Questo 25 settembre si terranno le elezioni legislative anticipate a seguito della crisi e caduta del governo Draghi: un contesto sociale che renderà difficile a chiunque mantenere la pace sociale.

Un ritorno parziale al vecchio schema centrodestra-centrosinistra, segnato dall’ascesa del partito di Giorgia Meloni. Il cantiere di un “centro” liberale rabbiosamente anti-operaio. Il parziale recupero del M5S come populismo “progressista”. L’ennesima occasione persa per presentare una sinistra chiaramente anticapitalista e dalla parte della classe lavoratrice.

Di fronte a questo scenario, come FIR chiamiamo al voto nullo o all’astensione.


La situazione internazionale che caratterizza le elezioni del 25S

Le elezioni del 25 settembre si inseriscono in un contesto di crescenti convulsioni del capitalismo mondiale, ed europeo in particolare. Queste elezioni anticipate emergono, infatti, dalla contraddizione tra l’aspirazione ad accontentare un po’ tutte le parti sociali con la cosiddetta agenda Draghi, e i metodi autoritari del presidente del consiglio, proprio mentre l’intreccio di crisi economica e tensioni geopolitiche ha allargato le fratture tra settori del capitale, favorendo la crescente frammentazione dell’arco parlamentare in cui esse sono rappresentate. Il quadro politico-economico internazionale sta dando l’ennesimo scossone ai governi di “estremo centro” in tutta Europa, così come le varianti che hanno provato a sostituirli (ad esempio l’asse PSOE-Podemos-Izquierda Unida nello Stato spagnolo), senza che si siano generate reali svolte politiche nella governance europea, sempre stretta attorno all’UE e alla NATO, per quanto traballante in questa fase.

Un aspetto chiave dell’instabile situazione europea è l’inflazione, quasi il 10% su base annua lo scorso luglio nella UE (e quasi il 9% in Italia), un dato che nelle scorse settimane ha spinto la BCE a un aumento significativo dei tassi di interesse. L’attuale boom dei prezzi non è però un fenomeno monetario, né è legato al miglioramento dei dati sulla disoccupazione, come invece spiegano da Francoforte. Dopo la Grande Recessione, il tasso d’investimento mondiale non era ancora tornato ai livelli pre-2008, prima di subire un altro contraccolpo con la pandemia. Così, le enormi iniezioni di liquidità delle banche centrali hanno ristagnato nei mercati finanziari, sotto forma di migliaia di miliardi di debito. Se è vero che negli ultimi mesi i dati sulla disoccupazione in Europa sono migliorati, ciò è avvenuto grazie a contratti iper-precari che certo non hanno favorito un aumento dei salari (e quindi dei prezzi, come previsto dalla sintesi neoclassico-keynesiana). La causa dell’inflazione sono i colli di bottiglia nelle catene del valore, prodotti dalle quarantene a singhiozzo in Cina e nell’Estremo Oriente, le minacce russe di interruzione delle forniture di gas e la speculazione sul prezzo degli idrocaburi da parte delle aziende energetiche.

La misura della BCE è perciò da leggere in maniera politica: da un lato, si vuole evitare un drenaggio di capitali verso gli USA, a fronte dell’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve; dall’altro, si accetta il rischio di una recessione per interrompere la spinta dei prezzi (senza affrontarne però le cause) e favorire gli interessi del capitale finanziario (l’inflazione colpisce infatti i creditori e favorisce i debitori, dato che in linea di principio i prestiti sono rimborsati ai valori in cui vengono contratti, non a quelli attuali). Inoltre, stimolando con l’incremento dei tassi una riduzione degli investimenti e quindi dell’occupazione, si manda un avvertimento al movimento operaio affinché moderi le richieste di aumenti salariali. Questa la paura principale dei padroni: evitare che l’inflazione nei paesi avanzati crei le premesse per un movimento rivendicativo della classe lavoratrice, come già avvenuto quest’estate in alcuni paesi, come ad esempio la Gran Bretagna. Un passaggio a politiche monetarie restrittive è inoltre un messaggio ai governi UE, affinché non esagerino con la spesa pubblica – magari a vantaggio dei settori popolari – mentre il patto di stabilità è sospeso, nel quadro della “tendenza all’economia di guerra” sviluppatasi con la pandemia e lo scoppio del conflitto in Ucraina. 

Nel frattempo, le stime del FMI prevedono una riduzione della crescita dal 2,6% all’1,2%  per l’area Euro; secondo l’Istat la flessione è dal 2,8% all’1,9% per l’Italia, la quale nel 2022 tornava faticosamente al PIL pre-covid e che, con queste prospettive, vede come un miraggio lontano il livello pre-crisi 2008. 

