Sullo schermo un’immagine in bianco e nero della metà degli anni Sessanta mostra una giovane donna che chiede la parola all’assemblea riunita intorno al Municipio di New York. La telecamera la inquadra nel momento in cui dice ad alta voce: «Rappresento un gruppo di donne di classe media che potrebbe avere tutti i comfort e le opportunità che la vita offre. Di fatto, io le ho avute; però le ho abbandonate e, al loro posto, ho deciso di dedicarmi alla lotta per l’uguaglianza di genere». A parlare è Jacqui Ceballos, una delle prime militanti femministe della National Organization of Women degli Stati Uniti. Quasi mezzo secolo dopo, intervistata per il documentario “She’s beautiful when she’s angry”, ancora ricorda quei momenti. Di fronte alla telecamera trasmette l’eccitazione dell’esperienza giovanile. «Un’amica mi diede il libro di Betty Friedan, La mistica della femminilità. Ancora mi commuovo. Il libro mi sconvolse. Era il momento giusto; lo lessi quella notte stessa e l’ho capito: non era lui, non ero io, era la società» [1].

Non era lui, non ero io, era la società. È la sintesi più precisa di quello che il femminismo della seconda ondata riuscì a rivelare, concettualizzare e trasformare in vessillo e programma di lotta. Non erano i “lui” né le “lei” particolari, in una relazione segnata dalla violenza ristretta all’ambito privato; esisteva uno schema che si replicava in infinite testimonianze individuali, dimostrando che la singolarità di quella esperienza rinchiudeva dialetticamente il suo reale carattere strutturale. Il femminismo della seconda ondata fu capace di cogliere che ciò che era stabilito come “naturale” era in realtà la cristallizzazione di complessi processi storico-sociali. Da ciò si stabilì la premessa secondo cui ciò che appariva come “personale” era in realtà “politico”.

Il patriarcato fu quindi concettualizzato in modi diversi. Per le femministe “radicali”, che concepiscono la società come divisa in classi sessuali, la base dell’oppressione di classe delle donne si trova nell’appropriazione e nel controllo della sua capacità riproduttiva da parte della classe sessuale dominante degli uomini. Per le femministe “materialiste”, secondo cui uomini e donne costituiscono due classi sociali antagoniste, il modo di produzione capitalista coesiste con il modo di produzione domestico, in cui la classe degli uomini sfrutta il lavoro non remunerato della classe delle donne e si appropria del suo prodotto.

Le socialiste, dal canto loro, elaborarono una concettualizzazione del patriarcato e dell’oppressione delle donne: utilizzando il metodo del materialismo storico e le elaborazioni di Marx ed Engels, risalirono alle origini dell’oppressione collocandola nelle prime società divise in classi, intendendo queste in funzione della proprietà privata dei mezzi di produzioni, detenuta dalle classi dominanti contrapposte alle classi dominate.

Hanno inoltre messo in rilevanza l’inestricabile relazione dell’oppressione con il modo di produzione capitalista, in cui il lavoro domestico gioca un ruolo fondamentale nella riproduzione gratuita della forza-lavoro. Non ci soffermeremo qui sulle differenze tra le varie correnti di pensiero: basti solo ricordare che tutte concordano nel pensare che questa oppressione ha carattere strutturale nelle società contemporanee [2].

In questo contesto, si è potuto rendere visibile il fatto che la violenza contro le donne non era un fenomeno eccezionale, opera dello smarrimento o della patologia di un individuo isolato. La violenza contro le donne ha così smesso di essere un tabù, silenziato dalla privacy delle quattro mura domestiche, per uscire allo scoperto come meccanismo di disciplinamento, strumento di intimidazione e coercizione delle donne che garantisce lo status quo dell’ordine sociale patriarcale cui sono subordinate.

