L’allontanamento di Conte e del M5S dal profilo politico del governo, con il mancato voto al DL Aiuti, ha provocato le dimissioni di Mario Draghi. Il presidente Mattarella le ha però rigettate: esplode la crisi politica nel governo.


La frizione tra Giuseppe Conte e Mario Draghi è sfociata infine nella rassegna delle dimissioni di quest’ultimo nelle mani del presidente della repubblica Sergio Mattarella, che però le ha rifiutate, complicando la crisi plateale di governo che si è aperta in questi giorni. Ma come si è arrivati a questo colpo di scena?

L’instabilità del “nuovo” M5S di Conte a cavallo tra opposizione e governo

Per quanto sia evidente che Mario Draghi non abbia quel tipo di carisma, personalità e legami politici su scala nazionale necessari ad essere stabilmente una figura di uomo solo al comando, la crisi di oggi è riconducibile solo in parte a fattori di “lotta tra personalità”. Ci sono delle cause più profonde che richiamiamo qui molto velocemente.

È fin dall’avvio del governo “di unità nazionale” di Draghi che la coalizione del centrodestra ha potuto sfruttare la sua compattezza quasi ovunque a livello locale, con molte vittorie in molte elezioni durante questa legislatura, così come il suo carattere di governo ma anche di opposizione grazie alla mancata entrata al governo di Fratelli d’Italia. È chiaro che i principali beneficiari di questa tattica sono gli stessi FdI, ma è un grosso vantaggio per tutta la coalizione poter giocare sull’ambiguità di chi, sì, ha evitato “responsabilmente” le elezioni anticipate dopo la caduta del governo Conte, ma rivendica una propria linea politica, che in buona parte è diversa da quella di Draghi e del governo nel suo complesso. Un ruolo diverso, dunque, da quello di partito di “eterno governo” del PD il quale è stato, appunto, sempre al governo negli ultimi 11 anni, a parte la parentesi del primo governo Conte. Ciò non corrispondeva, però, a un blocco politico-elettorale rinnovato e ampliato rispetto al PD stesso, che è rimasto sempre tra il 20 e il 25% circa dei voti. L’avvicinamento al Movimento 5 Stelle rinnovato dall’assunzione del ruolo di presidente del partito da parte di Giuseppe Conte, che da quasi un anno a questa parte sta tentando di rilanciare un M5S, con forti perdite nel gruppo parlamentare e nei consensi elettorali, su un profilo più moderatamente progressista, con un recupero di posizioni più coerenti col nocciolo duro della propria base sociale – i dipendenti impiegatizi, i ceti medi e i piccoli proprietari impoveriti in massa dopo la crisi del 2008 – e con posizioni “democristiane di sinistra”, compatibili col profilo mediatico che il papa Francesco I cerca di mantenere quanto meno in Italia.

Questa tensione nel cantiere ancora virtuale di un nuovo centrosinistra ha dovuto sostenere anche il colpo della scissione dell’ala del M5S capeggiata dal ministro degli esteri Luigi Di Maio, in un evidente tentativo di salvare e comandare un settore “governista” più disposto a seguire le politiche del governo Draghi fino alla fine, e con la rivendicazione di un taglio netto con le ambiguità geopolitiche passate del M5S (e di Di Maio stesso!) rispetto alla professione di fede assoluta nella UE, nella NATO e nell’alleanza con gli USA.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso: il DL Aiuti

A fronte della situazione in rapido peggioramento per gran parte della popolazione, per via dell’inflazione e del carovita, lo scontro tra il “nuovo” M5S e il governo è avvenuto sulle misure a dir poco opinabili del tanto aspettato Decreto Aiuti che con 14 miliardi stanziati, oltre la elemosina una tantum di 200 euro a lavoratori dipendenti, autonomi e disoccupati (e nemmeno tutti!), contiene sostanzialmente fondi per le imprese e voci minori a pioggia, secondo un modello che in realtà mantiene una certa continuità di metodo tra il governo Conte II e quello Draghi. Mentre il Partito Democratico non ha avuto alcun problema a mettere da parte le possibili misure sul salario e sul caro bollette, il gruppo dirigente del M5S ha deciso di non darla vinta a Draghi anche questa volta, e non ha partecipato al voto di fiducia in Senato, che è passato comunque.

Draghi aveva però annunciato di non voler più sottostare a “ultimatum” dei partiti di maggioranza – cioè nessuno può pensare di negoziare seriamente con lui – e si è comportato di conseguenza, salendo al Quirinale per dimettersi.

Chi di stabilità ferisce, di stabilità perisce, potremmo dire: la stessa ossessione per non anticipare il voto ha allineato tutti gli esponenti degli altri partiti, insieme a Mattarella, a evocare il passaggio di Draghi alle Camere per ricomporre la crisi di governo. Lo stesso Di Maio ha speso parole dure contro gli ex-compagni di partito:

Gli sta sfuggendo la situazione di mano, qui si rischia seriamente il voto anticipato. I dirigenti M5S stavano pianificando da mesi l’apertura di una crisi per mettere fine al governo Draghi. Sperano in 9 mesi di campagna elettorale per risalire nei sondaggi, ma così condannano solo il paese al baratro economico e sociale.

Un ricorso al sano vecchio complottismo che ha fatto la fortuna del M5S, insieme ad accuse di un partito diventato “padronale” – quando lo è sempre stato, con la duplice dittatura di Gianroberto Casaleggio (e poi il figlio Davide) e Beppe Grillo.

Ciò che è certo è che i fatti di oggi non sono solo un malessere istituzionale passeggero, o il risultato di una personalità troppo burocratica e autoreferenziale come quella di Draghi, ma un nuovo scoppio – non sappiamo ancora quanto forte – del doloroso processo di riorganizzazione dei partiti borghesi e “di governo” dopo il fenomeno storico dell’ascesa del M5S e della sua crisi odierna.

Se la sinistra che si è mantenuta amichevolmente ambigua verso il M5S stesso (e non solo) vuole trarre una lezione e cogliere un’opportunità, dovrebbe imparare a bastonare il cane che affoga, e non a tendergli una mano proprio ora che il nuovo partito “contiano” tenterà di rifarsi una verginità come forza “popolare” d’opposizione. Ci è già bastato il primo M5S negli anni d’opposizione, per sapere di che partito si tratti, e perché non sia un partito della nostra classe.

Giacomo Turci

Nato a Cesena nel 1992. Ha studiato antropologia e geografia all'Università di Bologna. Direttore della Voce delle Lotte, risiede a e insegna geografia a Roma nelle scuole superiori.