“Dogman”, l’ultimo film del regista romano Matteo Garrone, è stato il film che ha conquistato Cannes 2018. Arrivato in Italia dopo i fasti del festival francese, è riuscito a dividere l’opinione pubblica, creando veri e propri dibattiti su quanto l’arte debba attingere al reale: il film è liberamente ispirato ad un fatto di cronaca nera avvenuto nel 1983 nella periferia di Roma in cui Pietro De Negri (soprannominato in seguito “Il Canaro”), un tolettatore di cani, uccise brutalmente l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci.
Come ne “L’imbalsamatore”, Garrone riprende solo alcuni fili della vicenda giudiziaria, tessendone, poi, una trama ben diversa.

 

La trama

Marcello (Marcello Fonte) è un toelettatore di cani. Vive in un quartiere di periferia al confine tra Lazio e Campania. Ama il suo lavoro ed ha rispetto e amore per ogni cane che cura. Marcellino, come è soprannominato a causa della propria costituzione minuta, è ben voluto da tutto il quartiere, ha un ottimo rapporto con la figlia Alida ed anche con l’ex moglie. A tradire questa facciata da bravo ragazzo sarà la scoperta di traffici di droga gestiti dal canaro che, per poter mantenere la propria figlia, cerca il più possibile di guadagnare degli extra, spacciando cocaina. Uno dei suoi clienti è Simoncino (Edoardo Pesce) un energumeno che terrorizza il quartiere, ottenendo tutto ciò che desidera con l’uso della violenza e della propria corporeità. Marcello continua a dare cocaina gratis a Simoncino, confidando in un futuro pagamento; gli è amico, gli salverà la vita quando gli uomini del quartiere assolderanno un sicario per ucciderlo fino ad andare in carcere al posto di Simoncino, per coprire un suo furto, convinto della futura redenzione dell’amico.
L’esperienza del carcere cambierà il protagonista tirandone fuori il lato più “animale”, pronto a combattere per la sopravvivenza. Ovviamente, unendo questo istinto ai sentimenti di vendetta e riscatto, la tragedia è compiuta. Ormai odiato da tutto il quartiere, additato come “traditore”, Marcello non può far altro che uccidere colui che l’ha reso tale: Simoncino.  Quasi fiero del proprio gesto, il canaro trascina il corpo di Simoncino fino ai campi di calcetto, dove crede di aver visto gli altri giocare. “Guardate cosa ho fatto!” Urla disperato, in cerca di approvazione, in cerca di un “Ben fatto! Sei nuovamente uno di noi”. Purtroppo, nessuno è lì. La mente di Marcello, ormai totalmente annebbiata, aveva solamente immaginato quegli uomini e quelle voci. Resta solamente la solitudine.

 

La scelta del reale

“Non andrò a vedere “Dogman” perché penso, magari sbaglio, che una doppia tragedia come quella della Magliana del 1988 sia indagabile solo e soltanto senza mostrarla.” Scrive Antonella Boralevi su “La Stampa”.
Quest’affermazione della Boralevi dimostra quanto sia più facile voltare le spalle davanti a certi fatti di cronaca nera, che paiono riguardare sempre “gli altri” o, forse, che ci riguardano troppo da vicino.
Matteo Garrone è un regista che ha sempre cercato di scavare nel mondo degli ultimi, mostrandoci un tipo di realtà che troppo spesso l’arte come l’informazione “ufficiale” ignora e nasconde. Anche in Dogman, la scelta e la visione del reale è ben tangibile, ma non è realtà, perché non è la vera storia del Canaro. È la storia di un cittadino qualunque che cerca solo di arrivare a fine mese, di condurre una vita dignitosa, cadendo nella criminalità per disperazione, non per una malvagità “intrinseca”. La pellicola non “indaga” sul corpo del delitto, indaga i corpi dei propri attori, i loro linguaggi, la loro forza, la loro furia. Predilige i toni gialli, come in un western e, come in un film di Sergio Leone, il sacrificio compiuto in nome dell’amicizia, ed il tradimento, saranno salvezza e tragedia di Marcello. Ed ecco il reale: attori dal volto comune (Garrone ha conosciuto Fonte in un centro sociale) confinati in una periferia lontana dagli sfarzi della Roma che tanto piace al mondo e, forse,  anche a noi italiani.
Aggiungerei che troppe volte dimentichiamo come il cinema italiano abbia dato origine ad una delle maggiori correnti cinematografiche proprio partendo dal reale: il Neorealismo. Quando “Ossessione” (Luchino Visconti, 1943) e “Roma, città aperta” (Roberto Rossellini, 1944) approdarono nelle sale italiane, furono letteralmente evitati, criticati, ritenuti spazzatura perché “i panni sporchi si lavano in casa”. Fortunatamente, in Europa, critica e pubblico la pensarono diversamente, consacrando il Neorealismo e dando il via ad un nuovo cinema della modernità. Pare che nel 2018 si ritenga ancora opportuno lavare i panni sporchi nel chiacchiericcio della “nostra gente” invece che su uno schermo.
Fortunatamente Garrone è riuscito invece a donarci questo film di cui, oggi più che mai, abbiamo bisogno.

 

Sabrina Monno

 

Nata a Bari nel febbraio del 1996, laureata presso la facoltà DAMS di Bologna e studentessa presso Accademia Nazionale del Cinema, corso regia-sceneggiatura. Lavora prevalentemente in teatro, curando reading di lettura e sceneggiature.