Sui mercati finanziari si addensano nuove nuvole: speculando al ribasso sui derivati legati a gas e petrolio, le aziende energetiche hanno accumulato centinaia di miliardi di debiti; così, l’aumento del prezzo degli idrocarburi sembra creare in questo momento più problemi che vantaggi per queste imprese, in un contesto in cui parte della materia prima viene ancora consegnata con contratti siglati tra i due e i tre anni fa. Si tratta di colossi che potrebbero trascinare con sè un’impalcatura economica già instabile, e infatti – mentre si cerca timidamente di mettere un tetto al prezzo del gas –  i governi europei stanno pompando miliardi di soldi pubblici per sostenerli. Con tutta probabilità una nuova Lehman Brothers sarà evitata, ma questa situazione rappresenta solo l’ultima di una serie di nodi giganteschi che stanno venendo al pettine nelle borse mondiali.

In questa congiuntura di peggioramento della fase economica, quella del 25 settembre è una corsa, come abbiamo già scritto, a incassare una legittimazione formale da poter investire in nuove misure a favore dei capitalisti e di attacco su vari fronti alla popolazione sfruttata e oppressa, sperando che non si scateni nessuna opposizione sociale attiva di vasti strati della popolazione. Le condizioni socio-economiche spingono nella direzione di un approfondimento della tendenza alla crisi organica, come di una possibile reazione forte da parte della popolazione alle prossime misure di governo. Queste ultime non potranno infatti allontanarsi molto dal “pilota automatico” del PNRR e dell’agenda Draghi, caratterizzata da soldi a pioggia al grande capitale, minime misure una tantum per i lavoratori e correzione in senso più filo-padronale di strumenti come il reddito di cittadinanza.

A partire da queste premesse, esaminiamo il quadro della lotta tra partiti che ha plasmato questo scenario elettorale, e dunque le possibili opzioni di governo di cui si parlerà concretamente alla fine della conta delle schede.

Dopo lo “scoppio” del 2018, il complicato ritorno del vecchio schema centrodestra-centrosinistra

Abbiamo già ricostruito sinteticamente il quadro delle liste che si presentano alle prossime elezioni legislative.

Lo scenario elettorale, a ben guardare, è il risultato del successo parziale nel riportare alla “normalità” la scena dei partiti di governo (o aspiranti tali) dopo l’esplosione avvenuta nella politica italiana nel 2013, quando il M5S si confermò come partito con un seguito elettorale di massa e, addirittura, come il primo partito d’Italia alla Camera. La politica nazionale è passata a uno schema a tre poli tutto da consolidare, col problema della collocazione strategica del M5S non ben definita, se non nella successiva adozione del governismo a tutti i costi, con l’esperienza della partecipazione a tre governi con diverse coalizioni in quattro anni. Un partito che ha detto tutto e il contrario di tutto, come ancora spesso succede nonostante la scissione dell’ala “dura” governista di “Impegno Civico” capeggiata da Luigi Di Maio, esplicitamente schierata con l’agenda politica e i modi autoritari di Mario Draghi. Eppure, nonostante una crisi profonda del sistema dei partiti, non ancora riassorbita, si può dire che il vecchio assetto che vedeva schierati il centrodestra e il centrosinistra non sia stato scardinato in profondità, come rivendicavano i grillini anni fa, giurando di entrare in massa in Parlamento per “aprirlo come una scatoletta di tonno”. Certo, il M5S ha ancora le riserve elettorali utili per provare in qualche modo a consolidarsi come partito piccolo-borghese “civico”(è dato al 14,5% negli ultimi sondaggi pubblicabili, con un notevole recupero rispetto alla crisi verticale di pochi mesi fa), con toni “democristiani di sinistra” aggiornati dai modi populistiche conosciamo. Resta da vedere, tuttavia, se e come si possa affermare un’area liberista “di centro”, a cavallo tra centrodestra e centrosinistra, che consolidi le forze sottratte al centrosinistra alla sua fondazione, e gli elettori perlopiù in uscita dal centrodestra o precedentemente astensionisti, magari riuscendo anche ad attirareuna nuova fugadi personale politico da Forza Italia (vedasi ex-ministre Gelmini e Carfagna).

Da una parte, il centrodestra è rimasto in piedi e, anzi, ha macinato un gran numero di vittorie nelle elezioni intermedie tra il 2018 e oggi. Certo, con un equilibrio interno che è cambiato a partire dalla crisi di Forza Italia e dallo smantellamento del Popolo della Libertà a seguito della caduta del governo Berlusconi nel 2011. Quel passaggio ha mano a mano lasciato spazio alla Lega per “risorgere” e alla vecchia AN di rinnovarsi ancora di più – nel nome, nel gruppo dirigente attorno a Giorgia Meloni, nei legami sociali (prima di tutto con le mafie) – e rilanciarsi come partito nazionalista di destra con un seguito di massa, verso un successo elettorale che potrebbe essere davvero netto, con 20 punti percentuali sopra il centrosinistra.

