Con una partecipazione appena superiore al 30 percento degli aventi diritto, i 4 referendum sul lavoro e quello sulla cittadinanza sono risultati nulli. Mentre si apre il fuoco della reazione sul presunto carattere ideologico o l’inutilità dei quesiti al quale occorre resistere con ogni mezzo, non meno perentoria è un’analisi critica della strategia ampiamente fallimentare di Maurizio Landini e di tutto il gruppo dirigente della Cgil.
Le analisi sulla partecipazione al voto ci hanno fornito alcuni elementi dai quali partire [1]: ci si è recati di più alle urne nelle aree urbane e nelle due regioni più tradizionalmente legate alle forze di centrosinistra – Toscana ed Emilia-Romagna. All’opposto, si è votato meno nelle regioni meridionali e in quelle nord-orientali (Istituto Cattaneo 2025). Le donne hanno partecipato più degli uomini in maniera diffusa su tutto il territorio nazionale. Una parte dell’elettorato della Lega e di Fratelli d’Italia ha votato sì al quesito sull’articolo 18, mentre quello sulla cittadinanza ha visto sacche rilevanti di no tra gli elettori del Partito Democratico e una maggioranza assoluta tra i votanti del Movimento 5 Stelle (Buzzi 2025). Niente o molto poco invece è stato detto, a conferma del carattere assolutamente non neutro della produzione scientifica e divulgativa borghese, su come e quanto la classe lavoratrice abbia partecipato ad una tornata referendaria che la riguardava in prima battuta. Al netto di tutto ciò, il primo elemento da cogliere rimane comunque il dato di fondo: meno di un avente diritto su tre è andato a votare. Si è trattato di una sconfitta netta ed evidente per il referendum. Quali sono le ragioni?
Il baccano della reazione
Quando ancora qualcuno era in cabina elettorale, gli strilli della reazione erano già alti. Non poteva che essere Matteo Renzi, il primo ministro del Jobs Act, a guidare le fila. A suo dire, il fallimento del raggiungimento del quorum è stato dovuto a quesiti “ideologici e sbagliati” che apparterrebbero ad un’altra era politica. Oggi il lavoro si tutelerebbe quindi con strumenti diversi – quelli cioè, aggiungiamo noi, che finiscono per renderlo più debole, insicuro, precario e povero. Con virgole e accenti diversi, questa è stata la grande accusa alla Cgil: vivere nel passato e non comprendere come i tempi siano cambiati. La scarsa partecipazione avvalorerebbe questa tesi. Ma è veramente così? Era sbagliato indire un referendum su questi quesiti?
Si può certamente argomentare, come è stato fatto da molti sindacati di base e forze dell’estrema sinistra, che i quesiti non fossero abbastanza incisivi, che la loro natura limitata avrebbe cambiato poco, o che i rapporti di forza tra capitale e lavoro non possono essere decisi per decreto. Ognuno di questi argomenti ha un fondo di verità. Il punto sostanziale però è che i quesiti referendari sul lavoro, così come quello sulla cittadinanza, esprimevano esigenze sociali reali. A nostro giudizio quindi è scorretto concludere che sia stata la loro portata limitata a depotenziare la partecipazione. Le ragioni vanno cercate altrove: in prima istanza nella strategia completamente fallimentare della burocrazia Cgil. Tale critica al sindacato di Maurizio Landini deve però partire da un contrasto feroce alla virulenza reazionaria che si è abbattuta contro il movimento operaio e le sue organizzazioni per aver semplicemente osato credere che fosse possibile avanzare i propri diritti. I due piani non sono in contrapposizione. Anzi, è proprio e solo una risoluta critica alla burocrazia Cgil che permette di continuare ad avanzare l’ipotesi che il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici debba essere la principale forza del cambiamento. Senza questa, rimarrebbe solo il tramonto dell’era nella quale il movimento operaio agiva come il motore della società.
