Un ampio settore della comunità arabo-palestinese ha convocato un corteo nella capitale contro il genocidio a Gaza per il 5 ottobre, a un anno dallo scoppio dell’attuale conflitto. La Questura di Roma lo ha vietato. Dobbiamo respingere con la lotta il regime di censura e repressione che la legge “sicurezza” 1660 non farà che peggiorare!


Diverse realtà arabo-palestinesi del nostro paese, tra cui l’UDAP e i GPI, hanno convocato a inizio settembre una mobilitazione a sostegno del popolo palestinese e della sua resistenza, contro l’attacco genocida sprigionato da Israele dopo l’attacco condotto da Hamas e altre organizzazioni della resistenza nella striscia di Gaza il 7 ottobre.

La convocazione della manifestazione, che cade questo sabato 5 ottobre, ha visto una rapida risposta di ripudio e criminalizzazione da parte della quasi totalità delle forze politiche parlamentari – anche tra quelle progressiste d’opposizione, come nel caso del portavoce dei Verdi Angelo Bonelli, alleato di Sinistra Italiana; nel caso di questi ultimi, il portavoce Nicola Fratoianni ha dichiarato che il suo partito non aderisce alla mobilitazione, ma che difende il diritto di manifestare a favore della causa palestinese.

In effetti, la Questura di Roma ha negato l’autorizzazione a manifestare il 5 ottobre, pressata dal governo, dalle imprese e dai settori con interessi materiali negli scambi economici, militari, accademici con Israele, dalla stragrande maggioranza sionista delle comunità ebraiche italiane. Queste ultime,invece, hanno piena agibilità nel manifestare il loro sostegno al genocidio in corso a Gaza e a criminalizzare la mobilitazione antisionista come “antisemita”, quando milioni di ebrei nel mondo si sono apertamente schierati contro le politiche di Israele, contro il suo progetto coloniale genocida a danno dei palestinesi. Tale progetto si è ora esteso ai popoli confinanti, a partire dal Libano, sotto pesante attacco proprio in questi giorni, con centinaia di morti e già oltre un milione di sfollati dopo i primi bombardamenti e l’inizio dell’offensiva di terra nel sud del paese.

 

L’escalation di Israele alza la posta in gioco della lotta contro il genocidio a Gaza e l’escalation militare internazionale

La posta in gioco del corteo di sabato, così come di tutte le lotte sociali solidali alla Palestina, è stata alzata drasticamente da Israele stesso, che sta moltiplicando gli attacchi di qualsiasi tipo contro i propri nemici politici storici (non solo Hamas e le organizzazioni resistenti palestinesi, ma anche Hezbollah in Libano, in primis) e contro la popolazione civile di Gaza, Cisgiordania, Libano e Siria. È chiaro che Israele sfrutta la estrema debolezza della presidenza di Joe Biden, nel quadro di un estremo filo-sionismo della classe dominante statunitense e del suo ceto politico, principali sostenitori mondiali di Israele: una situazione che potrà variare, almeno in parte, solo a seguito delle elezioni presidenziali del prossimo novembre. 

Va tuttavia messo in evidenza come il sostegno USA a Israele abbia ragioni strutturali: l’imperialismo yankee vede nella regione Asia-Pacifico la chiave per mantenere salda la propria egemonia mondiale a fronte dell’aumento di influenza cinese, mentre l’Ucraina mostra forti segni di cedimento dopo due anni e mezzo di offensiva russa. Di conseguenza, l’appoggio incondizionato al proprio alleato chiave in Medio Oriente è necessario a concentrare meglio le forze in altri teatri strategici. 

