Domenica e lunedì prossimi si terranno le elezioni nelle due regioni più popolose e ricche del paese, Lombardia e Lazio. Una competizione tra una destra compatta e pronta a vincere, e formule “progressiste” che pagano il prezzo della “corsa al centro” e del pilota automatico delle politiche del PNRR, senza che una candidatura anticapitalista contesti questa pseudo-alternativa.

Domenica 12 e lunedì 13 febbraio si voterà in Lombardia e nel Lazio per le elezioni del Consiglio e della Presidenza regionale. Una tornata elettorale particolarmente importante, che coinvolge le prime due regioni italiane per popolazione e PIL, così come la capitale politica del paese, Roma, e quella economica, Milano.

In Lombardia la candidatura unitaria della destra è guidata dal presidente uscente della regione, Attilio Fontana, in vista del secondo mandato consecutivo. Gli altri candidati alla presidenza sono Pierfrancesco Majorino con la coalizione “progressista” centrata su PD e M5S; Letizia Moratti per il Terzo Polo cattolico-liberale, e Maria Ghidorzi per Unione Popolare.

Nel Lazio, mentre la destra si presenta dietro Francesco Rocca, presidente della Croce Rossa negli ultimi dieci anni e vicino a Giorgia Meloni, il PD ha formato una coalizione più ‘classica’ di centrosinistra, guidata da Alessio D’Amato (assessore uscente alla sanità), senza un accordo col M5S, che si presenta da solo. Infine, si presentano Unione Popolare con Rosa Rinaldi, e il PCI con Sonia Pecorilli.

La campagna elettorale sta seguendo la recente tendenza a comprimere nel tempo le iniziative e i dibattiti elettorali, con 2-3 settimane di effettivo periodo pre-elettorale, uno sforzo militante limitato sui territori e uno scarso investimento in termini di esposizione delle figure pubbliche di partito a favore di campagna, che in buona parte sono consiglieri, deputati o amministratori uscenti.

 

La destra alla conquista di due regioni-chiave e il fallimento delle formule “progressiste”

C’è da aspettarsi che gli alti tassi di astensione delle elezioni nazionali dello scorso 25 settembre non subiscano una smentita importante, con una conferma dello scollamento tra gran parte dell’elettorato (che non vota o vota il rispettivo “meno peggio”) e i partiti “di governo”. Sondaggi alla mano, ci sono pochi dubbi sulla doppia vittoria della destra, con un risultato oltre il 40% in entrambe le regioni (la legge elettorale prevede un premio di maggioranza del 20% e l’assenza di ballottaggi), mentre il resto dei voti sarà quasi del tutto diviso tra Majorino e Moratti in Lombardia, e tra D’Amato e Bianchi nel Lazio.

È chiaramente l’occasione per la Lega, quanto meno in Lombardia, di provare a recuperare una parte del terreno perduto quattro mesi fa, puntando sulla sua lunga esperienza di governo in quella che è la sua regione-chiave insieme al Veneto. Salvini, del resto, non esiterà a presentare l’imminente vittoria di Fontana come un successo del suo partito, prima che della coalizione.

Tuttavia, FdI rimane il partito con maggiori consensi in entrambe le regioni: con ogni probabilità, Consiglio e Giunta saranno dominati dal partito di Giorgia Meloni. Passa in secondo piano Forza Italia che, con Formigoni, aveva governato la Lombardia per quasi vent’anni. L’esito delle urne, quindi, aiuterà a capire come stanno evolvendo i rapporti di forza all’interno della destra e, soprattutto, verrà verificata la tenuta della Lega e del suo progetto di un partito diffuso su scala nazionale.

Queste elezioni saranno anche un banco di prova per le opposizioni: PD e M5S sono ancora lontani da un accordo per costruire un polo “progressista”, e così l’accordo di alleanza elettorale c’è stato soltanto in Lombardia, mentre la proposta particolarmente “blindata” sulla candidatura nel Lazio, insieme al disaccordo sul nuovo inceneritore per Roma, ha aumentato ancora di più la distanza in un territorio dove gli attacchi del centrosinistra alla giunta Raggi nella capitale sono stati particolarmente forti e ad ampio raggio. I numeri dei sondaggi, a questo proposito, confermano che la presentazione di un “centrosinistra” o “polo progressista” unito non rappresenta la formula magica con cui vincere per inerzia le elezioni, anche perché c’è ancora una geometria molto “liquida” nella formazione di coalizioni al di fuori della destra, con le varie correnti liberali e in generale “di centro” che si spostano a seconda dei casi: sia la lista di centrosinistra più “classico” di D’Amato, che contiene i vari tronconi dei radicali e dei liberali di Calenda e Renzi (che, in realtà, null hanno a che vedere con il progressismo né tanto meno con la sinistra), sia la formula di Majorino (con meno liberali dentro, ma insieme al M5S) non riescono a imporsi sulla coalizione di destra, e falliscono anche solo nel conquistare stabilmente le aree cattoliche-liberali di centro, ossessione vecchia quanto la repubblica italiana.

