Non so quanta umiltà, se l’umiltà fosse quantificabile, sarebbe opportuno adoperare per parlare della morte di Claudio Lolli. E a dire il vero non credo di essere pronto, io che sono nato nel ’95 e che posso a mala pena provare ad identificarmi con le cose di cui cantava, gli zingari felici, lo spiraglio di un mondo nuovo che si stava aprendo, il riprendersi la luna, l’abbondanza, le piazze gremite, i vinili e tutto il resto. Claudio era nato a Bologna nel 1950 e nella sua Bologna proprio l’altro ieri, nel pomeriggio del 17 Agosto 2018 se n’è andato per un malore improvviso ma non del tutto inaspettato (date le sue precarie condizioni di salute). Le strade attorno all’ambulanza in cui ha trovato la morte dovevano apparire piuttosto diverse, una volta “disoccupate dai sogni”, dalle strade in cui aveva scritto Borghesia e Ho visto anche degli zingari felici: fast food, smartphone, mendicanti, vecchi proletari e nuovi strati “proletarizzati”. Claudio è stato uno dei grandi protagonisti della “stagione dell’impegno”: un cantautore “impegnato”, un professore di lettere, ma anche un padre, un pensionato intellettualmente interessante e mai snob,  un bevitore di vino bianco e, as last but not least, un compagno sincero che, assieme a pochi altri, non si è mai venduto tanto da guadagnarsi su Repubblica, poche ore dopo la sua morte, l’appellativo di “cantautore senza compromessi”. Nonostante ciò, come la stessa moglie ci tiene a ricordare, Claudio era questo sì, ma anche molto altro. Era certamente il rivoluzionario che ironizzava ammonendo contro ogni tentazione socialdemocratica (“il nemico marcia sempre alla tua testa[…]la socialdemocrazia è il nano che ti arresta[…]) e l’adolescente sessantottino che denunciava i vizi della borghesia “vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia. Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia il vento un giorno ti spazzerà via”. Ma era anche lo stesso che negli ultimi anni a quest’ultimo verso soleva aggiungere un “forse”, “forse il vento ti spazzerà via”(in un amaro e “nichilistico” realismo dei tempi). Era però anche colui che, discostandosi dal politico e dal sociale, in vena melanconica e un po’ esistenzialista, scriveva uno struggente pezzo al padre defunto “quello che mi resta dei tuoi giorni sono le parole dolci che mi riempiono la gola e che oramai non posso dirti” o dedicava canzoni d’amore alla moglie come “Principessa Messamale”.

In queste ore come me, e molto meglio di me (penso all’intellettuale Fulvio Abbate o al giornalista Cecchino Antonini), ognuno tenta di commemorare la sua morte attraverso ricordi, pezzi di discorsi e di conversazioni, ognuno cerca di farlo con tutta la gioia possibile perché sa che Claudio non ci avrebbe voluto tristi di fronte la sua dipartita, ma ci vorrebbe forse ancora gioiosi di difendere quelle conquiste che la sua generazione ottenne con gioia e che oggi ci stanno sottraendo e di andare avanti, di continuare la lotta. Certi artisti, dotati di talento, ma anche della giusta tempra, della “santa” umiltà e al tempo stesso, più o meno a loro modo, portavoce dello spirito dei tempi, delle contraddizioni, delle pulsioni, di una stagione di lotte, non nascono tutti i giorni e ogni generazione riesce a partorirne al massimo un paio: Claudio era uno di questi e per questa precisa ragione mi sento di invitare tutti coloro, soprattutto tra i più giovani, che non lo conoscessero o non lo conoscessero bene di ascoltarlo e di ascoltarlo e di riascoltarlo ancora, con forza e fino all’esaurimento!

Matteo Iammarrone

Nato a Torremaggiore, in Puglia, nel 1995, si è laureato in filosofia all'Università di Bologna. Dopo un master all'Università di Gothenburg (in Svezia), ha ottenuto un dottorato nella stessa città dove tuttora vive, fa ricerca e scrive come corrispondente de La Voce delle lotte.