Più critico il sostegno a Netanyahu da parte dei paesi imperialisti europei, almeno a parole: l’estendersi di una crisi umanitaria anche al Libano potrebbe aggravare la cosiddetta “crisi migratoria” e costringere gli Stati UE a fare fastidiose concessioni, anche solo finanziarie, ad alleati riottosi come Erdogan per criminalizzare ulteriormente chi fugge alla volta dell’Europa. Le economie del vecchio continente sono poi più vulnerabili degli USA a una nuova impennata del prezzo del petrolio, che un’escalation regionale potrebbe innescare. Infine, considerata l’importanza della causa palestinese per i popoli arabo-musulmani, un Israele fuori controllo minaccia di destabilizzare i regimi politici nordafricani e mediorientali, in particolare l’Egitto e la Giordania, ma anche il Marocco; regimi su cui gli imperialisti UE e NATO si appoggiano per sfruttare i popoli e i lavoratori della sponda sud del Mediterraneo. 

 

Il 5 ottobre è un primo banco di prova della stretta repressiva del DL 1660 “sicurezza”

In particolare in Italia e per il governo Meloni, sul terreno della difesa di Israele si gioca però la tenuta del discorso con cui – in nome dei valori dell’ “Occidente democratico” – si cerca di compattare il fronte interno e giustificare nuove misure repressive. Tutto ciò al fine di intervenire in una congiuntura in cui il ritorno delle tendenze alla crisi e dell’austerità cozza contro due elementi principali: 1) l’emersione, anche se ancora limitata, di importanti rivendicazioni sociali e politiche; 2) l’esigenza di aumentare le spese militari e, nel medio periodo, convertire pezzi di economia civile alle esigenze belliche. 

Così, con il divieto alla piazza del 5 ottobre, il governo Meloni ha voluto anticipare concretamente che tipo di clima dovrà crearsi dopo l’approvazione come legge del DL 1660 “sicurezza”: criminalizzazione delle opposizioni reali, sociali al governo, con il passaggio del blocco stradale da illecito amministrativo a reato, aumento delle pene per invasioni collettive dei binari delle stazioni e sanzioni severe contro azioni volte a impedire la realizzazione di opere pubbliche ritenute strategiche; punizione del dissenso anche quando si limita alla libertà di parola e di critica (arrivando all’accusa, come nel romanzo distopico 1984 di George Orwell, dello psicoreato di terrorismo “teorico”), altre violazioni dei diritti democratici elementari sono l’aumento di pena per resistenza a pubblico ufficiale (reato “classico” imputato ai partecipanti fermati durante le manifestazioni) e la criminalizzazione delle protest anche passive/pacifiche nelle carceri.

La repressione mira, in primis, al movimento per la Palestina, che più direttamente mette i bastoni tra le ruote ai piani di riarmo e ha contribuito a un parziale rilancio del movimento studentesco in una situazione in cui il governo mette in campo tagli all’università e prosegue nella privatizzazione/aziendalizzazione della scuola secondaria, con la riforma del taglio di un anno agli istituti tecnici da integrare con due anni di “ITS Academy” (cioè lezioni erogate in parte dalle aziende stesse con loro rappresentanti). 

Si vogliono inoltre colpire settori combattivi che da tempo rappresentano una spina nel fianco per gli interessi di della classe dominante e per la base sociale di piccola-media borghesia parassitaria del governo, come gli operai della logistica, i movimenti per la casa, gli attivisti ecologisti, NO-Tav, NO Ponte…

Tuttavia, l’obiettivo è in prospettiva quello di stringere la stretta repressiva attorno a settori più larghi di lavoratori, i quali, da un lato stanno rifiutando i tentativi dello Stato e dei capitalisti di fargli pagare la crisi e l’austerità incipienti; dall’altro possono essere cruciali per fermare la logistica militare. Ci riferiamo, quindi, non solo ad avanguardie politico-sindacali come i portuali di Genova del CALP, i quali combattono da anni contro l’invio di armi in scenari bellici e che insieme agli studenti hanno bloccato il porto ligure contro il genocidio sionista lo scorso giugno. Parliamo anche dei ferrovieri, in lotta dallo scorso inverno contro il peggioramento dei turni, l’adeguamento dei salari all’inflazione e per la riduzione dell’orario di lavoro, ma ormai direttamente coinvolti nell’ “economia di guerra”, con la firma degli accordi tra Leonardo e RFI per il trasporto di armamenti. 