Non solo il patriarcato, ma anche il colonialismo, il razzismo e l’eterosessismo furono messi in discussione in quanto sistemi di dominazione (e quindi di violenza) in un periodo di grande radicalizzazione sociale e politica delle masse in entrambi gli emisferi, che si mobilitavano contro lo sfruttamento capitalista e l’oppressione esercitata dalla burocrazia stalinista negli Stati operai dell’est Europa. Ma questa fase di radicalizzazione, inserita in un processo che non approfondiamo qui, fu sconfitta e deviata [3]. [Come abbiamo già approfondito in un altro numero di Izquierda diario] “mentre l’individualismo si imponeva globalmente, e di pari passo le politiche economiche spingevano milioni di persone alla disoccupazione, stabilendo la frammentazione e la delocalizzazione della classe lavoratrice, il femminismo si allontanava sempre di più da un progetto di emancipazione collettiva, ripiegandosi in un discorso sempre più solipsista” [4].

Il politico è personale?

L’idea dell’emancipazione fu abbandonata e barattata dalla maggioranza (delle femministe, ndr) con una strategia di riforme progressive e cumulative di diritti. L’organizzazione e la lotta politica che denunciavano lo Stato a causa della riproduzione e della legittimazione dell’oppressione delle donne furono rimpiazzate in gran misura dalle lobby delle fondazioni private e dall’incorporazione alle stesse istituzioni del regime politico per cercare di modificarlo “da dentro”.
La critica radicale al capitalismo si trasformò nella ricerca dell’ampliamento di cittadinanza in democrazie capitaliste degradate che già poco o nulla avevano da offrire per porre rimedio ai torti che caratterizzano le vite delle masse. L’ordine sociale e morale fondato sulle relazioni di produzione capitalistiche fu separato dallo sfruttamento del lavoro umano che lo sostiene.

Il femminismo egemonico, durante i decenni del neoliberalismo, si ripiegò sulla lotta per il riconoscimento dei diritti sul terreno dello “Stato democratico” – uno Stato apparentemente senza genere e neutrale di fronte alla divisione di classe. Però a questo stesso Stato (che non è neutrale, ma borghese), che è il garante della violenza dello sfruttamento salariato da parte della classe dominante e che si fonda sulla protezione della proprietà privata attraverso il monopolio della violenza, verrà richiesto di riconoscere gli abusi commessi nei confronti delle donne e di prevedere un castigo per chi se ne rende autore.

È stato così che il femminismo ha ottenuto il riconoscimento della violenza coniugale, che è appunto violenza, e non un diritto del coniuge; ha inoltre ottenuto il riconoscimento dello stupro come violenza, e non come usanza culturale, mentre le molestie sono state riconosciute come violenza, e non come offese irrilevanti. Il femminismo ha messo a nudo il fatto che l’oppressione delle donne consiste proprio nella naturalizzazione di questa subordinazione sessuale o di genere che accade nell’ambito della vita privata delle persone e che perciò continuava a restare sotto silenzio. Che tra i sessi o i generi non solo c’è differenza, ma c’è anche, fondamentalmente, un rapporto gerarchico. O più precisamente, che l’oppressione delle donne consiste nella gerarchizzazione di questa differenza.

Ma paradossalmente, nell’atto di esigere il riconoscimento di queste forme violenza da parte del sistema penale, si è ottenuto il risultato opposto a quello che si cercava. Perché, anche se la tipizzazione di queste condotte in quanto crimini ha permesso che fossero visibili le sofferenze delle donne, il sistema penale funziona attraverso l’attribuzione di responsabilità individuali nei confronti di chi causa dei danni. Da questo punto di vista, quindi, l’oppressione sessuale o di genere, in sé, non può costituire un danno o un delitto passibile di essere castigato attraverso il diritto penale.
Rendere oggetto di azione legale l’oppressione patriarcale restringe la sua definizione, limitando gli ambiti della punizione a una serie di condotte tipizzate di cui sono responsabili solo alcuni individui isolati.
Due attiviste femministe (e avvocate) hanno segnalato questi limiti in una conferenza sulla violenza sessista: “La violenza contro le donne è iscritta nelle relazioni di dominazione patriarcale. Queste relazioni patriarcali sono basate sul dominio degli uomini eterosessuali adulti sulle donne e le bambine e i bambini. La violenza è costitutiva di ogni politica di oppressione e serve, nel caso dell’oppressione di genere, ad affermare la posizione di inferiorità sociale e sessuale delle donne. Non si tratta di problemi isolati, di patologie individuali, di persone disadattate, come mostrano le elaborazioni ideologicamente egemoniche. Si tratta di una questione strutturale, costitutiva della dominazione. Da ciò è facile capire che porre fine alla violenza non può essere frutto di alcune riforme legali più un po’ di assistenza e un pizzico di psicoterapia, ma un cambiamento radicale delle relazioni di potere patriarcale” [5].

