Dopo oltre due mesi di detenzione in regime di 41bis (tristemente conosciuto come tortura democratica) Cesare Battisti ha firmato il proprio “atto di resa” assumendosi la piena responsabilità degli omicidi a lui attribuiti dal processo-farsa basato su confessioni di membri dei Proletari Armati Comunisti (PAC) torturati.
Tali deposizioni sono state accolte quasi con giubilo dai mass media nostrani, anche se queste sono viziate in modo evidente dalla condizione psicofisica del detenuto: parliamo di un uomo di 64 anni che da decenni ha abbandonato qualsiasi attività politica riconducibile al suo passato nei PAC.

L’interrogatorio, durato nove ore, si è tenuto presso il carcere di Oristano lo scorso 23 marzo, alla presenza del procuratore distrettuale antiterrorismo di Milano Alberto Nobili e della dirigente della Digos Cristina Villa.

 

“Credo di aver cominciato a delinquere a 17/18 anni commettendo rapine e furti nella zona del Lazio: devo precisare che la mia famiglia è sempre stata vicina al Pci per cui essendo rimasto influenzato da questa ideologia ed essendo stato iscritto alla Fgci e poi a Lotta Continua, ho dato diverse volte somme di danaro provenienti da furti e rapine per la causa comunista. Ho commesso i reati di cui sopra almeno fino al 1974, allorché fui arrestato per una rapina e rinchiuso nel carcere di Latina. Erano gli anni delle rivolte carcerarie alle quali partecipai attivamente anche quando fui trasferito prima a Regina Coeli e poi all’Aquila. Fui detenuto fino al 1976 e faccio presente che durante la mia carcerazione ebbi modo di individuare concretamente un gruppo già consolidato nell’ambito della lotta armata”

 

Da questo passaggio si comprende come Battisti avesse, ancor prima dell’approdo alla lotta armata, un preciso orientamento politico poi sfociato nelle prassi tipiche del sottoproletariato, più che dell’avanguardia politica “comunista”. Smentita dunque la teoria secondo cui l’ex attivista dei PAC era un malvivente comune finito casualmente tra le fila dei “rossi”.
Ma veniamo alle confessioni degli omicidi.

 

“Il primo è quello del maresciallo Santoro, capo delle guardie carcerarie di Udine. L’indicazione di commettere l’azione venne dai compagni del Veneto per le torture commesse nel carcere a carico dei detenuti politici. Partecipai all’azione esplodendo soltanto io i colpi di arma da fuoco che causarono la morte di Santoro. Per quello che posso dire, ho appreso che Santoro si era comportato in modo molto più violento di Nigro. La ricostruzione di questo omicidio presente nella sentenza è esatta”

 

Innanzitutto va ricordato che ai tempi Cesare Battisti venne condannato in contumacia, senza uno straccio di prova a parte le invettive sconclusionate di Pietro Mutti; il maresciallo Antonio Santoro fu ucciso proprio dal Mutti assieme a Diego Giacomini, il piano fu progettato da Andrea Cavallina e ancora da Mutti che in prima battuta accusò Battisti dell’omicidio per poi cambiare versione in seguito alle esternazioni di Giacomini.


“Per quanto riguarda gli omicidi Sabadin e Torregiani, avvenuti lo stesso giorno, uno in Veneto e l’altro a Milano, ammetto di aver partecipato al secondo episodio con un ruolo di copertura dell’azione” e ancora “la maggioranza di noi voleva punirli, ma non ucciderli. Se loro avevano ucciso, noi volevamo mostrare un intento punitivo senza equipararci a loro. Tuttavia accadde che il Torregiani, come appresi dai miei compagni, reagì sparando e pertanto il volume di fuoco nei suoi confronti fu tale da determinarne la morte. Per quanto riguarda Sabadin – azione a cui partecipai come copertura – voglio precisare che anche per lui la maggioranza del nostro gruppo aveva deciso di procedere al solo ferimento. C’erano state discussioni anche accese sulla sorte del Sabadin, ma alla fine era prevalsa la linea che io, insieme ad altri, avevo sostenuto: quella di non uccidere. Accadde però che la persona incaricata dell’azione uccise Sabadin”

 

Ancora una volta Mutti incolperà Battisti di essere il mandante nell’agguato in cui muore Pier Luigi Torregiani (il figlio Alberto rimane paralizzato in seguito al colpo accidentale partito dalla pistola del padre), cosa improbabile dal momento che Battisti era un semplice attivista come altri, non certo un capo, mentre nel delitto Sabbadin avvenuto in contemporanea con quello Torregiani, l’esecutore reo confesso è Diego Giacomini e non c’è alcuna prova capace di certificare la presenza di Battisti in quel frangente.


