Al 27 settembre risale l’inizio del conflitto tra Azerbaigian e Armenia nella regione del Nagorno-Karabak. Dopo l’intermediazione russa del 10 ottobre e sostenuta da Stati Uniti e Francia una settimana dopo le due nazioni hanno siglato una tregua umanitaria che ha interrotto formalmente il conflitto. Nella mattina di oggi, 22 ottobre, tuttavia, missili balistici hanno colpito nuovamente le città azere di Gabala e Kurdemir, con il ministero della difesa azero che accusa l’avversario di aver attaccato e quello armeno di non essere responsabile del bombardamento.


In Armenia già da decenni diversi gruppi di orientazione marxista, ponevano il problema dell’autodeterminazione dei popoli caucasici e dell’instabilità politica della zona ma, essendo oramai la guerra un dato di fatto, la questioni che i giornalisti dovrebbero affrontare -e non affrontano- dovrebbero essere: dove pone le sue radici il conflitto attualmente in atto? Come potrebbe evolvere a favore della maggioranza dei popoli caucasici? Qual è il vero intento di tale guerra? Chi è che ad oggi ne trae i maggiori vantaggi? Ma la domanda che soprattutto bisogna generalmente porsi è come mai si parli sempre della guerra (quando se ne parla) in maniera scandalistica, come una disgrazia una cosa che non dovrebbe succedere sempre dopo che è esplosa, sempre a posteriori.

Ebbene bisognerebbe cominciare a rendersi conto, innanzitutto, che la guerra all’interno del sistema capitalista non è tanto casuale quanto necessaria alla sopravvivenza dello stesso, perché guerra vuol dire consumo, compravendita di materie prime quali acciaio, rame, carbone, è inoltre una buona occasione per diversi partiti politici di farsi buona pubblicità stando dalla parte dei “più popolari” o facendo donazioni a uno o l’altro schieramento e via dicendo. Dunque prima di ogni cosa bisogna far luce su questo: la guerra è normale in questa società, non esiste realmente il concetto di pace all’interno del sistema capitalista.

In rosso la regione contesa tra Armenia e Azerbaigian

L’Armenia, dal canto suo, è appena uscita da una precaria situazione politica per via delle proteste che portano il nome di “rivoluzione di velluto” conclusesi nel 2018. Come ogni guerra, al di là del clamore delle varie testate giornalistiche, anche questa nasce da un conflitto ben radicato da tempo nella regione e nella cultura della classe dominante azera. Lo stato in questione infatti subisce assieme alla Turchia (alleata anch’essa storica) una grande crisi economica dovuta a fattori come la desertificazione territoriale e una scarsa industrializzazione che porta inequivocabilmente all’instabilità politica interna. Tutte le guerre di questo tipo, che come al solito non hanno un impatto diretto sul nostro territorio, servono niente meno che da tavolo di prova per le grandi potenze. Le dittature filo-imperialiste, volute dai governi occidentali proprio con il fine di rendere industrialmente involute tali zone, non rendendole economicamente e quindi politicamente indipendenti, agiscono nel tentativo di mantenere saldo il loro potere utilizzano la tattica più antica della storia riversare l’odio e il fallimento politico su un nemico ideale, sia questo uno stato od un’etnia. L’Azerbaigian rivendica come proprio un territorio che culturalmente all’Armenia spetta di diritto, e che già con la forza era stato conquistato negli anni Novanta e rivendicato dall’ONU come legittimo. La guerra dell’Azerbaigian è una classica guerra dei padroni di cui fanno le spese gli armeni ma anche la maggioranza del proletariato azero che si vede chiamare alle armi e subisce inoltre perdite di non poco conto.

Per gli armeni questa guerra è una guerra culturale e familiare, che non tiene conto di freddi calcoli politici economici, e l’unico modo per far uscire le classi subalterne come vincitrici è unire le lotte per l’autodeterminazione armena e curda con le lotte del proletariato azero e turco. Ad oggi infatti entrambi questi stati vivono una condizione tranquillamente paragonabile ad un regime dittatoriale, nel disinteresse delle potenze occidentali, che tengono troppo ad inquinare l’immagine di stati così tattici, storicamente nella posizione di intermediari fra oriente ed occidente. Ricordiamo poi che nessuno dei due Stati riconosce il genocidio armeno, come molti altri purtroppo e addirittura si può essere legalmente perseguitati se si tenta anche solo di nominarlo.

Questa guerra è un altro chiaro segnale di allarme che ci fa rendere conto che i problemi del secolo scorso hanno un’eco nel presente, anche quelli che si danno per risolti o che ci si prefigge di risolvere e che invece tutt’ora persistono.

 

Arechi La Salvia

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