Dall’altra parte, il PD riesce a dirigere, o comunque a egemonizzare a livelli diversi, un’area sociale e politicameno organizzata di un tempo in forme politiche ben distinte dal PD – ben più vasta di quella che controlla direttamente nella società civile. Non importa in quante province il Partito Democratico sia diventato un partito che guida coalizioni di minoranza, quante ali abbia perso nelle varie scissioni, e quanta poca credibilità abbia tra le masse sfruttate, tutto concentrato com’è nel tenersi stretti i ceti medio-alti urbani: il baricentro delle “sinistre” con un minimo peso mediatico-elettorale rimane il Partito Democratico, cioè il partito che rappresenta da una parte il riferimento “credibile” di lungo periodo del grande capitale finanziario, della NATO, della burocrazia europea e  dall’altra l’enorme apparato economico e sociale “cooperativo” ereditato dal PCI, dal PSI e dalla sinistra democristiana. Così, tutti gli esperimenti di creazione di una sinistra indipendente democratico-radicale o “socialdemocratica” finiscono per essere riassorbiti in pieno nella sfera d’influenza del PD, non fosse che per la loro impostazione cocciutamente elettoralista e governista: Possibile, Articolo 1, Sinistra Italiana, eccetera. Addirittura, mentre questi settori erano perlopiù indipendenti dal PD nelle elezioni del 2018, oggi sono alleati col PD, nonostante il successo di quest’ultimo di imbarcare qualche alleato anche da destra. Anzi, se l’operazione di alleanza con Italia Viva di Renzi e Azione di Carlo Calenda fosse andata in porto, il salto verso un “grande centro” con una risicata sponda a sinistra sarebbe stato ancora più profondo e “storico”. 

Per questo, anche se ha perso dei pezzi (che oggi elettoralmente contano ben poco), si può dire che il centrosinistra che gira attorno al PD sopravvive, differenziandosi dalla destra su un piano retorico e di posizioni più progressiste su -alcuni- temi che ricadono nell’ambito dei “diritti”, mentre sul resto si muove sulla base degli stimoli di Confindustria, delle banche, della burocrazia UE e della NATO, proprio come si propone di fare la destra. Non c’è nemmeno più una relazione stretta e di fiducia con la burocrazia sindacale a differenziare le due coalizioni.

In questo senso, l’ascesa del M5S e il suo sfondamento tra i ceti bassi hanno aiutato l’evoluzione del vecchio apparato di PSI e PCI, nella fusione con un pezzo della vecchia DC, a rappresentare il settore di sinistra di un’ampia area liberale, rassegnata a perdere l’egemonia sulla classe lavoratrice e anzi schierata contro il movimento operaio e con rapporti poco amorevoli persino con la burocrazia sindacale più smidollata di sempre. Un processo storico, come abbiamo detto, ancora incompleto, e contraddittorio rispetto alla necessità di raccogliere voti dalla classe lavoratrice, che è pur sempre la parte più grande della società italiana, anche quando si tratta di votare.

Tre sinistre, zero liste con un chiaro profilo classista e anticapitalista

La pressione, prima di tutto del PD, perché non emerga un’opposizione forte alla sua sinistra ha portato le vecchie ali “socialdemocratiche”  rimettersi in coda al PD, dopo la parentesi confusa di “Liberi e Uguali”. Qualsiasi loro sterzata a sinistra sul programma politico – come la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, bestia nera di Confindustria – non è altro che una manciata di parole al vento, data la convinzione con cui il loro socio di maggioranza rivendica l’agenda Draghi… e dato che gran parte del loro programma, mischiato alla rinfusa con quello dei Verdi, non rompe apertamente con le politiche imperialiste del partito di Marco Minniti, che ha le mani macchiate di sangue tanto quanto quelle di Salvini.

Pur avendo una minima massa critica a disposizione per camminare sulle proprie gambe, la sinistra “radicale” si è alleata a settori “cittadini” piccolo-borghesi: da una parte il decadente PC di Marco Rizzo, unito a forze “sovraniste”, perlopiù evidentemente reazionarie, nella lista “Italia sovrana e popolare”; dall’altra, Rifondazione e Potere al Popolo hanno lanciato il progetto “Unione Popolare” assieme al partito di Luigi De Magistris, DeMa, e a soci tanto impalpabili quanto improbabili come il Partito del Sud.