Vi sono però altre potenziali mobilitazioni contro cui l’inasprimento della repressione può giocare un ruolo di contenimento: solo un piano di scioperi e manifestazioni radicali potrebbe infatti portare alla vittoria la piattaforma di rinnovo del CCNL della FIOM, che chiede la riduzione dell’orario di lavoro e adeguamenti salariali all’inflazione, trovando una dura opposizione contro il padronato. 

Quindi non è solo Israele, ma la politica italiana che sta sfidando tutti i solidali alla causa della libertà del popolo palestinese, e oltre, a prendere una posizione chiara di fronte alla manifestazione del prossimo sabato: solidarietà attiva, nonostante la repressione, o solidarietà simbolica, dentro il quadro sempre più stretto della repressione poliziesca?

Qui sta la questione, qui è necessario prendere posizione chiaramente e attivamente, nonostante i limiti e le difficoltà della situazione, contro l’escalation genocida di Israele: perché si blocchi la macchina militare di morte alimentata dall’Occidente, con l’Italia in prima fila, a partire dal ruolo del gruppo Leonardo e del suo profondo legame con l’industria militare israeliana; perché si utilizzi l’attacco repressivo alla manifestazione del 5 ottobre come un puntello per opporsi al DL 1660, ma più in generale all’impianto di leggi che cercano di isolare e criminalizzare l’opposizione sociale e politica radicata nei luoghi di lavoro e di studio, nelle città e nei territori. 

 

Scendiamo in piazza il 5 ottobre contro l’escalation genocida sionista, contro le politiche di riarmo e guerra, contro il governo reazionario!

Si tratta allora di dare un segnale il 5 sabato a Roma, rispondendo con una grande forza alla stretta repressiva del governo, portando intere organizzazioni (come quelle che hanno già aderito), dirigenti politici e sindacali, delegati sui luoghi di lavoro, rappresentanti degli studenti, esponenti dei movimenti e delle comunità oppresse ad appoggiare e a rivendicare una partecipazione attiva alla manifestazione, nonostante il divieto.

Non si tratta semplicemente dell’ennesima piazza di solidarietà al popolo palestinese, ma di una piazza che si trova oggettivamente a contestare tutto il sistema capitalista che permette e anzi favorisce il riarmo generalizzato e il militarismo, il colonialismo genocida di Israele, lo sfruttamento e l’oppressione violenta dei popoli “coloniali” e delle loro terre. 

La risposta, però, non è il pacifismo passivo, la rassegnazione degli oppressi di fonte alla violenza dei propi oppressori: rivendichiamo il diritto dei palestinesi a lottare con le armi, ma va anche chiarito come l’unica soluzione progressiva per la questione palestinese passa per una mobilitazione rivoluzionaria delle masse lavoratrici della regione mediorientale: solo un processo del genere può far cadere i regimi locali che fanno da stampella all’egemonia imperialista, a sostegno di Israele, nella regione. 

Abbiamo bisogno di una rivoluzione socialista in Palestina e nel Medio Oriente: è l’unica vera rivoluzione che può portare a vincere contro il sionismo, contro l’imperialismo, contro il settarismo religioso!

