Partiamo da una serie di fatti: La polizia di Stato, in tenuta antisommossa, il 9 di Febbraio carica a freddo un gruppo di studenti che occupano la biblioteca di Lettere in Via Zamboni 36 a Bologna. Si sta protestando contro l’installazione di un sistema di controllo degli ingressi, passato agli onori delle cronache come “tornelli”, un sistema che l’Università vuole imporre nonostante qualche giorno prima una petizione di 500 firme raccolte in poche ore abbia espresso parere contrario. La motivazione ufficiale dei “tornelli” resta quella della sicurezza degli studenti e delle studentesse (il cui corpo è strumentalmente assunto a motivo della stretta securitaria), quella reale, “logica”, concreta, prevedibile, è la dotazione di un sistema di controllo che quantizzi gli ingressi, pienamente in linea con la trasformazione, già in atto, dell’Università pubblica in Università azienda, affidata ai privati e, più in generale, coi processi di “normalizzazione” della città di Bologna (che, non va dimenticato, con la giunta Merola sta sgomberando tutti gli spazi occupati, anche quelli storici) nonché criminalizzando qualsiasi forma, più o meno organizzata, di opposizione a questa svolta reazionaria dell’Università, della città, del Paese (dagli studenti, ai facchini ai movimenti per la casa). Il “modello-PD” insomma, declinato nella sua variabile più dura. E, per chi avesse dei dubbi, è proprio di questi giorni la notizia del Decreto Minniti che, from status to contract, sembra la conversione in legge scritta di una pratica ideologica entrata, già da qualche anno, in fase di rodaggio. Del resto non è una novità che Bologna sia terreno di sperimentazione, e di “sfogo”, della sinistra “ufficiale” (del PCI riformista e governista ostile ai movimenti prima, così come del centro-sinistra renziano oggi).
I media borghesi di centro-sinistra dal tono serioso e quelli della destra più folkloristica, dai titoli degni di “Lercio”, hanno entrambi gettato fango, sin da subito, sulla protesta, trasformando le vittime (gli studenti) in carnefici (la polizia). Tutte le testimonianze dirette di quel giorno e persino i video che si trovano su Bolognatoday, mostrano un’efferata violenza e gratuità nell’irruzione inaspettata della polizia. Uno studente di Storia, intervistato su Malware, dichiara che quel giorno l’Università era stata occupata e molti continuavano serenamente a studiare nelle aule studio. Quando inaspettatamente c’è stata l’irruzione, culminata col questore che ordina arbitrariamente di caricare gli studenti e da questi ultimi che reagiscono difendendosi come possono dalle cariche. E la polizia che nell’azione, nella carica “violenta come un treno”, trascina via il sistema anti-taccheggio procurando migliaia di euro di danni.
Persino il meno liberale di un “elementare” stato borghese democratico potrebbe riconoscere che è stato un errore, una mossa azzardata, un potenziale boomerang mediatico. Merola e Coccia, però, non lo ammettono, anzi arrivano persino a rivendicare il loro gesto da Rambo. Gli fanno eco i loro giornali nella costruzione mediatica dello studente di Bologna “cannato”, nullafacente e facinoroso. Una reazione beffarda, forse motivata dal fatto di poterselo permettere in una fase come questa, in cui persino colpire studenti inermi lascia indifferenti molti e non diventa motivo di abbandono del quotidiano individualismo e della quotidiana lotta tra poveri a cui ci indottrinano. Dati questi segnali, non è esagerato definire questa fase “reazionaria”, caratterizzata dalla normalizzazione di certe pratiche anche presso l’opinione pubblica più “progressista”. La classe dominante in crisi, non avendo più da concedere nemmeno le briciole che poteva permettersi di rilasciare attraverso i meccanismi di un welfare socialdemocratico, è costretta a ricorrere con più forza e maggiore frequenza alla facile arma delle botte coi manganelli, preoccupandosi certo di ammantare e giustificare propagandisticamente (laddove possibile) questa sua debolezza.
Per inciso, un piccolo evento significativo del clima dell’Unibo: a fine Marzo il giorno della presentazione ufficiale di Malware, la fanzine su cui è uscita questa intervista, è stato boicottato dall’Università con l’evacuazione delle aule e l’interruzione della corrente elettrica e dell’acqua. (Questa volta almeno non con le percosse, ma con una strategia “elegante”, non per questo meno efficace, sicuramente più facilmente giustificabile agli occhi dei benpensanti).
LA PETIZIONE DI SOLIDARIETÀ E QUELLA CONTRO
Dopo il fattaccio è stata lanciata una petizione online da parte di “Studenti del 36”, il collettivo principale promotore delle iniziative contro i tornelli. L’appello era rivolto essenzialmente ai professori, ma anche ad artisti, intellettuali e personaggi dello spettacolo. La parola d’ordine utilizzata era semplice, universale, di ampio respiro: “mai più polizia in università!”. I problemi politici di rapporti tra studenti e rettorato, così come il dissenso tra gli studenti, non devono essere governati dall’arbitrio dei manganelli.