“Per quanto poi riguarda l’omicidio di Andrea Campagna, al quale io ho partecipato sparando, l’indicazione è stata data dal collettivo di “Zona sud” in quanto Campagna era stato ritenuto uno dei principali responsabili di una retata contro i compagni del collettivo Barona: questi compagni erano poi stati torturati in caserma. Lui conosceva bene i soggetti del collettivo in quanto il suocero abitava in quella zona. Per Campagna fu decisa la morte nel corso di una riunione dei Pac e io mi sono reso disponibile all’azione”

 

Dai testi del processo di primo grado emerse che gli assassini erano due: più precisamente un uomo alto 1,90 cm biondo e barbuto ed una donna, al contrario Battisti non va oltre 1,70 cm e non è neppure biondo. Per quell’omicidio confessò Giuseppe Memeo, precisando però di non essere stato lui a sparare, anche in quell’occasione Pietro Mutti punta il dito contro Battisti reo di aver ucciso il poliziotto facendo pure il nome di una complice che venne in seguito prosciolta in quanto estranea ai fatti.
Il soggetto sul quale si basa l’intero impianto accusatorio viene così descritto dalla Cassazione nel 1993: “Questo pentito è uno specialista nei giochi di prestigio tra i suoi diversi complici, come quando introduce Battisti nella rapina di viale Fulvio Testi per salvare Falcone (…) o ancora Lavazza o Bergamin in luogo di Marco Masala in due rapine veronesi. Del resto, Pietro Mutti utilizza l’arma della menzogna anche a proprio favore, come quando nega di avere partecipato, con l’impiego di armi da fuoco, al ferimento di Rossanigo o all’omicidio Santoro; per il quale era d’altra parte stato denunciato dalla Digos di Milano e dai Cc di Udine. Ecco perché le sue confessioni non possono essere considerate spontanee”.
In quasi quarant’anni l’accusa non è stata in grado di opporre, lo ripetiamo, una prova che sia una pertanto se il processo si fosse svolto in maniera regolare Cesare Battisti sarebbe stato assolto ma qui di regolare c’è ben poco: un’istruttoria scaturita dalle confessioni ottenute per mezzo della tortura, testimonianze raccolte da persone mentalmente disturbate e da minorenni, un elemento giudicato inaffidabile dalla stessa Cassazione usato come escamotage per inasprire in modo esorbitante la pena nel quadro dell’applicazione di leggi speciali contro il “terrorismo rosso”.
Spesso Tv e giornali italiani puntano il dito contro la violazione dei diritti umani soprattutto quando ciò avviene nei paesi extraeuropei, una coscienziosità che viene meno quando si tratta di esporre nel dettaglio i soprusi di casa nostra dato che in queste settimane abbiamo assistito soltanto all’unanime coro indignato privo di argomenti.
Nessuno ha provato a spiegare il contesto in cui sono svolte le vicende, nessuno ha provato ad approfondire per dare un più nitido quadro della situazione, la superficialità ha unito stampa e istituzioni come in una dittatura.
Si è aperta inoltre la caccia ai difensori del reo (italiani e non) poiché l’atto di abiura dev’essere assoluto, guai a lasciare anche un solo spiraglio di dubbio; ed è probabile che siffatta concitazione abbia fatto “dimenticare” lo stato detentivo di Cesare Battisti: tortura democratica o soft, pur sempre di tortura si tratta, pure in questo caso non abbiamo a che fare con una regolare procedura.
Di conseguenza le ormai famigerate confessioni sono da considerare non attendibili, com’è possibile condannare una persona sulla base di un pentimento??
In realtà le dinamiche che si sono verificate nei decenni confermano il regolamento di conti perpetrato coscientemente dallo Stato, e con quello spirito di rivalsa si sta consumando una vendetta, altro che giustizia! La damnatio memoriae serve proprio a rimuovere qualsiasi traccia della lotta sociale e politica più che decennale, partita con il ‘68 italiano e internazionale, per attaccare a testa bassa i diritti acquisiti con le lotte di quel periodo (sciopero, aborto ecc.).

Battisti va liberato in primis per mancanza di prove, in secondo luogo in quanto uomo da tempo lontano da qualsivoglia militanza politica, men che meno lottarmatista, che non costituisce alcun “pericolo” per nessuno, nemmeno per i borghesi e i leghisti che ancora così tanto lo temono e lo odiano.

Roger Savadogo

Nato a Venezia nel 1988, vive a Brescia. Operaio, è studioso e appassionato di sottoculture giovanili, ultras e skinhead in particolare.