Questa non è la strategia di Hamas e Hezbollah: il primo spera ancora nella pressione diplomatica di petro-monarchie ultra-reazionarie come il Qatar (dove i leader di Hamas incaricati dei negoziati continuano a risiedere anche dopo l’assassinio di Hanyeh da parte di Israle); il secondo ha partecipato alla repressione delle mobilitazioni di massa contro l’austerità in Libano nel 2019. Entrambi, inoltre, puntano a coinvolgere nella mischia l’Iran, le cui milizie alleate hanno schiacciato un’enorme sollevazione di giovani, lavoratori e disoccupati in Iraq, sempre nel 2019. Questo, per non parlare della repressione feroce con cui il regime degli Ayatollah ha risposto agli scioperi degli operai del settore petrolifero, alle lotte delle minoranze curde oppresse e alle manifestazioni lanciate dalle donne del 2022, suscitando il ripudio e il disgusto dei giovani, dei lavoratori e del movimento transfemminista a livello internazionale. 

Sottacere come l’egemonia dell’islamismo politico su dinamiche di mobilitazione e resistenza in Medio Oriente rappresenti un ostacolo per lo sviluppo di processi di lotta a livello regionale – come hanno dimostrato le primavere arabe del 2011, oltre agli episodi sopra citati – non fa allora un buon servizio a una prospettiva realmente internazionalista e alla stessa causa palestinese. 

Per questo, combinando il sostegno alla resistenza palestinese a un punto di vista che metta in primo piano l’unità delle lotte degli oppressi a livello nazionale e internazionale, ci serve elaborare un comune piano di rivendicazioni attorno alle quali possiamo organizzare la gioventù, i lavoratori, le donne, tutti gli oppressi.

Come Frazione Internazionalista Rivoluzionaria, scendiamo in piazza il 5 ottobre con queste parole d’ordine:

  • Stop ai bombardamenti, agli atti terroristici e all’intervento militare israeliano in Palestina, Libano e Siria. Ritiro immediato delle truppe israeliane dai territori occupati!
  • Liberazione immediata delle migliaia di prigionieri politici palestinesi!
  • Nessuna vendita di armi a Israele. Rottura di tutti gli accordi politici, accademici e militari con Israele.
  • No al DL 1660, funzionale a reprimere il dissenso, l’opposizione sociale al governo Meloni, al riarmo e alla militarizzazione della società!
  • Basta a precettazioni e divieti di sciopero: vogliamo essere liberi di manifestare così come di scioperare! Stralciare la 146/1990 che tronca la libertà di sciopero dei servizi pubblici, a partire da quelli dei trasporti!
  • Lottiamo contro l’equazione antisionismo=antisemitismo, e contro l’islamofobia.
    Contro il tentativo del governo e della classe dominante di legittimare in questo modo le politiche anti-immigrati che dividono la classe lavoratrice! A partire dall’eliminazione della Bossi-Fini e delle norme d’accoglienza via via più repressive, promosse anche e soprattutto dal governo Meloni.
  • Lottiamo per il cessate il fuoco in Ucraina e contro tutte le guerre capitaliste! Opponiamoci al regime reazionario di Putin e all’imperialismo guerrafondaio della NATO, della UE e dell’Italia.
    Le guerre non sono “altro” dalle nostre vite quotidiane: anche quando i cannoni tuonano in altri paesi, le conseguenze economiche e sociali vengono scaricate sulla classe lavoratrice, anche nel cuore della “pacifica” Europa. I tagli della spesa sociale, l’inflazione, la povertà crescente vanno combattuti senza isolare le nostre rivendicazioni economico-sociali dalla lotta politica alla borghesia e ai suoi politici che esigono sacrifici per mantenere il loro dominio sull’economia e sulla politica internazionale.
    Dunque, la lotta alle politiche militariste e di riarmo di UE e Stati Uniti va collegata a rivendicazioni come: aumento generalizzato dei salari, una scala mobile dei salari agganciata all’inflazione e un aumento drastico della spesa sanitaria, contro la privatizzazione della salute.           
  • Serve una strategia, veramente democratica e internazionalista, per una Palestina libera, dove una minoranza ebraica possa convivere con la maggioranza arabo-musulmana, guidata da un governo operaio-contadino, all’interno di una federazione socialista del Medio Oriente.

 

Frazione Internazionalista Rivoluzionaria

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.