La convocazione della manifestazione del 7 giugno da parte di PD, AVS e M5S per “fermare il massacro a Gaza” racchiude tutto l’opportunismo politico della sinistra istituzionale. Si tratta di un’iniziativa che si inserisce nel più ampio coro di denuncia dei crimini sionisti in Palestina alimentato recentemente da media e forze politiche. Guardando bene alle posizioni di queste forze, il messaggio sembra essere: salviamo Gaza, ma anche la democrazia israeliana. In questo quadro, va da sé che le soggettività di movimento e le organizzazioni che hanno animato le mobilitazioni per la Palestina negli ultimi due anni hanno scelto di non partecipare. Bisogna tuttavia fare un bilancio rispetto a come il movimento abbia subito un riflusso, aprendo spazio alla vergognosa operazione di questo sabato, per capire come rilanciare la lotta il prossimo autunno. La domanda sorge dunque spontanea, su quali basi bisogna ripartire e quali i punti politici da affrontare?


Un inatteso allineamento sta scuotendo il panorama mediatico e politico italiano. Testate giornalistiche e partiti della sinistra riformista – fino a pochi mesi fa strenui sostenitori di una narrativa filo-sionista – sembrano oggi rifarsi il trucco denunciando le stragi dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza,  seppur con un occhio sempre attento all’equilibrio. Tale riallineamento, tuttavia, non è collegabile al solo contesto italiano. Al contrario, sembra più una manovra iniziata proprio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, all’interno di un contesto di riconfigurazione imperialista legata ad un aperto contrasto tra amministrazione americana e governo Netanyahu.

Al coro dei media si è unita la sinistra parlamentare. Il Partito Democratico – con i suoi esponenti dichiaratamente filo-israeliani come Pina Picierno, Piero Fassino, Lia Quartapelle ed Emanuele Fiano – si è affiancato ad Alleanza Verdi Sinistra e, in parte, al Movimento 5 Stelle. Questi ultimi, pur avendo espresso in passato una generica solidarietà al popolo palestinese, si erano ben guardati dal partecipare alle mobilitazioni di piazza, spesso distinguendosi nel condannarle e criminalizzarle.

Un cambio di rotta che non può non destare stupore, soprattutto se si ripensa alle recenti mobilitazioni per il riarmo europeo, animate da Repubblica, PD, e supportate in maniera ‘critica’ da AVS e dalla burocrazia CGIL. Dal palco di Piazza del Popolo, oltre a rimarcare una certa “superiorità europea”, Gaza e la Palestina non erano state neanche minimamente menzionate.

Fatto sta che l’improvvisa “scoperta” dei crimini sionisti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, a seguito di oltre 50.000 morti e un rischio imminente di carestia, ha stimolato una serie di reazioni. Queste sono sfociate in una mozione unitaria alla Camera da parte di PD, AVS e M5S e successivamente nella convocazione di una manifestazione per “fermare il massacro del popolo palestinese”.

La mobilitazione, tuttavia, veicola un messaggio di fondo problematico, basato su un assunto implicito: la democrazia in Israele sarebbe oggi a rischio a causa della guerra a Gaza, e dunque fermare i crimini israeliani servirebbe a “salvare sia Gaza che Israele”. Questo impianto narrativo spiega, almeno in parte, la partecipazione di +Europa alla manifestazione (in realtà parteciperà anche a quella del 6 giugno promossa dal Terzo Polo, Italia Viva e dal gruppo dei “riformisti” centristi del PD), nonostante il partito non abbia mai rinnegato il proprio sostegno allo Stato sionista.

Ad avallare questa impostazione è stata anche Elisabetta Piccolotti di AVS, la quale, interpellata in merito alla presenza di bandiere israeliane in piazza, ha dichiarato che “la piazza accetterà bandiere israeliane e palestinesi”. Al di là del valore simbolico, questa affermazione conferma l’allineamento politico di AVS, che, pur mostrando forme di solidarietà verso la popolazione di Gaza, non si discosta sostanzialmente dalla narrazione dominante delle forze liberali e dell’ala riformista del Partito Democratico.

La mozione per Gaza: ignoranza o complicità?

Il documento, composto da 11 punti molto vaghi, spazia dalla risoluzione del conflitto a presunte azioni concrete come la sospensione della vendita di armi.