Una burocrazia con una strategia fallimentare
Come scrivevamo alcune settimane fa in un editoriale che prendeva posizione sul referendum, il momento elettorale riflette i rapporti di forza esistenti tra le classi e non ne crea di nuovi. Se questa premessa è corretta, segue logicamente che qualsiasi battaglia referendaria che riguardi il conflitto capitale-lavoro può essere vinta solamente quando giunga come momento culminante di un ampio processo di mobilitazione. Questo è tanto più vero in un contesto segnato da diffusa apatia, decennale riflusso del movimento operaio, e perdurante debolezza della sinistra politica. Per la particolare posizione che la classe lavoratrice occupa nella società capitalista, ampi settori di questa rimangono sotto il costante dominio della controparte. Come sottolineava Antonio Gramsci, ciò è vero anche quando la classe lavoratrice si rivolta. Per ovvie ragioni, il principio tiene ancora di più in momenti a bassa conflittualità. Annacquare la maggioranza qualitativa delle avanguardie operaie nelle sabbie mobili del voto interclassista, dominato da maggioranze raccogliticce di borghesia, settori piccolo-borghesi, classe lavoratrice atomizzata, e sottoproletariato, è quindi operazione sempre rischiosa. Diventa un suicidio politico farlo senza una strategia che strappi alla borghesia quella parte di classe lavoratrice e settori popolari che non siano già inquadrati. In un contesto che non garantiva l’esistenza di nessuna maggioranza a trazione operaia, la Cgil ha inteso scattare una foto dell’esistente. Il risultato è stata un’approssimazione più o meno veritiera dei rapporti esistenti tra capitale e lavoro oggi in Italia. Ma si sarebbe potuto evitare tutto ciò? E come?
Se il momento elettorale riflette i rapporti di forza e il quadro esistente è sfavorevole, allora lo scopo del gioco è cambiare il quadro. Ciò richiede però non strane alchimie elettoralistiche, ma all’opposto necessità di una possente spinta dal basso. Le fonti di questa possono essere molteplici. Partiamo dal movimento operaio.
Quanto la burocrazia Cgil ha proposto è l’esatto opposto di cosa avrebbe potuto aiutare la partecipazione: ovvero, una rigida separazione tra il ciclo mobilitativo e il momento elettorale. Niente esprime meglio di ciò il passaggio dalla “rivolta sociale” proclamata da Landini in autunno allo slogan “la nostra rivolta è il voto” divenuto il baricentro della politica della Cgil a partire dall’inverno. Non solamente quindi la burocrazia Cgil non ha fatto niente per dare seguito allo sciopero generale del 29 novembre, che pure aveva mostrato una ritualità inferiore rispetto ad altri scioperi simili chiamati sempre dalla Cgil nel recente passato, ma ha mantenuto una rigida compartimentalizzazione tra i quesiti referendari e il rinnovo di alcuni importanti contratti collettivi nazionali, a partire da quello dei metalmeccanici (tutt’ora in corso) e dei ferrovieri (chiuso al ribasso e fortemente contestato dagli stessi lavoratori). Una strategia di mobilitazione che avesse fatto perno sul riuscito sciopero generale per rilanciare una stagione di lotta in alcuni settori strategici e avesse spinto verso date nazionali avrebbe certamente contribuito a creare quel clima di mobilitazione e dinamismo funzionale al referendum stesso. Questo non è avvenuto.
E la risposta risiede, almeno in parte, in come decenni di passivizzazione e burocratizzazione abbiano trasformato la Cgil. Questa teme la possibilità di essere cacciata dai tavoli governativi non meno di quanto teme un reale movimento operaio. Prova quindi a spingere quest’ultimo a quel minimo di mobilitazione necessaria per essere presente ai tavoli dove vuole sedere, ma è incapace e indisponibile a lanciare un reale processo di mobilitazione. Nel sostenere questa tesi, non crediamo che la Cgil rappresenti una cupola corrotta in un corpo operaio altrimenti sano e combattivo. In una spirale che si auto-avvita, il comportamento opportunistico della Cgil riflette e alimenta, al tempo stesso, la passivizzazione operaia. Così facendo però, allontana le avanguardie operaie e non ne crea di nuove. Il numero degli iscritti rimane lo stesso. E magari aumenta anche, come successo nel 2024. Eppure il sindacato è in maniera crescente un erogatore di servizi, con un immenso corpaccione burocratico che si preoccupa della propria riproduzione invece che curare gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, perpetuando una base senza esperienze di lotta e politicamente arretrata. Questo vortice non è una condanna divina. Può essere spezzato. E con ogni probabilità lo sarà un giorno. Non è avvenuto però prima di questa tornata referendaria.
