Ci siamo, è arrivato il 50° anniversario dei moti di Stonewall. Associazioni, collettivi e comitati pride sono in visibilio: mostre, slogan, grafiche, comunicati con excursus storici o anche un semplice ringraziamento al termine di un documento. E come si potrebbe non fremere quando si commemora un evento così fondante, in cui buona parte della gaia mitologia colloca il punto di passaggio tra la preistoria e la storia delle militanze trans* e frocie?

A New York persino la moglie del sindaco, Chirlane McCray, si è mossa in prima persona per supportare la costruzione di un monumento che celebri due figure centrali di Stonewall: Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera. Peccato che entrambe siano morte – l’una forse uccisa, l’altra portata via da un tumore al fegato in seguito a svariati tentativi di suicidio – dopo essere state abbandonate dalla stessa militanza che hanno contribuito a costruire , e dopo aver passato la vita usando letteralmente il proprio corpo, come sex workers, per raccogliere i fondi per sostenere le attività dello Street Transvestite Action Revolutionaries (STAR), gruppo da loro fondato per dare accoglienza alle persone trans* senzatetto.

Neanche a dirlo, monsieur le Capitale ha immediatamente annusato questo surplus di entusiasmo, e non c’è nulla che attiri gli squali del mercato più del sangue fresco di emozioni da cui poter estrarre profitto. E allora, alla consueta abitudine di dipingere le coscienze aziendali e politiche di color arcobaleno – indaco escluso, che tanto nessun* sa che colore sia davvero –, si è aggiunta la ricerca di un bel pezzettino di Stonewall da incorniciare.

Quant’è bello il doodle di Google del 4 giugno con la storia di Stonewall, eh? Così tenero e sorridente, neanche una traccia della violenza a cui le persone LGBTQ+ venivano sottoposte dalla città di New York. Come se i moti di Stonewall non fossero esplosi dalla benedetta rabbia di chi veniva continuamente res* invisibile e, nel silenzio dell’invisibilità, arrestat*, picchiat*, sfrattat* o uccis*.

Ma, soprattutto, quant’è bravo il signor Barilla che, dopo averci chiesto di non disturbare la famiglia tradizionale, offre un bus per mandare i propri dipendenti al pride di Milano? Sarà mica che gli han fatto capire quanto valore si può estrarre dal mondo LGBTQ+, non solo come bacino di consumatori, ma anche come serbatoio di forza-lavoro dotata di un valore aggiunto per il “diversity management”?

Diciamocelo, la storia di Stonewall è in una situazione estremamente precaria. L’evento è diventato mito, il mito una memoria, la memoria una metafora e la metafora un simbolo, e quel simbolo, mai come ora alla ribalta del palcoscenico, perfettamente visibile e sgargiante nel suo arcobaleno, dietro alle quinte viene man mano svuotato, cesellato e trasformato in una marionetta sventolabile all’occasione, non più per sovvertire, bensì per (ri)produrre: valore d’acquisto, produttività aziendale, responsabilità sociale d’azienda, legittimazione delle violenze geopolitiche, sentimenti coloniali non troppo rimossi.

Per dirla con una metafora, quale miglior modo di catturare l’immensa potenza creativa delle api se non costruendo un alveare artificiale che assomiglia alle loro case? Da lì si può estrarre il miele e sostituirlo con uno sciroppino dolce, che permette di sopravvivere per un po’, ma di fatto è insufficiente. E non credo sia necessario dire da cos’è costituito quello sporadico sciroppino istituzionale, così come credo non sia necessario ricordare che, come per le api, il mondo intorno a noi si fa di giorno in giorno sempre più invivibile e ci ricatta con quello stesso sciroppo che, unica strada lasciata aperta per la nostra sopravvivenza, ci rinchiude in trappola.

Eppure, proprio ora abbiamo bisogno che Stonewall non solo non venga mortificato e neanche solo ricordato, ma che la sua complessa eredità storica, politica e sociale venga assunta e continuata.