Al di là della retorica stantia dei “due popoli, due Stati”, ciò che salta all’occhio è la scarsa conoscenza della realtà sul campo. Richiedere uno Stato palestinese, come espresso nella mozione, entro i confini del 1967 appare oggi ridicolo, considerando che il 60% della Cisgiordania (Area C, secondo gli Accordi di Oslo II del 1995) è sotto controllo israeliano e ospita circa 700.000 coloni. Cosa intendono fare i “progressisti” italiani con questi coloni? Sottoporli a un futuro e utopico Stato palestinese? O trasferirli forzatamente in Israele? Domande a cui Fratoianni & Co. probabilmente non saprebbero rispondere, o forse preferiscono far finta di non vedere. È probabile che siano consapevoli dell’impossibilità di tale soluzione e che l’affermazione dello Stato palestinese, all’interno della formula dei due Stati, non sia altro che un paravento per perpetuare lo status quo e difendere, di fatto, le politiche coloniali israeliane.

Sulla base di quanto detto, la mozione supporterebbe il riconoscimento dello Stato di Palestina, ma al contempo ciò non porterebbe a nulla di concreto. Si tratterebbe di un’ennesima mossa opportunistica priva di impatto pratico, in quanto così formulato il riconoscimento non conferirebbe alcun potere a tale Stato,, risultando una mera formalità. Il ruolo dell’Unione Europea negli ultimi decenni rispetto alle politiche israeliane è ben noto. Basti ricordare che dal 2014 ad oggi, la Striscia di Gaza è stata attaccata ben tre volte: Operazione Margine Protettivo, 2014; Operazione Guardiani delle Mura, 2021; e quella attuale. Nonostante la retorica sui due Stati, l’Unione Europea non è stata esente da complicità in nessuna di queste operazioni israeliane, sia in termini di armamenti che sul piano politico. Un posizionamento schiacciato sugli interessi imperialistici che da una parte ha portato tecnologia militare israeliana all’interno dell’Europa, dall’altra esportazioni di armi verso l’entità sionista e  contrasto e criminalizzazione della resistenza palestinese da parte di tutti i governi. Ricordiamo tutti il monito, sia in Italia che in Europa, di condanna delle proteste del 2021, durante l’Intifada dell’Unità contro gli sgomberi delle famiglie residenti nel quartiere di Shaikh Jarrah. In quel momento, i principali partiti dell’arco parlamentare si recarono in massa al quartiere ebraico di Roma per mostrare solidarietà a Israele e riaffermare il suo diritto alla difesa.

A questo va aggiunto il fatto che tutti i partiti non rifiutino un ruolo europeo imperialista, sebbene da prospettive diverse. Il PD e AVS hanno portato avanti la retorica mascherata della ‘difesa comune comune europea’ invece di proporre un esplicito riarmo, mentre diversi esponenti PD lo sostengono esplicitamente e spesso coincidono con gli apologeti di Israele e delle politiche NATO in Ucraina. Questi partiti non hanno mai messo in dubbio la volontà di costituire tale impalcatura, nei fatti una legittimazione dei tentativi di rafforzamento di un progetto imperialista europeo

Ciò è dimostrato anche dalla posizione espressa nella mozione per quanto riguarda il supporto del Piano Arabo per Gaza, probabilmente il punto più controverso. Se i precedenti erano caratterizzati da una retorica spicciola, il punto 4 conferma il legame tra imperialismo e sua periferia. Ma in cosa consiste il “Piano Arabo”?

In risposta al piano di Trump per sfollare Gaza, i leader arabi hanno approvato un piano egiziano alternativo: ricostruzione per fasi senza sfollamenti, ritorno dell’ANP al governo della Striscia, formazione di forze di sicurezza palestinesi e presenza di peace-keeper ONU.  Alla luce dei fatti, però, tale piano rappresenta una continuazione delle politiche imperialistiche del passato che hanno contraddistinto il cosiddetto processo di pace. È una verità che vale al di là della contraddizione di avallare soluzioni derivanti da regimi autoritari reazionari come i paesi del Golfo e la dittatura militare egiziana (alla faccia del braccialetto di Schlein per Giulio Regeni!). Considerando che i paesi arabi sono di fatto complici e scudo di Israele – si veda la chiusura del valico di Rafah, la complicità della “nuova Siria” con Israele e il ruolo tappo giocato dalla Giordania – questa mossa va letta in relazione all’assenza di volontà di tali paesi di esercitare un’effettiva pressione politica su Israele. I ricchi finanziamenti stanziati dall’Unione Europea all’Egitto alla fine del 2024 vanno letti come uno strumento sia per il mantenimento della stabilità interna del paese che evidentemente per mettere pressione affinché Al-Sisi continui a fare da scudo a Israele. Parte dei finanziamenti sono stati anche promessi alla Giordania, a patto che si impegni con l’Egitto a formare forze di polizia all’interno della Striscia di Gaza.