La burocrazia Cgil non ha però solamente fatto di tutto per evitare una primavera conflittuale nel mondo del lavoro, ha anche favorito una rigida demarcazione tra sindacato e movimenti di protesta. Gli ultimi due anni sono stati principalmente caratterizzati dallo svilupparsi del movimento in solidarietà con la causa palestinese. Abbiamo dedicato spazio ed energia a questo sul nostro giornale. Soprattutto abbiamo partecipato ad ogni nodo locale del movimento nelle città dove siamo presenti. Non pensiamo di aver risparmiato critiche al movimento pro-Palestina, evidenziando quelli che a nostro giudizio sono stati alcuni limiti che ne hanno impedito l’ulteriore crescita – a partire proprio dall’incapacità di vincere a sé alcuni settori strategici della classe lavoratrice in Italia. Ciò detto, rimane vero che si è trattato di un movimento che ha determinato un’importante politicizzazione e radicalizzazione di settori di avanguardia del movimento studentesco e giovanile. La Cgil ha costantemente voltato le spalle a questo. Anzi, il sindacato è giunto fino al punto di dare il proprio appoggio alla piazza militarista chiamata dall’editorialista del quotidiano La Repubblica Michela Serra. Questo ha spalancato una straordinaria contraddizione: mentre la Cgil denunciava ufficialmente la ‘situazione umanitaria’ a Gaza, partecipava al contempo ad una piazza che chiedeva un maggior coordinamento militare tra i vari imperialismi europei, che sono stati e rimangono tra i principali sostenitori politici e militari del genocidio ad opera dello stato di Israele. Tale requiem non è cambiato con la manifestazione del 7 giugno. Come abbiamo scritto in un nostro recente editoriale, e a differenza di quanto invece sostenuto da Contropiano, tale piazza emerge dal riflusso del movimento e non dalla sua forza. Invita alla solidarietà quando il vapore delle proteste si è già dissipato. Chiama alla piazza per chiudere il ciclo di protesta e non per rilanciarlo. Tutta questa strategia non poteva che portare al fallimento referendario.
Cosa succede adesso?
Perdere un referendum non è come essere sconfitti al tavolo di gioco. Non si possono ridare le carte e riprovare. La distanza siderale rispetto al raggiungimento del quorum apre a serie ripercussioni sul movimento operaio, ringalluzzendo padroni e governo. Quando un’organizzazione di massa della classe lavoratrice chiama un referendum migliorativo per le condizioni della classe stessa e porta al voto meno di quanto fatto 9 anni prima dal movimento contro le trivelle, questo non rafforza la classe lavoratrice. Al contrario, rischia seriamente di indebolirla. È la burocrazia Cgil ad avere le principali responsabilità di questo. Come però la passivizzazione della classe lavoratrice non è un elemento di natura, così non lo sono neanche le ripercussioni della sconfitta referendaria. Quanto è lecito attendersi nelle prossime settimane è un’ulteriore assertività di Confindustria nelle partite decisive che si prospettano all’orizzonte – a partire dalla trattativa sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici – e una debolezza ulteriore della Cgil. Cosa verrà fuori dalla combinazione di questi due elementi non è però scontato. Ad esempio, in caso di accordo capestro con un aumento salariale minimo, come reagirà la classe operaia? Accetterà passivamente questa decisione? Contesterà l’accordo? E se sì, in che termini? Non esiste una risposta che possa essere data preventivamente a queste domande. E ciò dipende ovviamente dal fatto che numerosi fattori fanno parte di questa equazione. Tra questi vi è anche la capacità delle forze dell’estrema sinistra di radicarsi nella classe lavoratrice e di vincere a sé i suoi elementi più dinamici e combattivi, favorendone l’ulteriore politicizzazione. Sembra un compito impari. E in un certo senso lo è anche. Non esiste però altra via d’uscita.
Gianni Del Panta
Riferimenti:
[1] si veda Istituto Cattaneo (2025). “Referendum 2025: La partecipazione. Il voto su lavoro e cittadinanza”. Disponibile a: www.cattaneo.org. Ma anche: Buzzi, Emanuele (2025). “Referendum, come hanno votato gli italiani: tra i 5 Stelle vince il no sulla cittadinanza. Contro anche una quota di elettori Pd”. Disponibile qui.
Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).