Il numero di firme raccolte è stato modesto. Ma ciò che potrebbe colpire è il fatto che tra i professori dell’Unibo, ma, in generale, anche delle università italiane, si contano solo un paio di firme. Tutti gli altri professori firmatari insegnano in Università straniere. È il “miracolo” del dover obbedire a diverse strutture di potere, sicuramente analoghe, ma lontane chilometri e tra loro indipendenti.
Una sorta di contro-petizione è stata invece lanciata su change.org da altri studenti, una petizione che si dissocia dall’operato del CUA (Collettivo Universitario Autonomo), ma che soprattutto vergognosamente dichiara: “Supportiamo le istituzioni dell’Ateneo e attendiamo che vengano presi dei provvedimenti nei confronti dei responsabili dei danni ai quali l’Università ha assistito”. È stata firmata da più di 8000 sostenitori, molti dei quali, è vero, studenti non iscritti all’Università di Bologna e sicuramente molti altri ancora non studenti. Che sia significativa o no la petizione, l’impressione è, anche seguendo i post sui social o chiedendo ad amici e conoscenti, che una grande massa di studenti non abbia realmente compreso la portata della lotta, sicuramente in parte (forse in gran parte) per i limiti di chi la dirigeva, ma non solo.
Questi segnali apparentemente insignificanti, la dicono lunga sul clima Unibo e sulla sua pericolosità, anche in vista di ulteriori recrudescenze reazionarie delle governance future in Italia e nel mondo, e certo ci rammenta con quali forze in campo sarà giocata la grande responsabilità storica di direzione e di organizzazione che abbiamo di fronte come studenti, nello specifico da studenti figli di lavoratori nonché futuri precari (o disoccupati).
UN MOVIMENTO CHE STAVA PER NASCERE: POTENZIALITÀ E LIMITI
Nei giorni successivi al “Fattaccio”, il collettivo “Quelli del 36” è riuscito a portare in assemblea all’interno dell’università circa 500 studenti o più.
Questo fatto di straordinaria rarità in tempi in cui le opinioni sono affidate perlopiù ai social, mi aveva quasi commosso. Ma non è certo delle mie emozioni che voglio scrivere, bensì fare delle considerazioni sui contenuti di quelle assemblee, sulla loro composizione, su ciò che si è detto, sulle contraddizioni emerse e sul perché, ed anche su ciò che non si è detto. Dal momento che quello che non si dice a volte è più significativo di ciò che viene rivelato.
Prima considerazione da fare è che l’eccezionalità di un simile incontro si è potuta verificare in seguito all’esplosione mediatica cittadina e nazionale, a cui i vergognosi fatti dell’irruzione della polizia nella biblioteca del 36 sono stati esposti. Senza quell’attenzione mediatica, favorita forse dal comportamento della polizia e da un questore che ha osato davvero troppo, anche a detta dei benpensanti, probabilmente durante quella prima grande assemblea non saremmo stati così tanti.
E ciò un po’ amareggia perché significa, e sarò forse banale, che nella percezione della maggioranza della massa studentesca un fatto accade solo se narrato dai media, o quanto meno, è percepito con maggiore forza e vigore di realtà, se narrato dai media, proporzionalmente alla attendibilità percepita e alla reputazione del mezzo.
Seconda considerazione: un fatto eccezionale (ma sempre più “normale” e normalizzato) quale è stata l’irruzione al 36 della polizia, sia pure per via del clamore mediatico e del tam tam sui social, ha avuto una risposta altrettanto eccezionale quale è stata quella prima grande assemblea.
I compagni e le compagne del CUA hanno introdotto la serata riassumendo la loro versione, di testimoni in prima persona, di ciò che era accaduto nella biblioteca. Dopodiché una ragazza si è occupata di registrare i nomi di chi voleva intervenire. Più di una decina di interventi, tra loro variegati, alcuni significativi dal mio punto di vista, altri meno.
L’impressione infatti è che almeno la metà (se non più) degli studenti presenti fossero curiosi venuti per capire cosa mai stesse succedendo nella loro Università e perché persino i tg nazionali ne parlassero. Una parte di questi curiosi però si è mostrata favorevole ai tornelli, alcuni di essi non avevano una opinione precisa, altri ancora erano contrari, ma denunciavano i modi “violenti” del CUA. A un certo punto un ragazzo ha chiesto a coloro che erano contrari alla violenza di alzare la mano. Tanti presenti lo hanno fatto. Per quanto ci riguarda, questo è un problema perché rivela una grande ingenuità da parte degli studenti circa un fatto essenziale ed elementare che caratterizza la storia umana: nessun grande stravolgimento, che piaccia o no, si è verificato senza una certa dose di violenza. Sulle modalità di questa violenza poi, sul fatto che essa debba essere violenza rivoluzionaria e non violenza individuale magari perpetrata da un folle o da un gruppo ristretto (come fu ad esempio per le Brigate Rosse) e in maniera sconnessa dalla classe, dagli sfruttati e dalla maggioranza, su questo certamente si può e si deve discutere.