E non sono le uniche a dirlo. Come segnalano Bergalli e Bodelón, “l’affermazione secondo cui determinati cambiamenti giuridici possono avere effetti limitati e costituire più nuove forme di legittimazione dello Stato capitalista contemporaneo che fornire cambiamenti sociali emancipatori, è condivisa da molte analisi femministe” [6].

Tuttavia, queste analisi non hanno prevalso. Hanno avuto la meglio le altre che, come evidenziano gli autori sopracitati, propongo che “la soluzione di un problema generale della società sia demandata a un sistema particolare, il quale dovrà regolare il tutto pur essendone una parte. Questo è il migliore dei paradossi: il diritto dovrà, ma non potrà, assicurare l’uguaglianza” [7].

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L’impotenza del riformismo per essere #NonUnaDiMeno

La tipizzazione nel sistema penale e la messa a punto di pene, pertanto, anche se raccoglie una relazione di forze generata dalla lotta e dalla mobilitazione delle donne contro l’oppressione, non può fare altro che mitigare – solo in casi singoli – le conseguenze della violenza patriarcale. Ma la messa a punto e l’aumento di pene e castighi esemplari, che si spera agiscano non solo come punizione per le vittime ma anche come politica di prevenzione di future condotte criminali, hanno dimostrato di non essere capaci di mettere fine alla violenza patriarcale, che anzi continua a riprodursi proprio perché è strutturale alle società divise in classi. In Argentina, nel dicembre 2012 è stata promulgata la legge 26791 del Codice penale che stabilisce che “si imporrà reclusione perpetua o prigione perpetua a colui che ucciderà (…) una donna, quando il fatto sia perpetrato da un homo e mediante violenza di genere” [8].

Tuttavia, le statistiche dei femminicidi continuano a mantenere l’inquietante media di una donna assassinata ogni trenta ore. I dati degli anni precedenti alla promulgazione di questa legge sono di 208 femminicidi nel 2008; 231 nel 2009; 260 nel 2010; 282 nel 2011 e 255 nel 2012. Dopo l’inclusione del femminicidio nel Codice penale si è verificato, contrariamente a quanto sperato, un lieve incremento dei crimini contro le donne: 295 femminicidi nel 2013; 277 nel 2014 e 286 nel 2015.
Le gigantesche mobilitazioni che, in Argentina, si sono ritrovate sotto la parola d’ordine #NiUnaMenos sono una dimostrazione esauriente del fatto che la giustizia che agisce solo di fronte al cadavere di una donna è una giustizia insufficiente per definizione, oltre ad intervenire troppo tardi [9].
Famigliari e amici delle vittime sanno bene che, di fronte a simili tragedie, la richiesta di giustizia è tassativa. Ma le loro testimonianze avvertono sempre circa i limiti della loro portata. Più di una volta ascoltiamo le loro dichiarazioni sui media, quando dicono: “Siamo soddisfatti della condanna, ma questo non ci riporterà indietro nostra figlia (o amica, o madre o sorella)”. Rendere oggetto di azione legale la lotta contro l’oppressione patriarcale ci porta a discutere sulle pene e i castighi che meritano i femminicidi quando la violenza è già stata consumata.
Accompagnare la richiesta di giustizia per le vittime di femminicidio, esigere dallo Stato l’applicazione di politiche di assistenza totale alle vittime di violenza prima che vengano uccise, denunciare la ri-vittimizzazione provocata dagli stessi agenti dello Stato, esigere una legislazione di diritti elementari di cui, ancora oggi, sono private le donne nelle democrazie capitaliste contemporanee sono istanze parte di una lotta legittima per rendere meno insopportabile la vita di milioni di donne.