Certo, ogni evento si ri-trasforma in continuazione attraverso il racconto e nessuna memoria è fedele all’originale. La “vera” sequenza di fatti e azioni dell’evento Stonewall è quasi diventata irrintracciabile nel processo che ha costruito il mito Stonewall: un tacco? un mattone? una bottiglia? È stata Marsha P. Johnson, Sylvia Rivera o Stormé DeLarverie a iniziare? La rivolta è nata all’interno dello Stonewall Inn o dalle persone che si sono man mano avvicinate dall’esterno del locale?

Le cronache dettagliate non mancano ovviamente, ma non è necessaria una ricostruzione storiografica puntuale per intravedere alcune delle storture e delle contraddizioni che la celebrazione del 50° anniversario di Stonewall ha fatto deflagrare nel panorama dell’attivismo LGBTQ+ mainstream italiano. È sufficiente ricordare alcuni punti fermi.

Stonewall was a (police) riot. Non si tratta semplicemente di uno slogan, i moti di Stonewall sono stati letteralmente una rivolta contro l’ennesimo atto di intimidazione realizzato dalla polizia con il mandato del sindaco di New York. Una rivolta fisica che ha coinvolto 2000 persone e che, con sassi, bottiglie e mattoni, ha obbligato la polizia a rifugiarsi per una notte intera dentro allo Stonewall Inn stesso. Non è stata una negoziazione con le istituzioni o un macchiavellico invito a partecipare ai partiti fascisti con lo scopo di dimostrare ciò che è già palese: che sono omo-lesbo-bi-transfobi e fascisti. È stato un conflitto aperto, diretto ed esplicito contro uno dei principali meccanismi di repressione delle sessualità e dei generi non normativi: la violenza patriarcale.

Conflitto e rottura sono le parole d’ordine e si possono realizzare in molti modi, anche non fisici. Ma una cosa è certa: se si vuole il patrocinio della Lega, difendere la libertà d’espressione di esponenti di Forza Nuova o la polizia color arcobaleno (che, per inciso, poi anche in quei contesti protegge i gruppi neonazisti), quella di Stonewall non è esattamente La Storia giusta.

Stonewall è stato da subito un conflitto intersezionale ed attraversato da molteplici sessualità e generi non-normativi. Prendiamo Marsha P. Johnson, donna trans afrodiscendente e sex worker. Prendiamo Sylvia Rivera, donna trans bisessuale e sex worker di origini venezuelane e portoricane, abbandonata a soli 11 anni dalla famiglia per la sua non conformità di genere. Prendiamo Stormé DeLarverie, donne lesbica butch con madre afrodiscendente e padre caucasico. Ma prendiamo tutt* quelle persone queer senzatetto che nello Stonewall Inn e in Greenwich Village avevano trovato un rifugio. Classe, genere, sessualità, linee del colore. Tutto era già contenuto in quella settimana di rivolta. Tutta la giusta rabbia di chi veniva continuamente marginalizzat* da più fronti. E questo è assolutamente fondamentale da ricordare per ribadire che le istanze legate alle soggettività trans*, agli orientamenti sessuali esterni alla dicotomia gay-etero, al razzismo, al classismo e allo slut-shaming non sono assolutamente secondarie e non devono essere pensate come aperture successive. Erano presenti da subito e, semmai, sono state immediatamente invisibilizzate, portando negli anni ad un “Gay” Pride bianco ed imborghesito.

La storia di Stonewall, così come le persone che l’hanno realizzata, non sono un cesto di frutta da cui prender quel che più aggrada: riguarda il diritto alla casa, la precarietà economica, lo sfruttamento lavorativo, le politiche migratorie, il daspo urbano, le ordinanze contro il degrado, la tratta della prostituzione, le violenze fra le mura domestiche, ed ogni forma di oppressione volta a rendere invivibile la vita di chi non produce valore e non riproduce le norme. Come possiamo quindi voler collaborare, se Stonewall è il nostro riferimento, con quelle forze politiche ed economiche che stanno demolendo i diritti sociali e trasformando i confini nazionali in soglie tra la vita e la morte? E non si tratta solo della Lega, come il decreto Minniti-Orlando ci insegna bene.

