L’offensiva turca voluta dal presidente in persona Recep Tayyip Erdogan, nominata “ramoscello d’ulivo”, nemmeno fossimo al cospetto di una neolingua feroce e beffarda, nei confronti dei curdi nel nord della Siria arriva, dopo cinquanta giorni di combattimenti, al suo culmine. Le truppe turche dopo aver bombardato diverse località periferiche e aver costretto alla fame e alla sete duecentomila civili tagliando i rifornimenti d’acqua sono a pochi kilometri dal centro del cantone di Afrin.

Le YPG curde dichiarano di voler resistere fino alla fine, denunciano centinaia di civili uccisi e provano a far evacuare una parte della popolazione dal corridoio umanitario verso la città di Aleppo storicamente abitata da molti Curdi e in mano alle forze filo siriane di Assad. D’altro canto Erdogan parla di lotta al terrorismo del PKK (affiliato delle YPG in Rojava secondo Ankara) e rilancia l’offensiva annunciando, dopo la caduta di Afrin, l’offensiva verso le “roccaforti del PKK” nel Kurdistan Iracheno.

Sembrano passati cento anni dalla difesa di Kobane, quando gli stessi miliziani curdi difesero la città contro l’ISIS ottenendo l’attenzione di tutti i media internazionali. Oggi ad Afrin cala il sipario della comunità internazionale, gli USA mantengono la neutralità nei confronti della Turchia, la Russia ritira le proprie forze sperando forse di aggraziarsi Erdogan in funzione anti-occidentale, le bande dell’ISIS date per sconfitte fino a poco tempo fa vedono la pressione su di loro diminuire per l’intensificarsi del conflitto più a nord.

Negli scorsi giorni decine di manifestazioni filo curde in tutta Europa hanno provato a bucare il velo di omertà sceso sull’ennesimo rivolgimento legato alla Siria. Di fronte ad un possibile massacro è necessario interrogarsi su quale prospettiva e programma potrà garantire ai kurdi di evitare d’essere massacrati e di rimanere per anni o decenni delle pedine nelle proxy wars delle potenze regionali e globali. La retorica dell’autonomia regionale nel solo Rojava tramite la “rivoluzione democratica” pare mostrare già la sua debolezza di fronte alla brutalità della politica borghese reale: le classi subalterne kurde non trovano seri alleati “democratici” borghesi all’estero, così come non si sono veramente emancipate dall’economia di mercato e dal capitalismo. Si trovano invece di fronte borghesi loro connazionali e partiti politici che hanno messo da parte il sacrosanto programma dell’indipendenza nazionale per poter essere riconosciuti dagli Stati oppressori (Turchia, Siria, Iran, Iraq). E’ proprio a partire dalla lotta rivoluzionaria per l’indipendenza nazionale e per la fine dell’oppressione secolare, che gli sfruttati kurdi possono chiamare i lavoratori e le lavoratrici di tutto il Medio Oriente a lottare uniti contro le potenze straniere che intervengono nella regione, così come contro le bande islamiste e le borghesie nazionali complici della situazione di guerra, carestia, brutale oppressione.

La situazione in Siria si avvita insomma su se stessa diventando sempre più complessa, l’unica cosa certa è che a perdere, come al solito, sono i centinaia di migliaia di uomini e donne, contadini e lavoratori, che subiscono l’ennesimo progetto di spartizione imperialista regionale dopo anni di guerre civili e quasi mezzo milione di morti.

di Ciemme