A questo si aggiunge un ulteriore tassello politico: il ripristino del controllo politico della Striscia da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, un peso ormai morto della politica palestinese che sia i paesi arabi che la sinistra italiana e l’UE vorrebbero al governo a Gaza. Questo, oltre a legittimare un potere corrotto e autoritario come l’ANP, riprodurrebbe le stesse dinamiche di complicità con l’occupante già evidenti all’interno della Cisgiordania. L’obiettivo è un governo palestinese fantoccio, vicino agli interessi imperialisti e ai paesi arabi; di fatto una borghesia compradora che avvantaggerebbe gli ingenti affari relativi alla ricostruzione e alla riproposizione di apparati semi-statuali privi di qualsiasi legittimità.

Infine, la mozione richiede l’incolumità della popolazione civile in Cisgiordania, denuncia l’occupazione illegale di territori e il sostegno agli insediamenti, ma non si fa alcun riferimento allo smantellamento degli stessi. Nessun riferimento ai checkpoint (che Fratoianni probabilmente avrà visto), né tantomeno alla presenza ingombrante e obbrobriosa del muro di separazione. Questo aspetto non sorprende, poiché si lega strettamente al punto 1 della mozione. La vaghezza con la quale si affronta la costruzione dello Stato palestinese è proprio figlia del rifiuto opportunistico della sinistra parlamentare italiana di comprendere la realtà sul campo.

Un ultimo accenno deve essere fatto rispetto al commercio di armi con Israele. La mozione chiede la sospensione temporanea del commercio di armi, inclusi gli accordi prima del ‘23. Tuttavia, la mozione non richiama ad alcuna forma di cessazione di accordi su sviluppo tecnologico e cooperazione militare, così come non si fa cenno ad alcuna forma di boicottaggio di Israele soprattutto nella cooperazione con le istituzioni universitarie italiane proprio all’interno del settore scientifico. Di fatto questo dimostra quanto sia limitata la mozione e quanto, in maniera neanche troppo implicita, il supporto al progetto coloniale israeliano non sia messo minimamente in dubbio.

Limiti e debolezza del movimento pro-pal

Secondo molti giornalisti, opinionisti e rappresentanti della cosiddetta società civile da sempre critici verso i crimini di Israele, seppur spesso in modo ambiguo, il valore della recente mobilitazione risiederebbe nell’aver costretto a prendere posizione alcune forze della sinistra parlamentare . In quest’ottica, la presenza di forze come il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra costituirebbe una sorta di garanzia per spingere il PD ad adottare una linea più netta a favore della Palestina.

Tuttavia, questa lettura è non solo politicamente errata, ma comporta anche uno spostamento del baricentro della lotta. Nonostante le sue fragilità, tale baricentro è rappresentato dalle mobilitazioni sviluppatesi negli ultimi due anni nelle università (le cosiddette Intifade studentesche), nei cortei e nelle piazze. Questo slittamento è stato causato da un progressivo indebolimento del movimento, visibile già dall’autunno: eccezion fatta per la manifestazione del 5 ottobre (15.000 partecipanti, un dato inferiore rispetto ad altre piazze internazionali), il movimento non è riuscito né a mantenere il legame con ampi settori delle comunità arabe – le quali avevano animato le mobilitazioni precedenti all’estate – né a radicarsi organicamente nei settori strategici della classe lavoratrice.

A ciò si è aggiunta, all’inizio di novembre, una spaccatura interna al movimento, alimentata da alcune organizzazioni della sinistra radicale. Queste, oltre a rivendicare per sé il coordinamento con altre realtà della società civile, hanno adottato posizioni ambigue su nodi strategici, quali il rapporto con l’Autorità Nazionale Palestinese – in Italia tradottosi in una collaborazione con settori istituzionali vicini ad Abu Mazen – e la questione dei “due popoli, due Stati”. Tali ambiguità hanno provocato una frattura che ha ulteriormente indebolito il movimento.

