In dubious battle è un film di James Franco prodotto e uscito negli Stati Uniti nel 2016, ma approdato nelle sale italiane soltanto lo scorso sette settembre, ad una anno dalla sua presentazione alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

La storia di cui il film tratta, uno sciopero di braccianti agricoli nella California del 1933, è tratta dall’omonimo romanzo del 1936 di John Steinbeck (noto in Italia col titolo di “La battaglia” col quale uscì per Bompiani la traduzione di Eugenio Montale nel 1940).

Franco, che è anche uno dei main characters del film (nei panni dell’agitatore Mac McLeod), ha dichiarato a suo tempo di essere rimasto fedele allo spirito con cui Steinbeck scrisse il romanzo: i punti di forza e di debolezza della pellicola derivano precisamente dal risultato di Franco nel fare il “compitino” di restituire sul grande schermo quella che fu, dopo Furore, forse l’opera più significativa di Steinbeck, anche se oscurata successivamente da altre opere. Ma che tipo di storia vorrebbe raccontarci In dubious battle? Il romanziere non aveva in mente un’opera di propaganda filo-comunista che facesse del realismo spinto e della denuncia delle terribili condizioni di operai e contadini una leva per la diffusione di una coscienza di classe tra gli sfruttati; il particolare realismo di Steinbeck (pure inserito dalla critica nel filone dei proletarian novels, “romanzi proletari”, spesso più vicini al proletkult di Bogdanov o al realismo socialista di Gorki e Lunaciarski, poi diffusosi in Europa) si accosta più al Verismo di Giovanni Verga, all’influenza dei pastori e delle chiese protestanti americane (Steinbeck fu fedele della chiesa anglicana statunitense), e agli studi pionieristici di inizio Novecento sulla psicologia di massa (che al tempo Steinbeck caratterizza come “bionomia”): un realismo sociale, ma non “socialista”. In questo senso, In dubious battle vuole essere un’opera con tre livelli di lettura: quello del racconto diretto, semi-giornalistico, di un tipico sciopero negli USA degli anni della Grande Crisi; quello dell’evolversi di rapporti psicologici di gruppo nell’interazione tra individui portati a una vita di comunità e un’azione collettiva (l’accampamento e gli scontri durante lo sciopero); quello della riflessione su aspirazioni e interrogativi “senza tempo” dell’uomo, come la sua incessante lotta contro se stesso e il suo bisogno di sentirsi padrone del proprio destino e capace di dare un senso alla propria esistenza.

La sensazione, allo scorrere dei titoli di coda, è che il “compito” di Franco sia riuscito solo in parte: pur volendosi mantenere aderente all’originale, le esigenze di adattamento della trama a una pellicola di due ore scarse lo portano a rendere più univoca e banale la lettura dei personaggi, dipingendo i padroni agrari e i loro sgherri come sadici assassini (ancor più di quanto ci si possa aspettare da una vicenda degli anni Trenta), e rendendo poco più che una comparsa il dottor Burton, medico che si presta a garantire l’igiene degli scioperanti accampati, il quale invece nel romanzo ha un rapporto dialettico importante con Jim e Mac, i militanti del “Partito” (cioè il CPUSA, il Partito Comunista degli Stati Uniti d’America, ai tempi già ligio alla linea di Josif Stalin – su questo, la resa degli ideali politici confusi dei suoi militanti è buona); in particolare, il veterano Mac, già volutamente reso particolarmente cinico da Steinbeck, è caratterizzato da una sorta di idealismo cavalleresco nella sua militanza politica, al punto di mostrare un certo disprezzo per i lavoratori reali, concreti per la cui emancipazione si sta battendo – con modi, appunto, un po’ devianti rispetto alla gloriosa tradizione statunitense dei lavoratori migranti/militanti hobo organizzati in primis e principalmente dal sindacato IWW. Nel complesso, forse è solo il carisma e la presenza di Franco stesso (che interpreta Mac) a comunicare un’immagine eroica e magnetica dell’agitatore Mac il quale, altrimenti, avremmo qualche problema a percepire come personaggio “positivo” (pur essendo de facto capo dei braccianti in lotta in un film su uno sciopero!).

Il personaggio di Jim (interpretato da un Nat Wolff forse ancora immaturo come attore) appare come un giovane pieno di buone intenzioni ed entusiasmo, ma ingenuo in maniera irritante (specie per essere il figlio di uno storico militante del Partito!), con atteggiamenti e pose a volte da babbeo o da partecipante di un gioco di ruolo, insieme distaccato e continuamente meravigliato, un po’ come i personaggi di Westworld.