Su questa ultima coalizione è bene chiarire che i toni da capopopolo radicale di queste settimane di De Magistris non cancellano né la sua carriera di magistrato – cioè di un membro del più intoccabile e meno democratico dei tre rami del potere politico statale – né il suo ruolo come sindaco di Napoli, dove ha promosso una città-vetrina “solidale”… ma non certo con i lavoratori in lotta! Mentre nel caso di Rifondazione si tratta semplicemente dell’ennesima lista disperata con “chi ci sta” su un programma riformista compatibile con quelli della Sinistra Europea (la rete dei partiti riformisti che rappresentano la maggioranza degli eredi dei vecchi PC stalinisti), nel caso di Potere al Popolo si tratta dell’evoluzione della propria strategia neoriformista alla ricerca di un soggetto politico “popolare”, interclassista. Ciò significa concretamente annacquare il proprio programma rispetto a quello del 2018 che pure non era propriamente un programma anticapitalista dal punto di vista della classe lavoratrice, e dare uno spazio spropositato come capolista a De Magistris stesso, che viene proposto come se fosse un compagno di partito con lo stesso programma di PaP, cosa che non è, e come se fosse assicurato sia il successo elettorale sia il proseguimento di Unione Popolare come cantiere politico verso una grande organizzazione-ombrello della sinistra come la NUPES francese. Peccato che Potere al Popolo nacque proprio come versione ridotta di La France Insoumise (il partito-ombrello che ha fatto da motore al lancio della NUPES), ficcando sotto la stessa tenda politica, come si direbbe negli Stati Uniti, diversi partiti divergenti tra loro su non poche cose. Il risultato, come tutti sappiamo, è che soltanto i due settori provenienti dallo stalino-maoismo che contavano su un’alleanza politica, Clash City Workers/ex-OPG e Rete dei Comunisti (+ pezzi della loro vecchia area larga “Rossa”), sono rimasti nel partito, senza mai investire in maniera organica le posizioni (soprattutto della RdC) che hanno nel movimento operaio e negli altri movimenti sociali, e ridando anzi spazio e legittimità alle orde di trombati riformisti di Rifondazione, DeMa, eccetera.

Questa scelta ha fatto sì che la proposta politica, programmatica di Unità Popolare non solo non sia chiaramente né classista né tanto meno anticapitalista ma che, anzi, sia poco distinta da quella del M5s e di Sinistra Italiana: in condizioni di svantaggio mediatico, economico, ecc., questo significherà con ogni probabilità un risultato elettorale molto modesto, al di sotto della soglia di sbarramento del 3%.

Votiamo nullo o astensione, lottiamo per un’alternativa anticapitalista della classe lavoratrice

Le prossime elezioni sono l’ennesima occasione persa per delimitare sul piano della lotta tra partiti un campo di riferimento della classe lavoratrice, che lotti per abbattere il capitalismo e non per rattopparlo inutilmente mentre esso ci porta al massacro sociale, alla catastrofe ambientale e a nuove e devastanti guerre.

Le attiviste e gli attivisti della classe operaia, della gioventù, del transfemminismo, che ogni giorno si scontrano concretamente col carattere sfruttatore e oppressore della nostra società capitalista, hanno bisogno di un unico ambiente di elaborazione e sintesi politica, di organizzazione della propria lotta, di direzione dei movimenti più larghi.

La politica di sinistra interessata a eleggere consiglieri e deputati, magari sindaci e ministri, pur che sia, senza un’alternativa politica complessiva alle politiche dei partiti “di governo”, senza rivendicare chiaramente un progetto di uscita dal capitalismo e l’affermazione della classe lavoratrice come classe dirigente attraverso le sue lotte quotidiane, ha giustamente stancato e non attira più le masse popolari, e difficilmente persino i nuovi attivisti più radicali che emergono dai conflitti sociali

Dobbiamo costruire un altro riferimento politico, centrato sulla classe lavoratrice (non su un generico “popolo”) e sulla sua forza, con un chiaro profilo anticapitalista, che sappia proporre chiaramente le misure concrete per un’uscita rivoluzionaria alle crisi generate dagli stessi capitalisti che ce le fanno sempre pagare. Rivendichiamo la costruzione di questo campo politico senza improvvisare le propria posizione alle porte di ogni elezione, senza ridursi a partecipare ai movimenti e a lottare per poi lasciare intatta sopra le nostre teste la lotta tra partiti, adeguandosi a quello che già c’è, e magari votandolo alle elezioni perché è il meno peggio. Proprio dando centralità alla lotta di classe, alla costruzione di una politica rivoluzionaria nei conflitti e nei movimenti che scuotono la società, sarà possibile dare un senso alla partecipazione alle elezioni e al parlamento, un’attività in sé non prioritaria per il nostro movimento e che, inseguita come un obiettivo a sé, ha portato e porterà la sinistra radicale all’opportunismo e alle storture peggiori.

Con questo spirito, indichiamo il voto nullo o l’astensione.

 

Frazione Internazionalista Rivoluzionaria 

 

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.