La manifestazione del 30 novembre, sebbene molto partecipata, ha così espresso rivendicazioni meno politiche e meno radicali sul piano strategico. Non sorprende che, il giorno successivo, l’unico messaggio diffuso pubblicamente sia stato un generico invito al boicottaggio dei prodotti israeliani nei supermercati e alla denuncia delle aziende coinvolte nel genocidio. In questo contesto di debolezza generale, si è assistito a uno spostamento del centro della mobilitazione per la Palestina, risultando conseguentemente marginalizzata. Le voci critiche nei confronti dell’opportunismo della sinistra istituzionale rimangono sostanzialmente inascoltate, anche a causa della mancanza di una discussione politica vera e propria. Se da un lato ciò ha favorito l’ampiezza della mobilitazione, dall’altro ha impedito una riflessione seria sui contenuti politici.

A questo si aggiunge il fatto che non solo molte delle rivendicazioni siano rimaste circoscritte all’interno delle Intifade studentesche, ma che nessuno dei percorsi intrapresi nel quadro delle mobilitazioni più ampie — come quello dei Giovani Palestinesi — sia riuscito a produrre un reale coordinamento o a rafforzare le lotte negli atenei, in un’ottica di stabilizzazione del movimento e di connessione organica con le mobilitazioni della classe lavoratrice. In parole povere: perché invece di limitarsi a chiamare le intifade studentesche a date di piazza, non si è messo in campo un serio percorso di grandi assemblee nazionali del movimento nelle università per discutere un piano d’azione e una strategia a lungo termine? È stata questa mancanza a permettere a Potere al Popolo e Rete dei Comunisti di lanciare il finto percorso assembleare – basato su reti generiche della società civile, spesso moderate, e su strutture strettamente controllate dalle forze in questione (quindi le organizzazioni giovanili OSA e Cambiare Rotta) – che ha contribuito a spaccare il movimento a fine novembre 2024. 

Come già provato a sostenere su queste pagine, inoltre, un maggiore coordinamento, e soprattutto l’apertura di spazi di confronto politico all’interno delle università e a livello nazionale, avrebbe potuto facilitare l’emersione di sinergie con alcune delle mobilitazioni attualmente in atto nei settori strategici della classe lavoratrice, come nelle ferrovie.

Boicottare il 7 giugno e rilanciare la lotta per la Palestina

Marginalizzare e boicottare la mobilitazione del 7 giugno non significa restare a guardare, bensì occorre rilanciare la lotta per la Palestina ripartendo dalle mobilitazioni nelle università e nei luoghi di lavoro, ponendosi in piena opposizione all’economia di guerra imposta dal piano rearm-europe. Non sono questioni separate, poiché entrano direttamente all’interno delle posture dei paesi imperialisti rispetto alla guerra sionista contro i palestinesi, andandoad intrecciarsi con le politiche di economia di guerra che investiranno i principali paesi europei. Ciò riguarda le università quanto i luoghi di lavoro, considerando il ruolo sempre maggiore dell’industria bellica nel finanziamento della ricerca, come anche la riconversione dell’industria dell’automotive e parte del farmaceutico in industria bellica.

Tale trasformazione richiede un’unità delle rivendicazioni apertamente in opposizione alla guerra imperialista, a partire da quei settori che più di tutti risentono degli effetti delle politiche di riarmo: dai trasporti alla logistica, dai settori precari dell’università all’industria interessata alla riconversione bellica.

Opporsi al genocidio vuol dire opporsi alle politiche europee di riarmo, opporsi alla cooperazione scientifica e tecnologica con Israele in tutti i campi, opporsi a qualunque iniziativa da parte degli opportunisti paesi arabi.

 

Mattia Giampaolo

Laureato in storia contemporanea dei paesi arabi alla Sapienza di Roma, nel 2018 ha conseguito il master in Lingue e Culture orientali alla IULM University.
Dottorando alla Sapienza presso il Dipartimento di Scienze Politiche, con una tesi su Gramsci, la rivoluzione passiva e la Primavera Araba.