventa pratica. Qui fino ad ora ci sono state almeno venti aziende che hanno scioperato in solidarietà. Vuol dire sostenere economicamente chi sta scioperando, come è sempre accaduto e come sta succedendo adesso. Vuol dire cucinare. Vuol dire quindi riconoscersi in un’appartenenza che va oltre i confini della propria azienda. Come lavoratori e come lavoratrici. E che l’attacco a uno è l’attacco a tutti, la vittoria di uno è la vittoria di tutti e la sconfitta di uno è la sconfitta di tutti.

Quanto andrete avanti?

Come sempre, fino alla vittoria.

 

Intervista a cura di  Roberto Marchese e Leonardo Nicolini

Roberto Marchese

Nato a Prato nel 1996, ferroviere e studente di filosofia all'università di Firenze. Collabora con La Voce Delle Lotte approfondendo sul campo le dinamiche sindacali e le lotte dei lavoratori

Nato a Genova nel 1998, è cresciuto in una famiglia di artisti. Ha studiato filosofia prima a Pavia e poi e Firenze, dove vive attualmente. Militante della FIR, si dedica anche alla fotografia e al cinema.