Le urne dei ballottaggi di Ostia hanno visto, dopo il clamore del primo turno riguardo la percentuale ottenuta da Casapound amplificata dall’aggressione ad un giornalista di un membro della stessa famiglia criminale, il Clan Spada, che si è esposto pubblicamente appoggiando la formazione fascista, l’epilogo. Il centrodestra è stato nettamente sconfitto dai populisti del movimento 5 stelle con un distacco di circa venti punti percentuali.

La sindaca di Roma Virginia Raggi esulta per essersi presa uno degli ultimi municipi non ancora in mano ai penta stellati, ma davvero c’è da esultare? Quello che è stato conquistato ad Ostia non sono che le macerie di un municipio. Macerie reali tra disoccupazione e abbandono, e macerie delle istituzioni borghesi. L’affluenza alle urne è stata addirittura più bassa che al primo turno, assestandosi su un desolante –desolante almeno per chi pensa che le elezioni siano il centro della vita democratica di un paese- 33%, gli interrogativi sollevati dal corteo contro mafia e fascismo dopo la scoperta del giornalismo nostrano riguardo l’esistenza di affari malavitosi intrecciati con la politica locale nonostante gli avvicendamenti di Mafia Capitale, rimangono solidi al loro posto e presto, molto probabilmente, si smetterà di parlarne.

Quello che rimane ai lavoratori, ai disoccupati e ai ragazzi delle scuole di Ostia è un territorio ostile ai poveri con una politica che al massimo può offrire elemosina sotto forma di pacchi di pasta (solo se si è italiani, ovviamente) o proclami trionfalistici sui giornali che suonano quasi irrisori verso uno strato sociale che arranca sotto scacco, della crisi, dei padroni, della violenza fascista e mafiosa.

Chi ha osservato le elezioncine di Ostia da una posizione classista, invece, riceve indietro uno scenario che potrebbe essere uno spaccato sul futuro delle grandi città italiane, un futuro fatto di assenza delle istituzioni democratiche (come già è successo in tutta Roma con la giunta Raggi) esauste e incapaci di costruire alternative credibili alla massa di proletari che le abitano e assenza di una reale alternativa politica che ancora in pochi possono costruire. Quasi fa sorridere che in alcune città si parli di “potere al popolo”. Ma quale “popolo”? Anche i fascisti e i mafiosi sono “popolo”, anche gli imprenditori che si mangiano il litorale romano sono “popolo”. Il tutto incentrato su una lista elettorale, ma quali elezioni? Quelle disertate dalla stragrande maggioranza della popolazione? No, serve ricominciare a pensare per davvero a un percorso che sia capace di battagliare sul piano reale, non per la difesa o la gestione dello schifo che c’è, ma per la costruzione di qualcosa di nuovo.

Di Ciemme