Fortunatamente qualche intervento dopo qualcuno ha ribadito come sia il sistema capitalistico, quello entro cui e attraverso cui ci muoviamo e sotto il quale siamo costretti a rinunciare al presente e ancor più al futuro, ad essere violento e non chi manifesta. Lo violenza impiegata nello scaricamento di un tornello infatti non sarà mai equiparabile a quella che condanna una intera generazione alla precarietà, per quanto questo secondo tipo di violenza possa essere più sottile e meno rumorosa nel suo manifestarsi.
Gli studenti venuti lì perché curiosi non sarebbero più tornati. Un’assemblea infatti, come prevedibile, non è stata sufficiente a mutare le loro (false) coscienze.
Ma anche quelli più coscienti hanno gradualmente abbandonato l’assemblea. Quello che avveniva al suo interno era essenzialmente ripetersi all’infinito quanto fosse stato vergognoso il Fattaccio dell’irruzione e che Ubertini e la governance dovevano pagarla, che bisognava riappropriarsi dei “nostri spazi” etc…riducendo ogni intervento a slogan bellicosi che alle orecchie della grande massa degli studenti suonavano probabilmente estranei, faziosi, lontani dai loro bisogni. Le assemblee mancavano, inoltre, per scelta precisa di chi le dirigeva, di meccanismi che le rendessero operative. In questo contesto, forse un po’ in ritardo, con un gruppo di compagni iscritti a differenti organizzazioni comuniste ci siamo riuniti sotto la sigla di “Alcuni studenti del 36” e abbiamo suggerito all’intera Assemblea l’introduzione di un meccanismo di votazione democratica delle proposte concrete emerse su come mandare avanti la lotta. I nostri interventi, proprio come gli interventi di chi pure era contrario alla votazione, sono caduti nel vuoto. Dopo l’iniziale enfasi emotiva dunque, quasi immediatamente il clima all’interno di questi assembramenti ha cominciato ad incrinarsi e i rapporti di forza e le carenze organizzative e teoriche di chi in quel momento per contingenza storica dirigeva, a palesarsi. Così persino i centinaia di studenti (certo pochi rispetto al totale ma tanti per una fase come questa) in cui il fattaccio aveva risvegliato quanto meno un primitivo desiderio di discuterne dal vivo e far emergere tutte le contraddizioni della propria vita universitaria, si sono scoraggiati e ritirati alla solita routine di passività.
Senza che fosse nelle loro intenzioni, gli agenti della borghesia bolognese avevano fatto al “movimento studentesco” un regalo immenso: fornirci un collante e un punto di partenza per un discorso politico che partendo dall’Università poteva estendersi a tutto il resto e, se e solo se dotati dell’organizzazione adeguata, estendersi alle altre città universitarie italiane e a quelle europee.
Il lavoro per superare questi limiti si prospetta decisamente duro. Ed è un lavoro che si inaugura innanzitutto non rinchiudendo la discussione nel recinto delle zone degli studenti e non limitandosi, come nella più grande e più partecipata di quelle assemblee è stato fatto, a discutere di cose apparentemente insignificanti limitandosi ad esse. Il tornello è stato un simbolo, e qualcuno giustamente l’ha detto. Il tornello è inutile e dispendioso (oltre che dannoso), ma la questione non dovrebbe essere posta tanto in termini di efficacia o meno del tornello nella risoluzione di un problema di percepita insicurezza, ma in termini di ciò che il tornello rappresenta. Il tornello è solo un tassello, uno step di un processo innescato dall’idea che c’è dietro il tornello, che è quella, come ho scritto prima, di una università “chiusa”, militarizzata, controllata, ad ingressi centellinati e quantificabili al fine di soddisfare interessi privati (il modello anglo-americano). Questo significa che oggi la barriera si è materializzata nei tornelli, domani potrebbe essere peggio e manifestarsi in dispositivi di controllo ancora più pervasivi ed escludenti in un luogo che è, o dovrebbe essere, pubblico. Inoltre, quello che va ribadito per non rimanere isolati e non far rimanere la rivendicazione isolata, è la sua costante connessione con tutto il resto. Innanzitutto con le altre rivendicazioni degli studenti, che dovrebbero essere chiarificate e rese ambiziose (non solo stop ai tornelli e ripresa degli spazi, ma organizzazione di collettivi di facoltà, stop al caro-mensa, abbassamento delle tasse, fino ad arrivare alla rivendicazione di un reddito fisso per gli studenti). In secondo luogo tutte le rivendicazioni degli studenti vanno costantemente collegate a quelle del mondo del lavoro e dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati, etc…, sarebbe, infatti, davvero troppo ingenuo trattare l’Università come territorio neutrale e non come avamposto di una società capitalistica sbagliata, che vogliamo combattere nel suo complesso, anche e soprattutto perché ci riguarda da vicino, essendo quella dentro cui ci troveremo a lavorare (o a non lavorare) una volta usciti dall’Ateneo.
Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.