Ma costituire queste rivendicazioni con l’unico obiettivo della lotta ha condotto il femminismo all’attuale situazione di impotenza, in cui la violenza patriarcale si acuisce sempre di più e acquisisce nuove forme sempre più mostruose, modellate dal capitalismo. La trasformazione della prostituzione in una industria di proporzioni monumentali, la fluidità del traffico illegale di donne e bambine perpetrato attraverso reti di tratta di persone, i massacri ignorati di centinaia di donne in diverse regioni del mondo, le condizioni di povertà e ipersfruttamento di milioni di donne incluse nel mercato del lavoro negli ultimi decenni, il femminicidio causato dagli Stati in cui l’interruzione volontaria di gravidanza continua ad essere reato, ecc, sono la prova tangibile che limitare la lotta per l’emancipazione alla lotta per i diritti e all’attribuzione di pene da parte dello stesso Stato attraverso cui le classi dominanti esercitano il loro dominio sulle masse, conduce all’impotenza, allo sconforto e alla disperazione.

Una strategia che si è dispiegata durante i decenni in cui la sconfitta del movimento di massa ha oscurato la prospettiva di un cambiamento rivoluzionario della società capitalistica. Prospettiva che deve essere riconsiderata se, come viene scandito ad alta voce nelle mobilitazioni delle donne, #VivasNosQueremos.

Andrea D’Atri

Traduzione di SG da Ideas de Izquierda

Note

1. “She’s beautiful when she’s angry”, documentario disponibile su YouTube.

2. A. D’Atri, “Feminismo y Marxismo: Más de 30 años de controversias”, Lucha de Clases 4 segunda época, noviembre 2004.

3. A. D’Atri, L. Lif, “La emancipación de las mujeres en tiempos de crisis mundial” y “La emancipación de las mujeres en tiempos de crisis mundial (II)”, IdZ 1, julio 2013 e IdZ 2, agosto 2013, respectivamente.

4. A. D’Atri, L. Lif, “La emancipación de las mujeres en tiempos de crisis mundial (II)”, IdZ 2, agosto 2013.

5. M. Bellotti y M. Fontenla: “Políticas feministas antiviolencia y estrategias legales”, Travesías, CECyM, 1995.

6. R. Bergalli, E. Bodelón, “La cuestión de las mujeres y el derecho penal simbólico”, Anuario de Filosofía del Derecho IX, 1992.

7. Ibidem.

8. Codice penale argentino – Delitos contra la vida, articolo 80.

9. Vedi A. D’Atri, “Sangre nuestra”, Ideas de Izquierda, 30 giugno 2016.

Nata nel 1967 a Buenos Aires, dove tuttora vive. Laureata in Piscologia alla UBA, specializzata in Studi sulla Donna, ha lavorato come ricercatrice, docente e nel campo della comunicazione. È dirigente del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS). Militante di lungo corso del movimento delle donne, nel 2003 ha fondato la corrente Pan y Rosas in Argentina, che ha una presenza anche in Cile, Brasile, Messico, Bolivia, Uruguay, Perù, Costa Rica, Venezuela, Germania, Spagna, Francia, Italia.
Ha tenuto conferenze e seminari in America Latina ed Europa.
Autrice di "Pan y Rosas", pubblicato e tradotto in più paesi e lingue. Ha curato il volume "Luchadoras. Historias de mujeres que hicieron historia" (2006), pubblicato in Argentina, Brasile, Venezuela e Spagna (2006).