Tutto questo mentre i consensi del PD sono ancora in calo, e regge il sorpasso del M5S, ancora in lieve crescita nei sondaggi. Colpisce la scelta di alcuni candidati: ad esempio, in un clima segnato dallo sciopero della fame di Alfredo Cospito e dalla crescita dell’attenzione verso il tema della repressione carceraria, il PD sceglie di presentare in Lombardia Cosima Buccoliero, ex direttrice del carcere di Bollate. Alla vigilia della prossima vittoria della destra, noi non abbiamo dimenticato lo scempio che la presidenza Fontana ha fatto della sanità lombarda, causando migliaia di vittime nei primi mesi di Covid-19: un crimine rispetto al quale nessuno dei colpevoli sta pagando, né tra i capitalisti né tra questi loro servitori statali.

Programmi alla mano, la mancata alternativa alla destra non è semplicemente una questione di assemblaggio di sigle politiche, specie se questo avviene sempre e comunque con uno spostamento verso destra del dibattito e dell’azione politica.

Ci troviamo di fronte a un’offerta politica dove tutti, più o meno, omaggiano il nuovo politicamente corretto del greenwashing, cioè la proposta di politiche ‘verdi’ sull’economia all’insegna della ‘transizione ecologica’. Al netto di alcune priorità diverse nei programmi delle coalizioni, il ventaglio delle opzioni politiche è tutto concentrato nell’illusione che, senza toccare i rapporti sociali, lavorando su alcune storture particolarmente odiose del sistema – come la ripresa della distruzione della sanità pubblica non appena è finita l’emergenza Covid – sia possibile marciare a passo spedito verso una società ben funzionante, giusta, rispettosa dell’ambiente. Una propaganda estremamente ipocrita, in bocca ai ceti politici che hanno appoggiato i peggiori processi inquinanti nel nostro paese, che stanno sempre e comunque dalla parte dei grandi proprietari immobiliari (a proposito di consumo del suolo e di inquinamento), degli industriali, del clero cattolico, che da una parte elargisce elemosine ai poveri, dall’altra incamera un enorme reddito proveniente dalla rendita del suo enorme patrimonio immobiliare, fa profitti coi suoi ospedali e le aziende che controlla, riuscendo a pagare poco o nulla di tasse.

Tant’è che del giubileo del 2025, massima occasione di investimenti e profitti, che non tocca certo solo la città di Roma, praticamente non si sta parlando, così come si dà per scontato che il termovalorizzatore di Roma e altre opere inquinanti si faranno, che se ne sia parlato o no in campagna elettorale.

L’infrastruttura di questa mezza tregua fra i “grandi” partiti è – e sarà per tutto un periodo – l’applicazione del PNRR secondo il suo sviluppo architettato dai governi Conte II e Draghi: il pericolo di perdere anche solo in parte i fondi straordinari del piano europeo fa sì che le differenze di politica economica fra le varie coalizioni si riducano quasi sempre a differenti interpretazioni della spesa del PNRR, e alla sovvenzione dei settori aziendali e dei gruppi di potere che appoggiano i vari partiti.

Non è un caso che i discorsi di PD e M5S su come contrastare praticamente il taglio del Reddito di Cittadinanza siano molto timidi; anche questi partiti, alla fine dei conti, hanno il terrore che si scateni una lotta politica di massa che unisca gli attuali percettori di RdC, la classe lavoratrice organizzata e la gioventù precarizzata.