Nonostante il risultato discutibile nella trasposizione di trama e personaggi, con un ritmo non proprio avvincente e di conseguenza la sensazione di una narrazione che a tratti non sa dove “andare a parare”, la storia in sé, con gli alti e i bassi della lotta operaia contro l’agrario assetato di profitto, è appassionante anche per chi di solito non segue da vicino il movimento operaio attuale né ha studiato quello storico. Certo, Franco ci restituisce dei braccianti più civili e “moderati” di quelli, moto fedeli agli originali, descritti da Steinbeck. Così come aggiunge una sua personale morale secondo la quale il massimo fine delle lotte operaie poteva essere quello di ottenere le “grandi riforme” del governo Roosevelt, “fondamenta della nostra democrazia”. In effetti, Franco ha ragione fino a un certo punto: è la stagione di “grandi riforme” della società pienamente capitalistica e di massa che ha caratterizzato le “democrazie liberali”, rivali degli Stati fascisti e del campo raccolto attorno all’Unione Sovietica di Stalin e dei suoi epigoni. Così come è vero, però, che gli stessi meccanismi generali dell’economia, la stessa ignoranza di massa mantenuta artificialmente, le stesse ondate di peggioramento del tenore di vita e repressione violenta si trovavano nel 1933 così come nel 2017, dopo oltre ottant’anni. Proprio per questo, mentre la prospettiva di riformare gradualmente il sistema fino a renderlo “umano” e “degno” ha completamente fallito in ogni sua possibile forma empirica, rimane valida la prospettiva di un cambiamento che per essere concreto e reale per tutti dovrà passare dall’organizzazione e dalla gestione diretta del potere economico e statale da parte di quelle stesse masse sfruttate che nel capitalismo sono destinate a una moderna schiavitù sotto il giogo di pochi ricchissimi possidenti; un’economia e uno Stato che non saranno gli stessi di quelli dominati da industriali e banchieri.

La storia di In dubious battle, così come quella di Furore, era nel 1936 già anacronistica, superata dalla sindacalizzazione massiccia dei lavoratori agricoli, anche se effettivamente gli anni Trenta furono anni di battaglie vaste, dure e spesso perdenti, anche sul mero immediato piano delle rivendicazioni economiche, per la classe operaia americana. Un anacronismo che depotenzia ulteriormente il significato rivoluzionario e di classe del film, unendosi allo scarsissimo interesse di Steinbeck e di Franco stesso al significato politico della militanza dei membri del PCUS, un partito già rassegnato a non sviluppare una politica realmente rivoluzionaria che indicasse l’abbattimento dello Stato, l’espropriazione della borghesia e la presa del potere politico da parte della classe lavoratrice. E, in questo senso, l’amarezza lasciata dalle figure dei militanti comunisti che intervengono nella lotta, con la filosofia di MacLeod che è forse più machiavellica che marxista, contribuisce ulteriormente a svilire nell’immaginario comune la lotta dura, intransigente, plurisecolare che i marxisti continuano a portare avanti per far diventare una forza materiale la teoria del superamento del capitalismo.

Complessivamente, il film è godibile, anche se delude rispetto alle aspettative, non basse, che si poteva avere. Certamente, non regge il confronto con diversi film “classici” sulle lotte operaie; in particolare, il capolavoro I compagni di Mario Monicelli, fortemente ispirato a In dubious battle (anche se era in primis un omaggio all’epica storia del movimento operaio torinese e ai pionieristici militanti rivoluzionari del giovane Partito Socialista Italiano), risulta una prova molto migliore nel mettere su pellicola una vicenda di lotta operaia e i risvolti politici, sociali, culturali che essa comporta: il prof. Sinigaglia (un “agit-prop” anche lui, interpretato da un Mastroianni magistrale) e il corpulento capo operaio Pautasso non sono assolutamente paragonabili al cinico MacLeod e al pur dignitoso London. A dire il vero, sembra quasi che il film di Franco sia un omaggio non riuscitissimo a Monicelli, e non la trasposizione dell’opera a cui Monicelli si ispirò così felicemente.

Ciò non toglie che In dubious battle sia uno dei pochi film dedicati e incentrati sulla lotta operaia, dove la contrapposizione politica, a 360° tra le classi sociali emerge nei suoi aspetti più vividi e duri. Un film, al giorno d’oggi, che costituisce una valida alternativa a tanti altri filoni molto più rappresentati, inflazionati e meno significativi come opere d’arte.

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.