Stonewall è stata una lotta contro il lucro sulla nostra precarietà. Un particolare meno conosciuto della storia dei moti è che lo Stonewall Inn era nelle mani della mafia, che aveva conquistato il monopolio su tutta la vita notturna LGBTQ+ grazie all’incrocio tra proibizionismo e marginalizzazione politica delle sessualità e dei generi non normativi. In pratica, era l’unica ad offrire uno spazio di ritrovo. Ma quello spazio si pagava caro e non solo consumando nel bar. Molt* diventarono forza-lavoro facilmente ricattabile e a basso costo per lo spaccio e la prostituzione. Durante i moti di Stonewall la rabbia fu anche diretta a cacciare la mafia e, con essa, lo sfruttamento della condizione precaria a cui il sistema politico consegna le vite delle persone LGBTQ+: 5000 volantini recitanti “Get the Mafia and the Cops out of Gay Bars” vennero distribuiti nella terza giornata di rivolta.

Ora, la dominazione mafiosa sugli spazi LGBTQ+ può non essere più il nostro problema principale – anche se forse la questione della tratta e dello sfruttamento della prostituzione dovrebbe essere ancora essere una nostra priorità – ma la storia di Stonewall ci invita in ogni caso a riflettere sulle nostre posizioni all’interno del mercato e su come le nostre “diversità” vengono convertite in valore economico e politico. E qui il terreno si fa estremamente complesso. Sicuramente qui rientra tutto il discorso della Pink Economy, cioè la costruzione di una specifica fetta di prodotti e servizi rivolti ad una clientela LGBTQ+, nonché la trasformazione dell’etichetta friendly in un marchio economico. Ma si tratta anche del nostro essere soggetti precari e ricattabili laddove, per la nostra sopravvivenza, dobbiamo nascondere la nostra “diversità” e dunque accettiamo lavori sottopagati in mancanza di un welfare che ci permetta di non dover decidere tra vita e libertà. In alcuni casi, la mancanza di quel welfare è così radicale da sembrarci naturale, quindi diventiamo imprenditori/impreditrici di noi stess* e ci convinciamo che se altr* non ce la fanno, allora è perché non si sono impegnat* abbastanza a sfruttare o contenere la propria diversità. Si tratta anche di come la nostra “diversità” può diventare estremamente produttiva per le aziende: possiamo essere amat* per la nostra sensibilità, apprezzat* per la nostra creatività, trasformat* in caricature per far divertire, in corpi per eccitare, in storie struggenti per commuovere, in supporters e mascottes per legittimare. In ogni caso, questa “diversità” non deve essere eccessiva: una spolverata di curiosità dietro ad una teca che non turbi o ecciti nessun* troppo seriamente. Anzi, se la nostra diversità in fondo riconferma la norma, tanto meglio.

E se, diventando pienamente consapevoli del “valore” che ci viene estorto e della potenza dei nostri desideri e dei nostri corpi, facessimo esplodere la nostra piena “diversità”, non più PER, ma CONTRO e OLTRE le logiche del profitto, quale rivoluzione potremmo generare?


David Primo

 


Note

[1] Come Susan Stryker – figura topica dell’attivismo trans* – ricorda, Jim Fouratt – uno dei fondatori del Gay Liberation Front e tra i protagonisti dei moti di Stonewall – nel 1995, ad una conferenza sulla storia dei movimenti gay e lesbici, additò le persone trans* come mentalmente disturbate, pericolose e reazionarie, e per questo da tenere a distanza dalle mobilitazioni politiche del mondo queer. La storia ha un lieto fine: Stryker non rimase in silenzio, gli rispose a tono facendolo fuggire umiliato e con la coda tra le gambe.

Nato a Venezia nel 1990. Ha fatto il dottorato in Scienze Sociali all'Università di Padova. Risiede in provincia di Venezia e milita all'interno di Non Una Di Meno Treviso.