Questa convergenza ideologica, che fa seguito a quella nazionalista-razzista che mise in comune personaggi come Matteo Salvini e il ministro PD Marco Minniti, è tutta a danno del M5S, costretto a puntare più su un profilo neodemocristiano-“progressista”, che sul riconoscimento come partito ecologista delle aziende ‘verdi’, dato che ormai l’ecologismo borghese, associato alle posizioni da ‘partito dell’ordine’ (cioè della repressione) e della fedeltà alla NATO, è un tratto condiviso a chiacchiere da tutto l’arco politico. Che le pose progressiste del M5S siano prima di tutto filo-padronali lo testimonia, tra le tante cose, la proposta di taglio dell’IRAP (un’imposta per i soli datori di lavoro) in caso di nuove assunzioni; la morale è sempre quella: proporre di pagare coi soldi dei contribuenti le (eventuali) politiche di espansione aziendale dei ricchi. Il fatto che l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive serva a finanziare, almeno in parte, la sanità pubblica conferma quanto dicevamo sopra sulla ripresa dello scempio ai danni di questo servizio fondamentale. 

 

Le candidature UP: un riformismo cittadino-popolare ancorato al passato che non paga

E la sinistra? A parte la trascurabile candidatura-bandiera del PCI – un’organizzazione riformista che vive di rendita, che guarda alla Cina come modello di socialismo per il futuro, e che non tenta di assumere un qualsiasi ruolo nelle lotte operaie e dei movimenti sociali – ci sarà l’ennesimo risultato molto magro per Unione Popolare: il suo programma si compone (con differenze neanche minuscole nelle varie tornate elettorali) di rivendicazioni di riforma sociale un po’ meno timide rispetto a quelle che rivendica Sinistra Italiana dentro le coalizioni a guida PD, e poco più. Tenendo conto della candidatura di dirigenti di Rifondazione addirittura facenti parte dei vecchi governi Prodi (come nel caso laziale di Rosa Rinaldi), l’effetto complessivo è quello del vagone di sinistra rimasto orfano del treno di centrosinistra, che insegue un profilo cittadino-popolare volutamente interclassista, depotenziando il proprio -limitato- radicamento nella classe lavoratrice e nel movimento operaio, separando le proprie candidature da un intervento politico nelle lotte sociali; di fatto senza proporre, né in tribuna elettorale né nelle piazze, una direzione politica ai vari segmenti di lavoratori e lavoratrici, ai giovani e all’attivismo ecologista e transfemminista che costituisca un’alternativa al governismo del centrosinistra e dei cinque stelle.

Si prosegue, anzi, su un percorso evidentemente fallimentare sotto tutti i punti di vista, che non raccoglie voti spostandosi a destra rispetto a una possibile candidatura classista e anticapitalista, e che non attrae e non unisce nuovi settori di avanguardia provenienti dai conflitti sociali, adattandosi invece al dibattito politico a camere stagne a seconda del tipo di elezioni. Quello che ci serve, in questo momento, è semmai di riuscire catapultare le nostre lotte e rivendicazioni centrali nel dibattito incentrato sulla pace sociale totale che i partiti di governo ci propinano.

Il voto a Unione Popolare e il supporto alla sua costruzione come coalizione elettorale, se non proprio come partito-federazione, non fa che alimentare questo ciclo decadente della sinistra politica, che indebolisce ancora di più la lotta politica operaia e popolare, invece di rafforzarla, coordinarla, darle un’espressione via via più organizzata e radicale, con una vera influenza su una platea larga della popolazione, anche alle elezioni.

A maggior ragione, in un contesto dove la repressione statale, gli attacchi alle condizioni di lavoro e di vita, la truffa del greenwashing sulla necessaria transizione ecologica nel nostro secolo, le tendenze alla guerra formano un cocktail micidiale per la classe lavoratrice e la popolazione subordinata in Italia e in tutto il pianeta, c’è un bisogno urgente che i movimenti sociali e la sinistra radicale smettano di adattarsi al ribasso a ciò che c’è, e portino le loro rivendicazioni e la discussione sulla politica e sulle forme di organizzazione da adottare al livello che la situazione oggettiva ci pone oggi.

Legare le lotte di oggi e quelle future a una comune prospettiva rivoluzionaria, dalla parte della classe lavoratrice, senza accontentarsi di riformare gradualmente il sistema capitalista, è la strada obbligata per presentare una alternativa radicale ai “progressisti” governisti, anche alle elezioni.

 

FIR – Frazione Internazionalista Rivoluzionaria

La FIR è un'organizzazione marxista rivoluzionaria, nata nel 2017, sezione simpatizzante italiana della Frazione Trotskista - Quarta Internazionale (FT-QI). Anima La Voce delle Lotte.